Psichiatria & Psicoterapia

Psichiatria & Psicoterapia Lo studio Psicologia & Psicoterapia è composto da professionisti della medicina, specializzati in

Lo studio Psicologia & Psicoterapia è composto da professionisti della medicina iscritti all’albo, specializzati in schizofrenia, disturbo bipolare, disturbo schizoaffettivo, disturbi di personalità, psicoterapia ad indirizzo Gestalico, Psicodiagnostica clinica e Peritale. Le possibilità di intervento per chi si rivolge al nostro studio possono essere diverse a seconda dell’esigenza del singolo, della coppia, della famiglia o di un gruppo di lavoro. Svolgiamo attività di psicoterapia individuale, presso i nostri studi offrendo sostegno psicologico, diagnosi, consulenza e conduzione di gruppi terapeutici destinati a soggetti adulti o adolescenti.

Il mio nuovo contributo. Buona domenica, amici cari, e ricordati di mettere un'ora indietro le lancette (o di non farlo,...
27/10/2024

Il mio nuovo contributo. Buona domenica, amici cari, e ricordati di mettere un'ora indietro le lancette (o di non farlo, tanto ogi è domenica).

La pittrice di Dio

“È un buon segno, Dottore?”.

Se mi chiedessero quale super potere desidero, risponderei “mangiare senza ingrassare”. Al secondo posto, probabilmente, quello di teletrasportarmi; insomma, i super poteri mi servirebbero per correggere alcuni “difetti” del mio reale. Potrei aggiungerne altri, ma di certo non sceglierei quello di leggere la mente altrui: e questo perché sono uno psichiatra.
“Per forza,”, mi direte voi “ce lo hai già!”. Nulla di più sbagliato. Uno psichiatra che è convinto di saper leggere nella mente dei suoi pazienti non è uno psichiatra. Vedete, le ragioni di un’azione sono infinite, e la psichiatria si muove partendo dal significato che quella specifica azione, che può essere ripetuta all’infinito da infinite persone, ha per quell’unica persona che ha di fronte lui. Del resto, il mondo è pieno di interpretazioni frettolose; bene, quelle lasciamole agli altri. Noi diamo un’attenzione esclusiva.
Veniamo a Maggie, il cui vero nome è Assunta. Assunta era una ragazza brillante, studiosa, appassionata sin dalla tenera età di pittura e di Inghilterra. Poi il disturbo, che irrompe come un colpo di pi***la, a 17 anni. Qualche anno di università, poi la chiusura quasi totale, una perplessità cerea da statua di Madame Tussaud. Le parole sconclusionate, incomprensibili, pronunciate sempre con un accento che più British non si può. Una caricatura di ciò che era prima, un Mister Smith in salsa partenopea e con l’orlo della gonna a spazzare perennemente il pavimento. Niente più del suo corpo esile e dei suoi occhi verde inglese, tutto spazzato via dalla gonna e rimesso insieme alla rinfusa, senza criterio alcuno. Perché la mente non si perde niente se non il suo ordine. La pittura, prima sulle mani ed il corpo, poi sui muri di quella camera da cui non esce più, neppure per mangiare. Il primo ricovero, un secondo e poi un terzo, il tutto inframezzato da una richiesta di colore e di colori che vengono letti come un miglioramento, come un tentativo, infantile e disperato, di comunicare con il mondo. Ma non era Picasso e neppure Modi: la “pazzia” non fa di per se’ arte, se non in un gioco fraudolento.
Quando la conobbi già non parlava più, limitandosi a rispondere con le palpebre come gli ammalati terminali. Ma non c’era un nesso, ed era quindi inutile: alla stessa domanda, o a domande di verifica, poteva rispondere indifferentemente con una o due spalpebrate. Non un automatismo né un riflesso, ma un tentativo ben riuscito di fingere comunicazione, di comunicare la volontà di non comunicare. Avevo come l’impressione, ma sapevo che era una mia congettura, che semplicemente pensasse che il mondo non valesse la sua attenzione. Era, però, un mio pensiero che andava a riempire il suo silenzio, ne ero ben consapevole; “il mondo non capisce”, mi ripeto spesso, in un momento o in un altro. Dipingeva, questo sì, ininterrottamente dal suo mutismo non selettivo; quadri brutti, senza poesia alcuna, ma che piacevano all’intelligente di turno, perennemente alla ricerca di un familiare disperato e perdutamente innamorato che potesse credergli. Maggie era come i grandi ricchi: disperata perché costretta a “parlare” di arte, mentre voleva essere ammirata per la sua pazzia soltanto (per i ricchi è la ricchezza, ma questa è un’altra storia).

