14/10/2025
Scegliere la propria strada non è facile.
Non lo è mai stato.
Viviamo immersi in un intreccio fitto di aspettative, condizionamenti, voci esterne che cercano di guidarci, spingerci, indirizzarci verso ciò che dovremmo essere, piuttosto che verso ciò che sentiamo di essere.
Eppure, c’è una spinta silenziosa, profonda, che ci abita.
Una voce interiore che, anche quando è soffocata, non smette di parlare.
Seguirla richiede ascolto. Ma soprattutto: richiede coraggio.
Il coraggio di non compiacere.
Il coraggio di non obbedire a un destino che non ci somiglia.
Il coraggio di dire: “No, questa non è la mia strada”.
Durante i miei incontri con le persone, ho avuto la fortuna di ascoltare molte storie. Alcune fragili, altre potenti. Tutte, in qualche modo, autentiche. Storie di chi, a un certo punto, ha scelto di seguire il proprio sentire, anche a costo di andare contro il volere delle persone più care.
Mi viene in mente la signora che avrebbe dovuto diventare insegnante, come desiderava sua madre. Una donna brillante, educata, con ottime capacità relazionali. Era “perfetta” per l’insegnamento. Ma lei sentiva altro. Sentiva colore, materia, forma. L’arte le parlava più dei libri di pedagogia. Ha seguito quella voce, si è messa a dipingere, a scolpire, a vivere delle sue opere. Non è stato facile: delusione in famiglia, dubbi, rinunce economiche. Ma oggi, mentre racconta la sua storia, le brillano gli occhi. Perché è diventata ciò che doveva essere.
O penso a quel ragazzo giovane, brillante, figlio di imprenditori. La famiglia aveva già pronto il futuro per lui: un posto in azienda, sicurezze, status. Ma lui, fin da adolescente, si poneva domande scomode: “Perché siamo qui?”, “Cosa significa vivere bene?”, “Come distinguere il vero dal falso?”. Ha lasciato l’azienda e si è iscritto a Filosofia. Anni di discussioni accese in famiglia, di porte chiuse. Eppure, oggi è un ricercatore appassionato, insegna, scrive. E soprattutto: si sente vivo.
E poi c’è il matematico, con una carriera promettente in ambito accademico, che un giorno ha deciso di mollare tutto per aprire una pizzeria. “Non aveva senso per nessuno”, racconta. “Ma per me sì. Cucinare mi mette in contatto con qualcosa di essenziale, di concreto. È il mio modo di fare del bene agli altri”.
Cosa accomuna queste persone?
Una scelta profonda, quasi sacra: quella di onorare la propria autenticità.
Anche quando significa deludere chi ci ama.
Anche quando ci si sente soli, giudicati, incompresi.
Seguire ciò per cui siamo qui è un atto di responsabilità verso la nostra unicità.
È domandarci, ogni giorno: “Quello che sto facendo mi rappresenta davvero? Mi accende o mi spegne? Mi fa sentire parte della vita o solo un ingranaggio che gira?”
È un cammino, non una meta. A volte tortuoso, spesso solitario, sempre rivelatore.
Chi lo intraprende sa che non esiste garanzia di successo, ma esiste qualcosa di più prezioso: l’essere fedele a se stessi! Perché alla fine, come diceva Jung, “la vocazione non è qualcosa che si sceglie, ma qualcosa che si riconosce”.
E quando la riconosci, non puoi più far finta di niente.