17/10/2025
“Pretendi troppo”
Me lo sento dire spesso.
“Pretendi troppo dai docenti.”
“Pretendi troppo dai collaboratori.”
“Pretendi troppo dai colleghi, dai terapisti, dai medici.”
E ogni volta mi chiedo: è davvero pretendere troppo… o semplicemente non voler accettare il troppo poco?
Viviamo in un tempo in cui si moltiplicano titoli, attestati, corsi e certificazioni, ma dove spesso manca ciò che davvero fa la differenza: la competenza autentica, l’esperienza viva, la capacità di “esserci” con consapevolezza e umanità
Ci sono persone che sanno spiegare, ma non sanno ascoltare; che conoscono le parole giuste, ma non sanno guardare negli occhi chi hanno davanti; che parlano di empatia, ma non la praticano; che sanno cosa dire ma non cosa fare
Sento citare spesso termini come “strumenti compensativi”, “approcci personalizzati”, “inclusione”, “presa in carico globale”. Ma troppe volte queste parole restano vuote, ripetute come formule, scollegate dalla realtà dei ragazzi, delle famiglie, delle difficoltà concrete.
E questo non è solo un limite professionale: è un rischio umano enorme.
Perché dietro ogni nostro errore, ogni leggerezza, ogni superficialità, c’è una vita vera
Una persona, un bambino, un adolescente che si fida di noi, che si affida a noi.
E il nostro errore può lasciare segni profondi, invisibili ma permanenti.
Quando si lavora con la mente, con le emozioni, con la crescita, non stiamo semplicemente “facendo un mestiere”: stiamo toccando vite umane. E se non lo ricordiamo ogni giorno, rischiamo di ferire proprio coloro che dovremmo proteggere.
Non pretendo la perfezione.
Pretendo coscienza, studio coerenza, responsabilità
Pretendo che chi lavora con le persone si formi davvero, si aggiorni, si interroghi, sappia dire “non lo so” e abbia il coraggio di imparare ancora.
Pretendo che ci si metta in gioco, che si rispetti il valore e la fragilità di ogni percorso umano.
Non è “pretendere troppo”.
È chiedere che il nostro lavoro — qualunque esso sia — rispetti la dignità e la fiducia di chi ci sta davanti.
Perché dietro ogni decisione, ogni parola, ogni silenzio, può esserci un danno o una possibilità, una ferita o una rinascita.
E forse sì, nei miei 12 anni di esperienza professionale possono sembrare pochi.
Ma nei miei 35 anni da persona fragile da bambina e poi da adolescente che certe cose le ha vissute sulla propria pelle, ho visto e sentito abbastanza per sapere quanto male può fare la paura di non essere aiutati come si dovrebbe.
Ed è proprio per questo che, oggi, pretendo di più — da me stessa e da chi lavora accanto a me.
Perché so quanto costa non essere visti, non essere capiti, non essere presi davvero in carico.
E perché chi affido o accolgo merita di più del “basta che ci provi”: merita attenzione, competenza, verità e cura autentica.