Studio di Psicologia - Dott.ssa Laura Orlando

Studio di Psicologia - Dott.ssa Laura Orlando Si effettuano colloqui psicologici e consulenze ai singoli e alle famiglie.

Alcuni trattamenti: depressione, depressione post - partum, attacchi di panico, disturbo post - traumatico da stress, fobie, ansia e disturbi dell'alimentazione.

01/11/2025

Nel campo di concentramento, gli diedero un numero: 119104.
Ma ciò che cercarono più di tutto di spezzare… fu proprio ciò che finì per salvare milioni di vite.

1942 Vienna.

Viktor Frankl aveva trentasette anni. Psichiatra rispettato, carriera promettente, un manoscritto quasi terminato e una moglie, Tilly, il cui sorriso era capace di riempire una stanza.

Aveva un visto per l’America. Un biglietto per la salvezza.
Ma i suoi genitori anziani non potevano seguirlo.
E così rimase.

Pochi mesi dopo, i nazisti vennero per tutti loro.
Theresienstadt. Poi Auschwitz. Poi Dachau.

Il manoscritto a cui aveva dedicato anni — cucito con cura nella fodera del cappotto —
gli fu strappato via appena arrivato.
La sua opera. Il suo scopo. Ridotti in cenere.

I suoi vestiti furono presi. I capelli rasati. Il nome cancellato.
Sulle carte d’ammissione restava solo un numero: 119104.

Ma c’è una cosa che i carcerieri non avevano capito:
puoi togliere a un uomo tutto — il nome, i beni, il futuro.
Ma ciò che sa… non glielo puoi rubare.

E Viktor Frankl sapeva qualcosa sulla mente umana.
Qualcosa che gli avrebbe salvato la vita.
E cambiato per sempre la storia della psicologia.

Nei lager, notò un pattern.
I prigionieri non morivano solo di fame, freddo o malattia.
Morivano quando perdevano il loro “perché”.

Quando un uomo smetteva di credere in qualcosa — una persona da rivedere, una promessa da mantenere, un lavoro da finire —
il suo corpo crollava in pochi giorni.
I medici avevano perfino un termine per questo: give-up-itis, la malattia dell’abbandono.

Ma chi restava ancorato a un senso —
resisteva. Anche all’indicibile.

Frankl cominciò un esperimento.
Non in un laboratorio. Ma nelle baracche.

Si avvicinava ai prigionieri sul punto di cedere e sussurrava:
“Chi ti aspetta?”
“Qual è il lavoro che ti resta da finire?”
“Cosa diresti a tuo figlio, per sopravvivere a tutto questo?”

Non poteva offrire cibo, né libertà.
Ma poteva offrire qualcosa che nemmeno i nazisti potevano confiscare:
una ragione per vedere il domani.

Uno sopravvisse pensando alla figlia.
Un altro per finire una teoria scientifica.

Frankl, invece, sopravvisse riscrivendo mentalmente il suo libro.
Pagina dopo pagina. Nella notte delle baracche.

Aprile 1945. La liberazione.

Pesava 38 chili. Le ossa sporgevano sotto la pelle.
Tilly era morta. Sua madre. Suo fratello. Tutto ciò che amava, distrutto.

Avrebbe avuto ogni motivo per arrendersi.
Ma non lo fece.

Si sedette.
E cominciò a scrivere.

Nove giorni.
Tanto gli bastò per riscrivere, solo con la memoria, il libro che i nazisti gli avevano bruciato.

Ma questa volta, dentro c’era qualcosa che mancava all’originale:
la prova.

La prova che la sua teoria non era solo filosofia. Era sopravvivenza.

La chiamò Logoterapia — la terapia del significato.
Un’idea semplice, ma rivoluzionaria:
l’essere umano può sopportare quasi tutto… se ha un perché per farlo.

“Chi ha un perché abbastanza forte, può sopportare quasi ogni come.”
(Le parole erano di Nietzsche, ma Frankl le aveva dimostrate all’inferno.)

1946 Il libro viene pubblicato.

In tedesco: Trotzdem Ja zum Leben sagen — Dire sì alla vita, nonostante tutto.
In inglese: Man’s Search for Meaning.

Gli editori inizialmente lo rifiutano.
“Troppo cupo”, dicono.
“Chi vorrebbe leggere dei campi di concentramento?”

Ma piano piano, il libro si diffonde.
Terapisti piangono leggendolo.
Prigionieri vi trovano speranza.
Persone distrutte da malattie, perdite, divorzi, fallimenti…
capiscono che anche il dolore può avere un senso.

L’impatto è immenso.

Tradotto in più di 50 lingue.
Oltre 16 milioni di copie vendute.
La Biblioteca del Congresso lo inserisce tra i 10 libri più influenti d’America.

Ma ciò che conta davvero è altro.
È chi, nella sua notte più buia, l’ha letto
e ha deciso di resistere ancora un giorno.

Perché Viktor Frankl ha dimostrato ciò che i nazisti non sono riusciti a distruggere:
puoi togliere tutto a un essere umano — la libertà, la famiglia, il futuro, la speranza —
ma resta sempre una libertà finale:
quella di scegliere il significato da dare a ciò che ci accade.

Non possiamo controllare ciò che ci succede.
Ma possiamo sempre scegliere cosa farne.