“Sì”. Mentii a quel papà dagli occhi lucidi ed amorevoli come avrei mentito a mio padre, per non dargli un dolore inutile. Tanto non sarebbe cambiato nulla: quei quadri sarebbero rimasti orribili, proprio come immaginavo essere quegli scarti di pensieri inaccessibili condannati a vagare eternamente nella sua mente.

Il mio nuovo contributo. Buona domenica, amici miei.I put a spell on you (abracadabra)“Ho una sindrome da rebound coline...
20/10/2024

Il mio nuovo contributo. Buona domenica, amici miei.

I put a spell on you (abracadabra)

“Ho una sindrome da rebound colinergico, Dottore”.

Adoro internet. Credo che internet sia la più grande invenzione di tutti i tempi dopo i lassativi. Grazie ad essa, riesco ad accedere a tutte le informazioni che mi servono in pochi secondi; non solo, posso fare approfondimenti e controllare le fonti, cosa che mi impedisce, in un contesto professionale ad esempio, di fare una figura di m***a citando il “Topolinian Journal of pharmacology” mentre sto parlando delle nuove strategie terapeutiche per il trattamento della depressione con manifestazioni atipiche. Ma io sono un addetto ai lavori, e questa è un’altra storia.
Internet, pur tuttatvia, ha cambiato il rapporto medico-paziente. Non che prima fosse tutto rose e fiori, sbilanciato com’era verso la figura del professionista, deus ex-machina di una disciplina dall’aura esoterica che non ammetteva spiegazione alcuna. I tempi cambiano, grazie a dio nel bene e nel male, ed è arrivato il tempo in cui i medici davano le spiegazioni ai pazienti, spostando un po’ più il rapporto verso di loro. Tempi d’oro durati molto poco, per colpa di noi medici, a mio parere, che non diamo le informazioni che servono ma che cerchiamo, per difesa, di dare tutte le spiegazioni possibili per tutelarci dai risvolti medico legali (paziente avvisato, medico non denunciato). È come se ciascuno di noi dicesse ad un altro non ciò che è oggetto di conversazione di scambio ma tutto ciò che gli passa per la testa: immaginate che inferno.
Quali sono gli effetti? Che i medici diventano i cantori dei foglietti illustrativi. Spontaneamente, non su richiesta. Non di quelli possibili, non di quelli probabili, ma persino di quelli talmente rari che sono stati scritti lì soltanto per evitare che, in qualche paese ancora più propenso di noi alle azioni legali, nascano class-action contro le case farmaceutiche. Si gioca ancora in difesa, insomma. Certo, c’è un modo per ottenere il rischio zero con i farmaci: basta lasciarli nel loro blister. Ma si muore! Rischi di chi si ostina a voler vivere.
C’è però un altro scenario, che soprattutto i medici della mia generazione si trovano ad affrontare. La mia è una generazione di medici non troppo vecchi da dire “prendi questo e basta perché te l’ho prescritto io” e sufficientemente esperti da dare soltanto le informazioni utili, evitando quelle controproducenti (tipo la morte per alitosi fulminante che si verifica in un caso su 80000000000 nella popolazione che condivide almeno 1/1000000 dell’assetto genetico della sub-etnia Maraska ma solo se incrociata con la sub-sub-etnia Oroskenazi e che vive nelle grotte a sud di Groom Nevanju circondati dai toposorici mannari). Lo scenario è quello della recita, da parte del paziente e dei suoi familiari, degli effetti collaterali scritti sul foglietto illustrativo.
Gli effetti collaterali sono incantesimi scritti sui libri di magia dei foglietti illustrativi. Letti/recitati in maniera acritica, ti farebbero morire di febbre perché non prenderesti neppure una tachipirina. C’è, però, un problema di base, perché al di là della lettura pedissequa con l’ansia che ti fa da maestra, c’è la mancata conoscenza dei fondamentali, vale a dire la competenza per fare diagnosi. “Ho i sintomi della sindrome da sospensione da…”, “Mi sta venendo una neurolettica maligna”, “Ho una rabdomiolisi”… sì, ma cosa si sente? Posso giocare un po’ io a fare il medico? Studio da trent’anni, penso che me lo sono meritato. Mi pare la storia dei poveri studenti di piano alle prese con il solfeggio: ore e ore per non suonare mai neppure una canzoncina in DO.

