Dott.ssa psicologa Delia Da Maren

Dott.ssa psicologa Delia Da Maren Laureata nel 2009 in psicologa e attualmente psicoterapeuta in formazione presso il centro di psicologia dinamica integrata all'AT di Padova.

Psicologa presso Servizio Tutela minori. Libera professionista.

07/11/2025

Perché il cervello resiste al cambiamento?

- Omeostasi: il cervello è programmato per mantenere la stabilità e ridurre l’incertezza.
Ogni cambiamento introduce imprevedibilità, e questo può attivare una risposta di stress.

- Sforzo cognitivo: nuovi pensieri o comportamenti richiedono più energia mentale.
Per risparmiare risorse, il cervello tende a tornare ai percorsi neurali più usati — le abitudini.

- Paura e rischio: il cambiamento può attivare l’amigdala, l’area del cervello che rileva minacce e pericoli, generando resistenza o evitamento.

Come le ricompense cambiano tutto:

- Dopamina e rinforzo: quando un nuovo comportamento porta una ricompensa — esterna (come un complimento) o interna (come soddisfazione) — il cervello rilascia dopamina, il neurotrasmettitore che rafforza apprendimento e motivazione.

- Neuroplasticità: il rinforzo positivo incoraggia il cervello a formare e consolidare nuove connessioni neurali, rendendo il nuovo comportamento sempre più naturale.

- Previsione e aspettativa: se il cervello impara ad aspettarsi una ricompensa da un nuovo comportamento, diventa più aperto al cambiamento, riducendo la resistenza.

05/11/2025

LA LUCE DELLE STELLE MORTE — MASSIMO RECALCATI E IL LAVORO INFINITO DEL LUTTO

E se il lutto, diversamente da ciò che pensava Freud, non potesse mai dirsi compiuto del tutto?
Se ogni lutto, anche quello più elaborato, più “accettato”, conservasse sempre un resto, una scheggia, un punto dolente che continua a pulsare dentro di noi?

Ho sempre pensato che esista qualcosa di irriducibile nel dolore della perdita, una ferita che non guarisce mai del tutto.
Possiamo provare a rimarginarla, a darle un senso, ma resta sempre lì: come una cicatrice che, al cambiare del tempo o delle stagioni, torna a farsi sentire.

Freud chiamava lavoro del lutto quel processo psichico che ci consente di sciogliere l’investimento affettivo verso ciò che abbiamo perduto per poterci aprire di nuovo alla vita.
Ma se questo lavoro non potesse mai arrivare alla fine?
Se fosse, piuttosto, un cammino senza approdo, un gesto interminabile, come respirare o amare?

Forse dovremmo accettare che il lutto non è qualcosa che si supera, ma qualcosa che si trasforma.
Che dentro di noi non muore mai davvero ciò che abbiamo amato: cambia forma, si riconfigura, diventa un’altra presenza.
È un’operazione di metamorfosi, un’opera interiore di trasformazione del dolore in significato, della perdita in creazione.

Il lutto, se resta senza lavoro, ci incatena al passato, ci condanna alla paralisi della malinconia.
Ma se trova una via, se riesce a generare senso, allora può aprirci di nuovo alla vita.

È qui che nasce una nuova forma di nostalgia — non quella sterile del rimpianto, ma quella grata, viva, che illumina come la luce delle stelle morte:
una luce che ci raggiunge da un corpo che non esiste più, ma che continua a splendere.

La nostalgia delle stelle morte è questo: la memoria che non spegne, ma accende;
il dolore che non distrugge, ma trasforma;
il passato che non ci trattiene, ma ci invita ad andare avanti.

Il lutto, allora, non è mai solo perdita.
È anche promessa.
È un ritorno di luce — quella che proviene da ciò che abbiamo amato, e che, anche se non c’è più, continua a mostrarci la via.



In queste righe straordinarie, Massimo Recalcati compie un atto di filosofia poetica e di psicologia umana: ridefinisce il lutto non come un compito da portare a termine, ma come un movimento eterno dell’anima.

L’idea freudiana del “lavoro del lutto” — un processo di separazione e di superamento — qui si rovescia in una prospettiva più profonda, quasi spirituale: il lutto non finisce, continua a vivere dentro di noi.
Non come peso, ma come energia trasformativa.

La perdita, dice Recalcati, non si cancella mai davvero.
Ma può essere trasfigurata.
Può generare valore, riconfigurare la nostra visione del mondo, persino accendere nuova vita.

La sua metafora della luce delle stelle morte è un’immagine potentissima: ciò che non c’è più continua a brillare, a parlarci, a orientare il nostro cammino.
Non è più un ritorno nostalgico verso ciò che è stato, ma un modo per vivere più intensamente ciò che ancora ci resta.

