27/10/2025
Lettura da inoltrare a i nostri "decisori" per far comprendere che la medicina che cura, o la cura della medicina, parte dal territorio e dal prendersi cura degli operatori che vi operano.
Cuori anziani tra cure diverse: la gestione dello scompenso cardiaco tra medicina generale e cardiologia
Nel cuore di Stoccolma, un gruppo di ricercatori ha fatto ciò che pochi avevano tentato prima: confrontare davvero, su larga scala, il destino dei pazienti anziani con scompenso cardiaco seguiti esclusivamente dai medici di medicina generale con quello dei pazienti che, almeno una volta negli ultimi cinque anni, avevano avuto accesso a un cardiologo. Il risultato è un affresco nitido, quasi spietato, della realtà quotidiana delle cure primarie europee.
Lo studio, pubblicato nell’ottobre 2025 sul British Journal of General Practice, ha preso in esame l’intera popolazione ultrasessantenne della regione di Stoccolma — oltre mezzo milione di persone — individuando 33.872 individui con diagnosi di scompenso cardiaco. La metà esatta, 17.067, era seguita unicamente in medicina generale.
Questo dato da solo basterebbe a rovesciare molti luoghi comuni. Perché se spesso lo scompenso viene percepito come una condizione “da cardiologi”, i numeri raccontano altro: la maggioranza dei malati vive e viene gestita quotidianamente dai medici di famiglia, fuori dagli ospedali, nei consultori di quartiere, nelle residenze per anziani, nelle case di cura dove il cuore non è solo un muscolo ma una biografia.
I pazienti seguiti esclusivamente in medicina generale avevano in media 81 anni, tre in più rispetto a quelli che avevano avuto contatti con la cardiologia. Erano più spesso donne, più frequentemente sole, con livelli di istruzione e reddito inferiori. Più spesso ricevevano assistenza domiciliare o vivevano in casa di riposo. Erano, in altre parole, i “cuori fragili” della società, quelli per cui la cura quotidiana conta più del farmaco innovativo.
Il paradosso emerge con forza nei dati sulle terapie. La medicina generale, pur gestendo i pazienti più anziani e complessi, è responsabile del 60% di tutte le prescrizioni di farmaci per lo scompenso nella regione. Tuttavia, la proporzione di pazienti trattati con le molecole raccomandate dalle linee guida — ACE-inibitori o sartani, beta-bloccanti, antagonisti dei recettori mineralcorticoidi, inibitori SGLT2, ARNI — resta inferiore rispetto ai pazienti visti in cardiologia. Solo il 7% riceveva un ARNI, e quasi esclusivamente se seguito da specialisti. Ma anche tra i “cardiologici”, due terzi dei farmaci venivano poi effettivamente prescritti dal medico di famiglia. È la conferma di un’evidenza quotidiana: lo specialista orienta, ma il medico di medicina generale accompagna.
Un altro dato inatteso riguarda la comorbilità. Contro ogni previsione, i pazienti gestiti in cardiologia avevano, in media, un indice di comorbilità più elevato. Ma il dato non deve trarre in inganno: nella popolazione seguita solo in medicina generale erano più frequenti la demenza e il Parkinson, due condizioni che di fatto limitano l’accesso alle cure specialistiche. Vivere in casa di riposo o ricevere assistenza domiciliare riduceva di oltre il 40% la probabilità di vedere un cardiologo. In altre parole, la fragilità sociale e cognitiva è una barriera di cura tanto quanto la distanza geografica o l’età.
Il quadro che emerge è complesso e profondamente realistico. La medicina generale gestisce un universo di pazienti spesso esclusi dai trial clinici che hanno fondato le attuali linee guida europee sullo scompenso. Non a caso, gli autori — tra cui Katharina Schmidt-Mende e Eric Chen del Karolinska Institute — sottolineano un punto che dovrebbe far riflettere tutta la comunità scientifica: tra i 31 autori delle linee guida europee per lo scompenso cardiaco, non figura un solo medico di famiglia. Eppure, sono proprio i medici di medicina generale a prendersi cura della metà dei pazienti con scompenso, spesso in solitudine, con strumenti limitati e con una responsabilità clinica e umana enorme.
La discrepanza tra “linee guida ideali” e “realtà possibile” si riflette nella prescrizione dei farmaci, ma anche nell’attenzione ai fini ultimi della cura. Le linee guida si concentrano su mortalità cardiovascolare e riospedalizzazioni, ma per il paziente anziano con demenza o fragilità avanzata il vero obiettivo è la qualità della vita, la stabilità domiciliare, la possibilità di mantenere un equilibrio tra sintomi, autonomia e dignità.
Lo studio svedese suggerisce che forse dovremmo riscrivere parte del paradigma dello scompenso, riconoscendo che esistono due scompensi diversi: quello acuto, ospedaliero, cardiologico, in cui la priorità è la sopravvivenza, e quello cronico, quotidiano, gerontologico, che si consuma lentamente nelle mani dei medici di famiglia.
E se il primo si cura con le linee guida, il secondo si cura con la continuità, la fiducia, l’adattamento delle terapie alla persona. È qui che la medicina generale mostra la sua forza invisibile: nel saper trasformare protocolli pensati per pazienti ideali in percorsi sostenibili per pazienti reali.
L’analisi del gruppo del Karolinska, nel suo rigore statistico, è anche un atto politico e culturale. Mostra che la medicina generale non è solo un luogo di accesso, ma il centro di gravità del sistema. Chiede che i medici di famiglia siedano ai tavoli dove si scrivono le raccomandazioni, perché senza di loro le linee guida rischiano di restare letteratura. E invita a spostare lo sguardo: dallo scompenso cardiaco come malattia del cuore allo scompenso del sistema che non riesce ancora a valorizzare chi di quei cuori si prende cura ogni giorno.
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https://bjgp.org/content/bjgp/early/2025/10/17/BJGP.2025.0044.full.pdf?fbclid=IwVERDUANqA1VleHRuA2FlbQIxMQABHmur_NqkCaXpmDYeJw6QkZGtg9ERXYBs2sgXNBIVHeLYO-NGCnPDsRi2MfZ4_aem_-OaZoBCFqYmuhjDaXnAbhg