“Abbandoni subito lo studio, allora: ho appena fatto pulire e non vorrei sporcasse tutto esplodendo”. Troppo rude? Le macchie del paziente con attacchi di panico non vanno via con niente. Wingardium Leviosa.

Il mio nuovo contributo. Buona domenica, amici miei.Il tempo delle mail“Quali sono i tempi, Dottore?”.Il tempo, già. Ogg...
13/10/2024

Il mio nuovo contributo. Buona domenica, amici miei.

Il tempo delle mail

“Quali sono i tempi, Dottore?”.

Il tempo, già. Oggetto di desideri interessati anch’essi mutevoli: c’è chi lo vuole brevissimo, chi eterno, chi vuole che duri il meno possibile, il tempo. Ho sempre avuto una scarsissima tolleranza delle attese, una caratteristica che connota la mia vita più delle mie cravatte; da un paio d’anni a questa parte riesco ad aspettare, e temo questo sia l’inizio di una inarrestabile senescenza che mi condurrà sino alla morte. Ma questa è un’altra storia.
Il tempo, dicevo. Qualche tempo fa ricevetti una telefonata da un paziente che avevo visto il giorno prima e questi mi chiedeva come mai non stesse ancora bene; la cura non l’aveva ancora cominciata, ma la prescrizione ce l’aveva. Perché quel pezzo di carta non stava facendo effetto? I farmaci, me ne rendo conto, sono una magia da stregoni avanzati. È difficile accettare, per chi non lo abbia sentito con le sue giovani orecchie dagli stregoni più anziani, che una cosa che comincio ad assumere oggi funzionerà tra “x” settimane; così come è difficile capire che un farmaco che si prenda una sola volta al giorno possa funzionare per un’intera giornata, e restare nel sangue ancora di più. Ed è altrettanto difficile capire che un farmaco va preso per il giusto tempo perché i suoi effetti non si perdano subito. “L’ho sospeso da due settimane, e mi sento bene!”, te lo dicono come se tu dalla sua assunzione ne traessi un vantaggio, come se la pillola fosse una sorta di ritratto di Dorian Gray della farmacologia; ne riparliamo tra due settimane, amico mio. È la farmacologia, bellezza.
Eppure i farmaci non c’entrano niente, ma c’entrano questi maledetti sentimenti. Attendere che funzioni è come attendere l’amato: ogni attesa è troppo lunga. Il tempo di assunzione è come stare in galera o al lavoro, il che è lo stesso: eterno. L’ansia degli effetti collaterali? Il tempo di una catastrofe annunciata: si coglie ogni segnale, ogni virgola, anche quelle messe a caso nella punteggiatura sgrammaticata della vita. La vita, già, una condizione cronica, proprio come certe malattie.
Cosa si fa, allora? Si aspetta. Sbaglia chi pensa che l’attesa sia un tempo perso, o meglio ancora un non tempo: l’attesa modifica la nostra psiche esattamente come ciò che accade. Non è un tempo vuoto: se consideriamo il tempo dei fatti un tempo riempito, l’attesa è il luogo del possibile “libero”. Come un prato, vede germogliare ciò che si è seminato come anche ciò che, quasi casualmente, è arrivato lì; da questo equilibrio, nascerà una risultante che, ripulita delle erbacce, sarà una soluzione nuova ed inattesa alla luce delle previsioni. L’evoluzione, del resto, a differenza della involuzione che è sempre programmata, procede così, per tentativi ed errori.

“Tempi brutti, amico mio, c’è Google. Google non ha cambiato nulla: rende gli ignoranti sempre più ignoranti, ma con un titolo conferito in pochi secondi, e sempre più dubbiosi i colti, costretti a controllare le fonti. Un discorso qualunquistico, non trovate? Invece no, l’ho letto su Google.

Il mio nuovo contributo. Buona domenica, amici miei.Gli specchi di legno“Posso spiegarglielo io, Dottore?”.La parola. La...
06/10/2024

Il mio nuovo contributo. Buona domenica, amici miei.

Gli specchi di legno

“Posso spiegarglielo io, Dottore?”.

