17/04/2025
Ne vogliamo parlare?
‘Adolescence’, la miniserie inglese disponibile su Netflix ha raggiunto ormai milioni di spettatori in tutto il mondo e causato un certo sconcerto in noi adulti e favorito lo sviluppo di concitate discussioni. La serie punta le telecamere sul mondo dei giovani d’oggi e racconta la vicenda di un 13enne, Jamie, che uccide a coltellate una compagna che l’aveva rifiutato. La tragedia coglie di sorpresa genitori ed insegnanti, che sino ad allora lo avevano visto come un ragazzo a modo piuttosto sveglio e intelligente. Le indagini invece mettono in luce l’aspetto ombra del giovane, scoprendo che sui social fa parte degli ‘incel’, i celibi involontari, un gruppo che nutre forte risentimento verso le coetanee ree di provocare la loro triste condizione. Gli episodi, girati in piano sequenza, senza stacchi, mostrano le peculiari modalità con cui i componenti del gruppo comunicavano tra di loro, usando fino a notte inoltrata le nuove tecnologie e adoperando un linguaggio fatto di emoticon, redpill, blupill o nanosfera solo a loro intellegibile. Da ciò la tendenza nei dibattiti ad attribuire a Technè, agli strumenti tecnologici la causa dei malesseri dei ragazzi.
Nella serie però compare anche la figura di Adam, il figlio del poliziotto che indaga sul caso di omicidio e che frequenta la stessa scuola di Jamie. Costui, malgrado venga dileggiato dai suoi compagni e conosca bene codici e social per lo più clandestini frequentati dai coetanei, se ne tiene alla larga ed anzi aiuta il padre a decifrare il linguaggio adoperato da Jamie e dal suo gruppo, favorendo la soluzione del caso.
Adam pertanto dimostra di usare le nuove tecnologie, il cellulare, in maniera più ponderata e utile, Jamie invece le utilizza con l’intento di trovare un modo fittizio per alleviare i suoi disagi. Che non dipendono allora da telefonini e computer ma, come ormai tutte le scuole di Psicologia asseriscono, dalle esperienze vissute dal bimbo nella primissima infanzia. E tornando a Jamie, nella scena finale i genitori ‘confessano’ le loro possibili mancanze nel rapporto educativo con il figlio.
Il padre così riporta la sua scarsa presenza casalinga dovuta a ragioni lavorative e la tendenza a stimolare in Jamie il perseguimento di mete affermative ipervirili (la riuscita nel calcio o nella boxe), ambiti in cui però il piccolo non evidenziava particolari attitudini, sperimentando così inferiorità e frustrazioni. La madre invece riconosce che, malgrado finiva di lavorare prima del marito, poi a casa non era stata in grado di cogliere più a fondo i bisogni e i segnali di sofferenza del figlio che si esprimevano anche con il disegno, tramite la rappresentazione di mostri.
In ultima analisi, allora, se volgiamo azzardare un’interpretazione psicodinamica a questa storia, che rimane una fiction, si può dire che Jamie sia stato un bambino molto sensibile, più portato per l’arte, per il disegno che per la competizione fisica. E che ha sperimentato vissuti di mancanza e scarsa sintonia affettiva nella relazione con le figure parentali, strutturandosi in maniera poco solida (al contrario di Adam) e sviluppando sentimenti di inadeguatezza e forte aggressività. Che ha cercato di compensare facendo parte di un gruppo di coetanei con similari caratteristiche e che comunicava usando estesamente le nuove tecnologie. Le quali, pertanto, non appaiono la causa dei malesseri, ma appunto un modo distorto per lenirli.
La propensione, quindi, ad attribuire all’esterno, ad ‘altro’ la genesi di alcune distorsioni, può essere un modo utilizzato da noi adulti per evitare quell’insight, quella dolorosa autocritica fatta dai genitori di Jamie alla fine della miniserie?