Oggi, Viktor Frankl non è più tra noi.
Ma nelle corsie degli ospedali, negli studi dei terapeuti, nelle carceri,
nei momenti silenziosi in cui qualcuno si chiede se valga la pena andare avanti —
le sue parole risuonano ancora:

“Quando non possiamo più cambiare una situazione, siamo chiamati a cambiare noi stessi.”
“Si può togliere tutto a un uomo, tranne una cosa: la libertà di scegliere il proprio atteggiamento davanti a qualsiasi circostanza.”

I nazisti gli diedero un numero.

La Storia gli ha dato l’immortalità.

Perché l’uomo che ha perso tutto…
ha insegnato al mondo che il senso è l’unica cosa che nessuno potrà mai portarci via.

Il prigioniero 119104 non si è solo salvato.

Ha trasformato la sofferenza in guarigione.

E da qualche parte, stanotte, qualcuno sul bordo del baratro leggerà le sue parole
e deciderà di restare. Ancora un giorno.

Questa non è semplice sopravvivenza.

È una vittoria sulla morte stessa.

-𝑅𝑎𝑐𝑐𝑜𝑛𝑡𝑜 𝑖𝑠𝑝𝑖𝑟𝑎𝑡𝑜 𝑎 𝑒𝑣𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑠𝑡𝑜𝑟𝑖𝑐𝑖 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑎𝑐𝑐𝑎𝑑𝑢𝑡𝑖, 𝑐𝑜𝑛 𝑎𝑙𝑐𝑢𝑛𝑖 𝑒𝑙𝑒𝑚𝑒𝑛𝑡𝑖 𝑛𝑎𝑟𝑟𝑎𝑡𝑖𝑣𝑖 𝑡𝑟𝑎𝑡𝑡𝑖 𝑑𝑎 𝑓𝑜𝑛𝑡𝑖 𝑏𝑖𝑜𝑔𝑟𝑎𝑓𝑖𝑐ℎ𝑒 𝑒 𝑡𝑒𝑠𝑡𝑖𝑚𝑜𝑛𝑖𝑎𝑛𝑧𝑒 𝑜𝑟𝑎𝑙𝑖.

𝗩𝗶𝗮𝗴𝗴𝗶𝗼 𝗻𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗦𝘁𝗼𝗿𝗶𝗮

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Ti è mai capitato di parlare con qualcuno e sentire, a un certo punto, che non ti stesse davvero ascoltando?
Che, pur essendo lì fisicamente, la sua attenzione fosse altrove… magari su un cellulare? Ecco, questo fenomeno ha un nome: phubbing, un termine inglese nato dalla fusione di “phone” (telefono) e “snubbing” (snobbare). In pratica, ignorare chi ci sta di fronte per controllare il cellulare.

Può sembrare una cosa banale, quasi normale oggi.
Siamo tutti sempre connessi, bombardati da notifiche, messaggi, aggiornamenti (ormai sui cellulari c'è davvero di tutto). Ma quello che spesso sottovalutiamo è l’impatto emotivo che il phubbing può avere su chi lo subisce… e anche su chi lo mette in atto, senza rendersene conto.

Potremmo dire che da un punto di vista psicologico, il phubbing è una forma di sottile ma profonda di disconnessione. Non è solo “non ascoltare”: è non esserci, non riconoscere la presenza dell’altro. E per l’essere umano, che è un essere relazionale, sentirsi ignorato equivale, emotivamente, a sentirsi rifiutato. È come dire, anche senza parole: “Quello che succede lì dentro (nello schermo) è più interessante di te”.

Chi viene ignorato (e ci sarà capitato sicuramente) può provare tristezza, frustrazione e un senso di solitudine. E non perché sia fragile, ma perché tutti abbiamo bisogno di essere visti, ascoltati e riconosciuti. Lo smartphone, in quei momenti, diventa un muro invisibile. Ci divide invece di unirci.

E chi fa phubbing? (e ci sarà capitato sicuramente anche questo), spesso non lo fa con cattiveria, a volte è abitudine, in alcuni casi automatismo. Altre volte è una fuga: da un silenzio imbarazzante, da una conversazione scomoda, o semplicemente dalla fatica di essere davvero presenti. Ma se ci fermassimo un attimo, potremmo chiederci: cosa sto cercando lì dentro che non riesco a trovare qui, davanti a me?

Ovviamente questo non vuol dire demonizzare la tecnologia, ma ricordarci che niente può sostituire uno sguardo sincero, un ascolto attento e una connessione vera. Forse oggi ci serve un po’ più di coraggio per posare il telefono e restare davvero, con ciò che sentiamo, con ciò che ascoltiamo e con ciò che vediamo. Per guardare negli occhi chi ci sta accanto e dire, sentendolo davvero, “Sono qui. Ti vedo. Ti ascolto.”

Perché alla fine, pensiamoci, in un mondo iperconnesso, il dono più grande che possiamo farci a vicenda è la presenza autentica, perchè tutti ne abbiamo bisogno, tutti. VS

E se stanotte farete un falò, buttateci i brutti ricordi. E se stanotte berrete alcolici, dimenticate i vostri difetti. ...
15/08/2025

E se stanotte farete un falò, buttateci i brutti ricordi.
E se stanotte berrete alcolici, dimenticate i vostri difetti.
E se stanotte ballerete instancabili, scrollatevi di dosso lo stress.
E se stanotte amerete qualcuno, ricordate di amare prima voi stessi.

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