La parola. La parola, come diceva uno dei miei psicopatologi di riferimento, Mario Brega,“po esse fero o po esse piuma”: una carezza, talvolta, o un grimaldello, ma sempre e solo l’unica via per accedere allo psichico, alla mente. Se una persona non mi parlasse, potrei soltanto inferire dal suo non verbale il “segreto” che nasconde, ma perderei di certo i particolari, forse anche quelli fondamentali. Del resto, il silenzio della parola crea mostri nella mente: alimenta pregiudizi, paure, preconcetti, crea false credenze e falsi miti e li ingigantisce con il tempo. Questo, del resto, è il mestiere del silenzio: travisare, nel male e nel bene. Così, soltanto a distanza di anni ho scoperto che Crisante (nome di fantasia, non voglio mi prenda a pugni), la ragazza più bella della scuola e di ogni scuola sia mai esistita e che mai esisterà, in Italia, nel mondo ed in ogni galassia conosciuta e non, credeva di essere un cesso (parola intraducibile nel politically correct) perché nessuno si avvicinava a lei. Lei credeva fosse perché non era attraente, noi pensavamo di non essere degni neppure di respirare la sua stessa aria, temevamo di essere inceneriti dal suo sguardo o scagliati via lontano da un suo battito di ciglia. Non pensavamo guardando noi e guardando lei, neppure di fare parte della stessa specie. È vero che “chi se mette appaùra, nun se cocca cu ‘e femmene belle”: ma fallo capire ad un quindicenne, che ha già i suoi mostri autoctoni da combattere.
I mostri, già. I mostri si fanno forti dell’isolamento. Nel buio del silenzio ogni scricchiolio è una minaccia. E cosa si fa? Ci si finge morti. Cos’è mai la morte, in fondo? Immobilismo e silenzio. Eppure, in questo tempo sospeso, se la morte è solo apparente, la mente continua il suo lavoro incessante, noncurante del mondo di fuori che esiste deformato, proprio come in quegli specchi dei luna park di paese.
Dalila era qui, davanti a me, con i capelli raccolti in uno chignon e la sua maglia a collo alto. Una ballerina, forse, o una scrittrice esistenzialista? Timorosa del suo corpo a tal punto da nasconderlo il più possibile, o senza corpo alcuno che desse contenitore ai suoi pensieri? Mi vedeva davvero, o io ero una suppellettile, trasparente come la sedia di acetato su cui siedo? E lei, era trasparente, lei, nascosta dietro le parole che non mi diceva? Mille fantasie e mille e una congetture, proprio come fosse una star di un’epoca ante social.

“Certo, signora, ma poi le pillole le devo prescrivere a lei”. Vidi un mezzo sorriso fare capolino dal lato sinistro della bocca, ed ogni sorriso è una speranza. Per farle “innamorare” devi farle ridere, diceva qualcuno; io credo che, in una relazione a due, che sia terapeutica o amorosa, ciò che fa “innamorare” è l’attenzione. Adesso che ci penso, devo regalare a Crisante uno specchio, uno di quelli veri, non di legno come quelli che doveva avere a casa sua; ma questa è, probabilmente, un’altra storia.

Il mio nuovo contributo. Buona domenica, amici miei.Io sono Clarissa“La vera me, o quell’altra, Dottore?”.Le domande che...
29/09/2024

Il mio nuovo contributo. Buona domenica, amici miei.

Io sono Clarissa

“La vera me, o quell’altra, Dottore?”.

Le domande che rivolgo ad un paziente la prima volta che viene da me sono sempre le stesse. Non è un rituale, non ne ho bisogno: son proprio il mio modo di entrare in relazione con lui. Se ne avessi anche nel mondo che c’è fuori dallo studio, credo che le mie relazioni personali sarebbero migliori. È la differenza che passa tra fare lo psichiatra ed essere uno psichiatra; ma questa è decisamente un’altra storia.
Clarissa era già stata da me, così mi diceva; eppure io, a dispetto del nome, non me lo ricordoavo proprio. Doveva essere successo in un altro studio, il che significa in un’altra vita, e troppo tempo fa. Dovevo essere troppo lontano da me stesso, allora, perché ne conservassi memoria. Cominciò a parlare con le “carte” che aveva portato con se’, un malloppo di prescrizioni tutto sommato molto, troppo simili tra loro. Parlava, sbirciavo su quesi fogli (cosa che mi annoia sempre fare, lo trovo fuorviante), e non riuscivo a capire perché le sue parole fossero così distanti da ciò che, loro malgrado, riuscivano a rimandarmi. I sintomi erano da manuale, l’aspetto ed il contro transfert no. Così, se da un lato le ossessioni e le compulsioni erano spiegate con una dovizia quasi noiosa, ed altrettanto noiosamente le prescrizioni stavano loro dietro, i toni impressionistici, l’aspetto incongruo, il suo modo di stare nello spazio di fronte a me, i suoi occhi, persino le sue mani dipingevano nella mia mente una immagine priva di qualunque emotività. Non Escher, ma Antonio Rotta. La leggevo come si legge un libro tanto verosimile da sembrare falso.
L’analisi controtransferale è come la stima di un gioielliere: come l’acido rileva l’oro, così la reazione dello psichiatra è più rivelatrice di qualsiasi certificazione. Quella ragazza era divisa, e l’unica emotività espressa era in quelle ossessioni, mutevoli nel tempo e a tratti cangianti, che riusciva a raccontare. Tutto il resto è noia, un animogramma piatto i cui rari picchi sono errori dello strumento. Al dolore di questa povera creatura si poteva credere, ma non lo si poteva assolutamente sentire. Le chiesi, saputo che la aveva già vista in passato, cosa le avessi prescritto allora; mi meravigliai, a patto che i suoi ricordi vacillanti fossero completi, di come avessi colto un solo aspetto, allora, seppure fosse stata meglio. Mi chiedo cos’altro mi sia perso nella mia vita e che ora vedrei nitidamente; ma anche questa, a dispetto di tutto, è un’altra storia.

