15/11/2025
In questi giorni siamo stati scossi dall’ennesimo episodio tragico: a Muggia, in provincia di Trieste, una madre con gravi disturbi psichiatrici ha ucciso il figlio di nove anni. Una donna a cui era già stato tolto l’affido proprio per la sua instabilità, che aveva già manifestato condotte violente e che aveva più volte minacciato il padre del bambino. Un gesto estremo, compiuto per punire e vendicarsi: il figlio trasformato in strumento di ritorsione. Fatti come questi non sono solo tragedie isolate. Ci parlano di una piaga che chi, come me, vive quotidianamente queste storie vede con crescente preoccupazione. Ogni giorno mi trovo di fronte a vicende in cui dobbiamo stabilire collocazione, responsabilità genitoriali e misure di tutela in contesti dove i figli diventano terreno di scontro, strumenti di ricatto, mezzi attraverso cui i genitori cercano di colpire l’altro. Sto seguendo proprio ora un caso emblematico: una madre completamente fuori controllo che, per punire il padre della bambina, prima ha inventato maltrattamenti inesistenti e poi, non avendo digerito un accordo raggiunto, ha accusato la zia paterna di abusi sessuali sulla minore. Il PM ha richiesto l’archiviazione, ma la madre e il suo entourage si sono opposti, formulando ulteriori accuse altrettanto infondate.
Qui non c’è una morte fisica, ma siamo di fronte comunque a una forma di annientamento psicologico ed emotivo della minore. Una violenza subdola, profonda, invisibile. Eppure, troppo spesso, queste madri trovano consenso e sostegno proprio da chi dovrebbe proteggere i bambini: servizi sociali, tutori, curatori speciali. Figure che, pur nella loro importanza, troppo spesso constatiamo che non possiedono l’esperienza o la maturità tecnica necessaria per comprendere davvero il caso, decodificarlo, coglierne la dinamica manipolatoria. E così finiscono, inconsapevolmente, per alimentare la distorsione. Il problema, in Italia, è amplificato da uno stereotipo di genere ancora radicato: l’idea che “la madre non può fare del male”, che la madre sia per definizione la figura che ama, che si sacrifica, che è più idonea a fare il genitore rispetto al padre. Questo pregiudizio pesa, condiziona e talvolta acceca. E porta a sottovalutare comportamenti gravissimi solo perché provengono da una figura femminile. Ma la realtà, dura e dolorosa, è che anche una madre può danneggiare profondamente i propri figli e che la protezione dei minori deve basarsi sui fatti, non sugli stereotipi. È urgente che chi opera in questo settore – magistrati, servizi, professionisti – si formi adeguatamente, acquisisca strumenti, competenze e la capacità di guardare davvero dentro ai casi. Perché quando un bambino viene usato come arma, quando diventa veicolo di vendetta, quando gli si mettono in bocca parole che non gli appartengono, la sua infanzia viene distrutta. E quella ferita non guarisce più.