Dott. Giuseppe Giovanni Circhirillo - Psicologo

Dott. Giuseppe Giovanni Circhirillo - Psicologo Narrare, ricordare, ricostruire...
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Ha studiato psicoterapia relazionale presso il C.T.R. di Catania,.

Tra i principali interesse vi è la terapia ricostruttiva interpersonale di Lorna Smith Benjamin e la psicologia etno-sistemica. Ha studiato psicoterapia relazionale presso il C.T.R. di Catania, sede del Centro Studi di Terapia della Famiglia di Roma.

René Girard, filosofo e antropologo francese, ci parla del desiderio come di un movimento mimetico: non desideriamo mai ...
17/10/2025

René Girard, filosofo e antropologo francese, ci parla del desiderio come di un movimento mimetico: non desideriamo mai in modo completamente autonomo, ma attraverso l’altro. È l’altro a indicarci, con il suo stesso desiderare, ciò che vale la pena volere. Nel rapporto tra padre e figlio, ad esempio, questo meccanismo può assumere un significato profondo e talvolta conflittuale. Il padre diventa modello, colui da cui il figlio apprende come stare al mondo, ma proprio in questa imitazione può nascere una tensione. Il desiderio di essere come lui si intreccia con quello, inevitabile, di differenziarsene.

Girard parlerebbe qui di rivalità mimetica: l’altro, amato e ammirato, diventa anche il limite da superare. Nella crescita, il figlio cerca di appropriarsi del mondo attraverso lo sguardo del padre, e questo può essere vissuto come una minaccia da chi teme di essere sostituito, oppure come una naturale eredità da chi sa lasciare spazio.

In questa prospettiva, troviamo un’interessante risonanza con il pensiero di John Byng-Hall, che nel suo lavoro sui copioni familiari mostra come ogni famiglia trasmetta ruoli, aspettative e narrazioni di sé. Il figlio, per appartenere, si muove dentro queste storie, cercando di essere fedele a un copione che lo precede e, allo stesso tempo, di scrivere la propria parte. Anche qui, la tensione tra imitazione e autonomia è al centro del processo di crescita.

Girard e Byng-Hall, pur provenendo da linguaggi diversi, si incontrano nel descrivere lo stesso movimento: quello di chi cerca di diventare se stesso attraverso la relazione con chi lo ha generato. La rivalità, in questa luce, non è soltanto scontro ma passaggio. Quando viene riconosciuta e attraversata, può trasformarsi in continuità, in trasmissione, in un modo nuovo di appartenere senza perdersi.

Ogni figlio che imita il padre non vuole togliergli il posto, ma cercare il proprio, a partire dal suo sguardo.

Nel corso della mia esperienza professionale ho avuto l’opportunità di lavorare sia nei sistemi di prima che di seconda ...
12/09/2025

Nel corso della mia esperienza professionale ho avuto l’opportunità di lavorare sia nei sistemi di prima che di seconda accoglienza, fino ad approdare oggi alla supervisione. In questo cammino ho incontrato numerose storie di vita che mi hanno insegnato come i processi migratori non possano essere letti unicamente nella loro dimensione individuale, ma vadano compresi come fenomeni che coinvolgono intere reti familiari, comunitarie e sociali.

Il mio percorso in psicoterapia sistemico-relazionale, unito a un profondo interesse per la sociologia delle migrazioni, mi ha aiutato a sviluppare uno sguardo capace di accogliere la complessità: integrare le differenze culturali con le dinamiche affettive, tenere insieme i vissuti personali con i contesti di appartenenza, cogliere le interdipendenze più che le singole traiettorie. Come ricordava Gregory Bateson, non è possibile comprendere la vita psichica senza considerare il contesto relazionale e ambientale in cui essa prende forma. Allo stesso modo, l’etnopsicologia ci invita a non separare mai la dimensione culturale da quella emotiva, evitando semplificazioni riduttive.

Le riflessioni di Georges Devereux sul bisogno di un approccio transculturale e l’esperienza di Tobie Nathan nell’etnopsichiatria rappresentano, in questo senso, riferimenti fondamentali: entrambi offrono strumenti preziosi per leggere la migrazione come un evento trasformativo che ridefinisce legami, appartenenze e possibilità di futuro, più che come un semplice spostamento individuale.

Ogni incontro in questi contesti diventa per me una lezione di resilienza e di umanità. Porto con me sguardi, gesti e narrazioni come parte viva del mio modo di fare psicoterapia, nella consapevolezza che ogni storia custodisce una ricchezza di significati che merita di essere riconosciuta e rispettata.