“Raccontamene una, l’altra verrà da se’, per sottrazione”. Penso sempre più che la psichiatria, arrivati ad un certo punto, sia proprio questo: sottrarre. Cosa voglio dire? Anche questa, non me ne vogliate, è un’altra storia.

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Il mio nuovo contributo. Buona domenica, amici miei.Dell’amore, o di un altro stigma“Sto male, Dottore”.Il dolore ha tan...
22/09/2024

Il mio nuovo contributo. Buona domenica, amici miei.

Dell’amore, o di un altro stigma

“Sto male, Dottore”.

Il dolore ha tante facce, e sono tante quante le persone che lo soffrono. In psichiatria, come nella vita, si sta male per tanti motivi, ma uno di quelli più frequenti è lo stigma.
Io non so parlare dello stigma: non sono in grado. Del resto, nemmeno i pazienti ne parlano o ne parlano pochissimo, perché lo stigma, più che un marchio a fuoco sulla pelle, è un impalpabile velo che aleggia su di loro, e li accompagna ovunque vadano, qualunque cosa facciano o pensino.
Sbaglieremmo a considerare lo stigma semplicemente un pregiudizio, perché è qualcosa di più: lo stigma mette sul banco degli imputati la persona tutta e pretende che lei si senta in colpa per essere ciò che è. Esplicito o implicito, urlato o sussurrato, sempre presente perché, come negli amori veri, la presenza coincide con l’assenza. Sapete dove lo stigma si annida, ogni giorno? Nel blister delle pillole: ogni volta che lo si schiaccia, lui viene liberato e diffonde impregnando la stanza, la persona ed il mondo tutto. Il suo mondo. Proprio come l’alone viola della pubblicità, ve lo ricordate? Io sì: ero piccolo, mi atterriva, e non sapevo neppure perché.
Conseguenze? Tante, troppe. Lo stare male lo si mette in conto, ed è una notizia che, ahimè, non fa notizia. La più pericolosa, a mio parere, è sentirsi in obbligo di non prendere più i farmaci. I farmaci non si smettono soltanto per una distorsione cognitiva, vale a dire perché si sta bene; i farmaci spesso, troppo, spesso, si smettono per non sentirsi più ammalati. Proprio come nascondere la polvere sotto il tappeto, o eliminare quella foto perché il ricordo ed il dolore se ne vadano con essa. Così Ylenia mi chiede di vederla subito perché ha paura di uccidere sua madre, o Franco mi dice che si alzerebbe dal letto solo per buttarsi di sotto. Gli stessi che, un mese prima appena, macinavano esami e sognavano quella promozione che finalmente stava arrivando, dopo tanto lavoro.

“Non ti preoccupare, ricominciamo un’altra volta”. Del resto, lo psichiatra non è un medico vero, è uno che fa solo chiacchiere e che trasforma, con farmaci che danno dipendenza, i pazienti in zombie. Ma chi mi ha cecato.

Il mio nuovo contributo. Buona domenica, amici miei.Il vino, Celentano e l’alfa privativoÈ tutto spento, Dottore”.“Si è ...
15/09/2024

Il mio nuovo contributo. Buona domenica, amici miei.

Il vino, Celentano e l’alfa privativo

È tutto spento, Dottore”.