In tempi in cui la società sembra chiedere di “riprendersi in fretta”, di “voltare pagina”, Recalcati ci invita invece a rimanere — ad abitare il dolore, ad ascoltarlo, a farlo diventare parola, opera, gesto, creazione.

Perché il vero lavoro del lutto non è dimenticare,
ma riconoscere la luce che ancora brilla —
anche quando la stella è già spenta.

15/08/2025

Prendersi cura di sé significa anche darsi il permesso di STARE su sé stessi, su ciò che ci accade, su ciò che si sente, stare anche sulla propria sofferenza.
Prendersi cura di sé implica accogliere le proprie parti più fragili, senza giudizio, senza colpa, ricordando che il potere lo abbiamo noi: il potere di essere sereni e appagati, così come quello di essere infelici ed arrabbiati. Il potere è sempre il nostro.

Obiettivo di un terapeuta è introdurre una maggior complessità nella vita della gente, nel senso di spezzare cicli rip...
11/08/2025

Obiettivo di un terapeuta è introdurre una maggior complessità nella vita della gente, nel senso di spezzare cicli ripetitivi di comportamento e provocare nuove alternative.
Non desidera semplicemente fare in modo che una persona difficile si conformi, ma vuole mettere nelle mani di quella persona l'iniziativa che le consenta di arrivare a nuove idee e atti che il terapeuta può non avere neppure preso in considerazione.
In questo senso il terapeuta incoraggia l'imprevedibilità.
Il compito terapeutico è provocare un cambiamento, e quindi un comportamento nuovo, che spesso non ci si aspettava.
-JAY HALEY-


11/08/2025

Amore cieco… i piccoli…
Nella visione di Hellinger, i figli sono spesso molto sensibili agli equilibri (o squilibri) della famiglia. Spesso – magari in modo del tutto inconsapevole – cercano di “bilanciare” le sofferenze che intuiscono tra i genitori, tra gli avi, o nelle storie non dette. Questo li spinge, per amore profondo e cieco verso la famiglia, ad assumersi pesi che in realtà non sarebbero loro. Hellinger chiama questo meccanismo “l’amore cieco”, quello dei bambini, che per bisogno di appartenenza si assumono troppe responsabilità emotive.

Una delle idee fondamentali di Hellinger è che i figli “stanno al loro posto” quando sono semplicemente figli, e non si fanno carico del dolore che appartiene ai genitori o agli antenati. Quando possono davvero sentirsi accolti e visti nel loro ruolo, i figli fioriscono e si sentono liberi di vivere la loro vita, senza il peso di ciò che non è loro.

La visione sistemica ci invita a guardare ai figli con profonda tenerezza e rispetto, riconoscendo quanto spesso siano guidati, semplicemente, dall’amore e dal desiderio di appartenenza. È molto rassicurante sapere che ciascuno di noi, lavorando su sé stesso e sulla propria posizione all’interno della famiglia, può liberare anche i figli, lasciandoli essere ciò che sono: figli, e quindi liberi di vivere la propria esistenza senza dover “riparare” o “compensare” il passato.

06/08/2025

La scoperta psicologica più importante del 2025? Non è una tecnica, né una nuova molecola. È un'evidenza che cambia tutto.

Nel 2025, la psicologia ha fatto una scoperta che – a mio parere – segna un punto di svolta nella comprensione del trauma e della mente umana.

🔬 Un gruppo di ricerca internazionale ha dimostrato, con basi neurofisiologiche solide, che l’attaccamento disorganizzato modifica la struttura delle connessioni tra corteccia prefrontale e amigdala già nei primi 18 mesi di vita.

Non è solo teoria: è imaging cerebrale. È misura. È dato.

Questa scoperta dà conferma a ciò che in clinica vediamo da sempre: che i bambini esposti a caregiving caotico, contraddittorio, spaventante o spaventato, sviluppano un cervello che tende alla frammentazione, all’iperattivazione difensiva, e a una rappresentazione instabile di sé e degli altri.

In parole semplici? Non è solo una questione educativa. È biologica. È strutturale.

E non per sempre, no. Ma solo se si interviene con strumenti adeguati, e abbastanza presto.

📚 Per chi lavora come me con la sofferenza psichica, questa scoperta è un’ulteriore chiamata alla responsabilità – ma anche alla speranza.

Perché oggi abbiamo le prove per dire che certi dolori non sono “carattere”. Sono memoria, sono sviluppo, sono adattamenti.

E che la terapia, se profonda, relazionale e costante, può riscrivere perfino la neurologia del trauma.

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