In terapia si parla spesso del “tempo”, ma raramente ci si ferma davvero a pensare a quanti tempi convivono nella stanza...
02/08/2025

In terapia si parla spesso del “tempo”, ma raramente ci si ferma davvero a pensare a quanti tempi convivono nella stanza terapeutica. C’è il tempo del sintomo, che può insistere da anni o esplodere all’improvviso. Il tempo del paziente, che vorrebbe cambiare subito ma non riesce ancora a lasciar andare. Il tempo della famiglia, che spesso si muove più lentamente, legata a copioni e ruoli sedimentati. E poi c’è il tempo del terapeuta, che osserva, aspetta, ascolta, cercando quel momento giusto in cui qualcosa può iniziare a trasformarsi.

Luigi Boscolo e Paolo Bertrando ci hanno insegnato che il tempo in terapia non è solo una linea retta che va dal passato al futuro. È un tempo circolare, soggettivo, relazionale. È fatto di memorie che ritornano, di storie che cambiano significato, di legami che si riscrivono. A volte un evento accaduto dieci anni fa entra nella seduta come se fosse successo ieri. Altre volte un’intuizione nata oggi comincia a cambiare il senso del passato.

Non esiste un “tempo giusto” valido per tutti. Ogni persona ha il suo ritmo. Ogni sistema ha il suo modo di attraversare il dolore, il cambiamento, la guarigione. Il compito del terapeuta non è forzare i tempi, ma ascoltarli, rispettarli, accoglierli. Perché certe parole hanno bisogno di maturare. Certi silenzi hanno bisogno di essere custoditi. E certi passaggi, semplicemente, non si possono anticipare.

Il cambiamento, in fondo, non arriva quando vogliamo noi. Arriva quando il sistema è pronto. E quel momento, come scrivevano Boscolo e Bertrando, non lo si può prevedere, ma solo riconoscere, con delicatezza, quando si affaccia.

Martina, malata da anni, ha dovuto recarsi in Svizzera per accedere legalmente a un suicidio assistito. Ha affrontato la...
01/08/2025

Martina, malata da anni, ha dovuto recarsi in Svizzera per accedere legalmente a un suicidio assistito. Ha affrontato la sofferenza con coraggio, chiedendo semplicemente di poter restare padrona della propria vita fino alla fine. Credo fermamente che la libertà e la dignità non debbano finire dove inizia la malattia. Non si sceglie di morire per debolezza, ma per amore della propria dignità, quando ogni altra possibilità è stata esaurita. Sostenere il diritto all’eutanasia o al suicidio assistito non significa “togliere valore alla vita”. Significa, al contrario, riconoscere quanto essa sia sacra tanto da meritare che ciascuno possa scegliere quando lasciarla, con rispetto e accompagnamento. In terapia ascoltiamo spesso la fatica, il dolore, la voglia di essere visti, capiti, non giudicati. Il compito di chi cura non è trattenere a forza, ma accompagnare con verità, con umanità, fino alla soglia. Serve una legge giusta, che non costringa più nessuno a “espatriare per morire”. È tempo di colmare questo vuoto con responsabilità, compassione e buon senso. Sono, con convinzione, favorevole al diritto al fine vita. Non è una resa. È un atto profondo di rispetto per la libertà e la sofferenza altrui.

Nel castello della Bella e la Bestia, l’ala ovest è uno spazio proibito. Lì, la Bestia custodisce la rosa incantata, emb...
25/07/2025

Nel castello della Bella e la Bestia, l’ala ovest è uno spazio proibito. Lì, la Bestia custodisce la rosa incantata, emblema della maledizione, del tempo che passa e di una ferita originaria non sanata. Nessuno può entrarci. Lì si concentrano la vergogna, la perdita, il senso di colpa. È uno spazio off-limits, sigillato dalla paura: paura di vedere, di essere visti, di toccare ciò che fa troppo male. L'ala ovest rappresenta metaforicamente il luogo psichico del trauma, del dolore rimosso o non riconosciuto, quella parte della storia personale che resta congelata, cronicamente esclusa dal discorso e dall’identità narrativa. È l’inconscio familiare o individuale che continua a pulsare sotto traccia, generando sintomi, agiti, distanze, solitudini. L’ala ovest è dunque lo spazio del non detto e dell’irrisolto, ma anche del potenziale cambiamento. Quando Belle entra e vede, qualcosa cambia: la ferita può finalmente essere testimoniata. E la Bestia, che inizialmente reagisce con rabbia, si lascia perturbare. Come accade spesso in terapia, quando il terapeuta tocca un punto nodale e il paziente risponde con ritiro, irritazione, ambivalenza. Ma poi resta. E da lì inizia il vero lavoro. La rosa che perde i petali è il tempo psichico: più si evita l’accesso al dolore, più si avvicina la cristallizzazione della sofferenza. Ma se qualcuno entra, guarda, e non scappa, allora si può riscrivere la storia.

Indirizzo

Agrigento
92100

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