“Si è spento il sole, e chi l’ha spento sei tu”. Così diceva la canzone, una vecchia canzone, semplice, che non aveva bisogno di stupire con effetti speciali. Certi pazienti sono così quando descrivono la loro depressione: un film che scorre davanti agli occhi, e che noi guardiamo con la stessa intensità con la quale guardiamo la pubblicità, aspettando che finisca.
Avere fame, ma non assaporare. Non essere “depressi”, ma non risuonare alla vita, nel suo bene e nel suo male. Vivere, ma non vivere. Cos’è tutto questo? Lo stigma dello stigma, il grande inganno, la perfetta incomprensione. Era questa la sofferenza che forse viveva Pessoa, spogliata di ogni letterarietà. L’anedonia, un nome altrettanto poetico per la più grande bastardata che la nostra mente (o la nostra anima, se siete animi gentili) possa giocarci.
Nunzio non aveva nulla di poetico, e faceva l’operaio. Credo sapesse leggere a stento, non conosceva raffinatezza alcuna e sbarcava il lunario usando tanto le mani e poco la testa. Eppure soffriva la stessa sofferenza dei grandi, ma senza poesia. Eppure, proprio come loro, aveva fatto quell’incontro della vita che tutto cambia affinché tutto resti uguale e cristallizzato per sempre. No, non di certo la scrittura: il vino.
Fui costretto a scoprirlo, e solo quasi a fine incontro, perché era una cosa normale; lui ne parlava senza enfasi, senza colpa o responsabilità, senza parole. La bottiglia era stata sempre lì, su quel tavolo, da quando era piccino. Eredità paterna, tradizione familiare, un lascito come il cognome e quella casetta con al piano inferiore la cantina. L’odore del vino che è odore di famiglia. Un incontro che tutto cambia, una rivelazione: dopo, ogni cosa è al posto suo, al posto giusto, tutto funziona e tutto torna. L’alfa (privativo o no) e l’omega. E a quel momento sempre si ritorna, non solo per quella sensazione alta che da piedi sale nella testa, ma soprattutto per quella bassa che dalla testa ritorna nei piedi, e li dirige metaforicamente proprio lì dove tutto è cominciato. Dove tutto, nella eterna ruota, nell’eterna astinenza, ogni giorno ricomincia. Proprio come l’amore della vita, quello unico e solo che, andandosene via, si porta via l’idea del futuro e il futuro stesso. Lo stigma dello stigma, Il grande inganno, la perfetta incomprensione.

“Preferisco la versione di Capossela”. Altri giri, altre associazioni, libere ma non troppo: proprio come siamo noi.

Il mio nuovo contributo. Oggi si parla di "voci". Buona domenica, amici miei.Le voci di fuori (ed il caos di dentro)“Ma ...
08/09/2024

Il mio nuovo contributo. Oggi si parla di "voci". Buona domenica, amici miei.

Le voci di fuori (ed il caos di dentro)

“Ma come vengono le voci, Dottore?”.

Mai un paziente mi aveva rivolto questa domanda. Le “voci”, che sono il marchio della “pazzia”, sono accettate come si accetta il traffico sulla tangenziale la domenica pomeriggio: non si sa da dove venga né chi lo abbia creato, ma ci sono testimonianze che fosse già lì al momento della costruzione della strada.
I giovani psichiatri si imbarazzano a chiedere delle “voci”. Giri di parole, circonlocuzioni, finte di sopracciglio e manovre distrattive acrobatiche; tutto molto tenero, ma inutile. Il rapporto medico-paziente deve essere diretto. Non fraintendetemi, diretto non vuol dire scortese (“discourtesy is unspeakably ugly to me”, diceva il celebre collega), ma chiaro. Ogni parola di troppo è una barriera, e la fiducia non può costruirsi con le penne attaccate con la catenella. Del resto, chi le sente dirà di sì, perché è “naturale”, seppure non “normale”; chi non le ha mai sentite dirà “ma no!”, e tu risponderai “ma certo!”, lasciando intendere che è la prassi, nel senso: è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo.
Ma come vengono le voci? È domenica mattina per tutti noi e mi chiedo chi mi abbia cecato a trattare questo argomento. Semplificando, e sperando che il comitato “amici delle voci” non se ne abbia a male, rispondo: le voci sono espressione di un disequilibrio. Se l’elettrochimica del nostro cervello funziona regolarmente (ma non vuol dire che si è sani, badate bene), non si sentono le voci e non si fanno pensieri strani. Se, viceversa, qualcosa funziona in più o in meno (come lo zucchero e l’aceto nell’agrodolce), questo disequilibrio viene fuori: questa manifestazione è un sintomo e, opportunamente interpretata, ci permette di capire cosa stia succedendo “all’interno”. Ovviamente, poiché uno stesso sintomo può essere espressione di più disturbi, è necessaria una decodifica (ripetete tutti con me: “la psichiatria è disattendere il sintomo e contestualizzarlo”). Quindi, le voci "di fuori” sono espressione di un disordine di “dentro”.

“È una specie di magia”. E di qui, parte It’s a kind of magic, Who wants to live forever e Princess of the universe, mentre io cerco affannosamente la mia spada per difendermi dal Kurgan (il mio studio non è ancora considerato luogo consacrato, ahimè). È andata davvero così? La mia vocina mi suggerisce di dire di sì.

Il mio nuovo contributo. Buona giornata, amici miei.Il Contattassi“Lei sa esattamente quanti passi ha fatto finora, Dott...
01/09/2024

Il mio nuovo contributo. Buona giornata, amici miei.

Il Contattassi

“Lei sa esattamente quanti passi ha fatto finora, Dottore?”.

Non vi è paziente più estenuante che ossessivo (“estenuante” perché scassacazzo è grossier). È insito nel disturbo, mentre lui non vorrebbe infastidire nessuno, proprio come non vorrebbe essere infastiditi da questi pensieri continui, inevitabili ed assurdi; ma tant’è. Forse è proprio per questo loro sforzo titanico, per questa sofferenza che, a raccontarla, non puoi capirla, o per la delicatezza che spesso li caratterizza che mi stanno simpatici. O è forse per altro, ma questa è un’altra storia.
C’è un girone apposito all’inferno per gli ossessivi, ed è un posto dove sono sempre dispari. Sulla terra, però, il loro inferno può essere fatto di qualunque cosa. Anna, nome palindromo da padre ossessivo, era costretta a realizzare diecimila passi al giorno; non almeno diecimila, ma proprio diecimila, non uno di più né, ovviamente, uno di meno. Il dramma era alla fine. Se durante la performance poteva mettere in atto tutta una serie di compulsioni per evitare il superamento (prendere un taxi, farsi portare in braccio, una sedia a rotelle o levitare), qualora si fosse trovata nell’impossibilità di fermarsi, sarebbe stata costretta a ricominciare, per concludere a diecimila esatti.
Diciannovenne bella ma trascurata, aveva sofferto già da piccola di ossessioni numeriche varie, diventate eventuali lungo la crescita con compulsioni al bisogno. Non ci faceva caso, e non le avevano impedito di diplomarsi con il massimo dei voti. Poi il fidanzato che muore, un dolore che non sa camminare che attraverso i suoi passi. Un copione eterno di colpa, una distanza tra sé ed il dolore. Il cuore che non si dà pace, proprio come in una sofferenza d’amore.
L’ossessione. Mi faceva tenerezza, e non solo per l’età o il suo giovane dolore. Mi faceva tenerezza perché solo chi ha provato un’ossessione, che sia qualcosa di più che una canzone, poteva comprenderla. Per tutti gli altri sono semplici stupidaggini da scacciare con un pò di forza di volontà. Già, la volontà, come se bastasse quella, come se servisse a qualcosa, la volontà. Tu pensi che tua madre morirà se non esce testa dieci volte: poi deve essere in triduo, e poi nei suoi multipli, verso l’infinito ed oltre. Fino a quando non crolli distrutto, sperando nel sonno, sperando che l’indomani sia un altro giorno. Ma non lo è, mai.

“Decimilaventuno”. Ma questa è decisamente un’altra storia.

Oggi si parla di sogni. Buona domenica, amici miei.Fai bei sogni“Che cosa significa, Dottore?”.La mia carissima amica e ...
25/08/2024

Oggi si parla di sogni. Buona domenica, amici miei.

Fai bei sogni

“Che cosa significa, Dottore?”.

La mia carissima amica e stimata collega Marilena, qualche tempo fa, scriveva di come, da noi psichiatri, ci si aspetti una funzione divinatoria. Siamo una sorta di moderni aruspici: solo che, invece di interrogare le frattaglie di pollo, noi dovremmo interpretare il ripieno dei pazienti. Così, di fronte ad un sogno, noi dovremmo saper dire vita, morte e miracoli di questa produzione onirica, noncuranti della vita, morte e, perché no, miracoli della persona che ci sta di fronte. Il presupposto credo sia che noi abbiamo il codice di decodifica “dell’inconscio”, o in qualsiasi altro modo lo si voglia chiamare. Voglio raccontarvi una cosa. Mia nonna materna si dilettava di astrologia ed interpretava i sogni; quindi, io conosco le caratteristiche di tutti i segni zodiacali sin da piccolo e ho ricevuto in eredità ben due libri “dei sogni”. Sì, ne aveva due: uno che portava bene, uno che portava male. Leggeva nel primo per poi passare al secondo; non ricordo come si arrivasse al risultato, ma credo che provasse sempre ad indorare la pillola, per non far preoccupare nessuno. Più che buona, era una gran paracula, che aveva capito molto meglio di me come si sta al mondo. Bionda e con gli occhi verdi, da piccolo ne ero perdutamente innamorato. Ma questa è decisamente un’altra storia.
Noi psichiatri, come è noto, sappiamo leggere nella mente e, questo superpotere, lo possiamo esercitare sempre, che si sia ad una festa, in un bar mentre beviamo un caffè o in fila per il cesso all’autogrill. Cosa ci costa? State tranquilli, è fine agosto e vi risparmio il pi***ne su come si dovrebbe provare correttamente ad interpretare un sogno. Non vi dirò, dunque, che è un lavoro terapeutico che pesca nella persona, per cui, teoricamente, lo stesso sogno fatto da me e da un altro non ha lo stesso significato, proprio come non ha lo stesso peso un bonifico di mille euro fatto a Jeff Bezos o a un mendicante (ma non sono tutti miliardari? O è un’altra legenda metropolitana?). Che ve lo dico a fare, allora? Perché questo discorso si inserisce in un discorso più ampio sulla nostra professione e su come essa viene percepita.
In questa particolarissima accezione, lo psichiatra è una sorta di fast food dei processi mentali. La dinamica è quella di problema-soluzione: io te lo porto, tu me lo risolvi. Sarebbe come se al personal trainer noi gli portassimo la panza e lui ci restituisse, senza sforzo alcuno, un fisico palestrato. Nella realtà dei fatti, il fisico ce l’ha lui, mentre a noi resta la panza. Lo psichiatra non solo non ha tutte le risposte ma, di certo, non ha una vita perfetta, benché nell’immaginario del paziente sia così. Ma va bene lo stesso, fa parte del gioco ed è anch’esso un elemento terapeutico, se sfruttato bene nel setting (“ma fuori dal setting, nessuna pietà”).
Continuiamo così, facciamoci del male. La settimana scorsa ero a cena con mia madre; tra una melanzana grigliata ed un petto di pollo ai ferri (che vita di m***a, mi viene da dire), lei mi pone una domanda. “Ma anche tu fai come lo psicologo di… che le dice cosa deve fare?”. Tralasciando che sono uno psichiatra, e che per questo paragone mia madre finirà ben presto in una casa di riposo lager, mi colpiva come venga intesa la psicoterapia ai giorni nostri. Dall’idea ancestrale analitica di un tempo infinito scandito da infinite chiacchiere, siamo passati a quella, altrettanto fasulla, di una sorta di life coach basato sul fare e sul buonsenso. L’idea di un qualcosa di immediato, subitaneo, senza sforzo alcuno. Un pezzo che si fa prima a sostituire che a provare a riparare. Ma siamo davvero solo questo?
Non esiste una sola verità; anzi, di verità credo non ne esista proprio nessuna. Di certo ci sono terapeuti molto interventisti, così come ci sono quelli che, alla classica domanda sul da farsi, rispondono sostituendosi al paziente stesso. Io non lavoro così. Faccio già abbastanza fatica a vivere la mia vita in una maniera decente, figurarsi se voglio provare a giocare a vivere la vita di qualcun altro. Certo, potrebbe essere simpatico operare delle scelte senza prendersi alcuna responsabilità, provando ad assecondare la propria natura o, diversamente, provando ad interpretarne una completamente diversa, sempre senza alcuna conseguenza diretta. Come dite? Non vi sta bene? Ma quando chiedete un consiglio, cosa mai vi aspettate? Credete forse che sia possibile una immedesimazione perfetta in voi? Credete forse, come in un film fantasy, che la vita del consigliere si sostituisca alla vostra? No, amici miei: la vita resta vostra, che ve ne assumiate la responsabilità o no.

“Che deve rinunciare alla Louis Vuitton che desidera”.

“No! Ne è proprio sicuro?”.

“E lei è veramente sicura di desiderarla? Parliamone…”. Il tizio dell’Omega acciaio ed oro non mi ha ancora chiamato, adesso che ci penso. Ed io, con chi posso parlarne, io?

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