29/10/2025
Commento sui limiti del decreto Calderone sulla sicurezza sul lavoro
Il decreto presentato dalla ministra Calderone, pur dichiarando l’obiettivo di rafforzare la sicurezza sul lavoro, non introduce alcun vero investimento in prevenzione.
Le misure proposte – badge elettronico, rafforzamento dei controlli, white list – agiscono a posteriori, cioè dopo che il rischio si è già concretizzato, senza incidere sulle cause profonde degli infortuni.
In altre parole, si potenziano gli strumenti per “misurare e punire”, ma non quelli per “educare e prevenire”.
1. Un approccio prevalentemente repressivo
Il decreto enfatizza la tracciabilità e la vigilanza ispettiva, ma trascura il lavoro culturale e organizzativo che serve per ridurre i rischi prima che accadano.
Il badge elettronico, pur utile a contrastare il lavoro nero, non rende un cantiere più sicuro: è un dispositivo di controllo, non uno strumento di prevenzione.
Analogamente, l’aumento dei controlli o delle sanzioni può avere un effetto deterrente, ma non costruisce competenza, consapevolezza o buone pratiche.
2. Nessuna risorsa pubblica per la prevenzione
Non sono previsti fondi dedicati alla formazione, né programmi di consulenza gratuita per le micro e piccole imprese, che rappresentano oltre il 90% del tessuto produttivo italiano.
Queste aziende, spesso prive di RSPP interni o di risorse per consulenze esterne, avrebbero bisogno di supporto operativo e tecnico — non solo di nuovi obblighi.
L’intero impianto, invece, sposta il peso sulle imprese, costrette a:
• dotarsi di nuove tecnologie (badge elettronico e sistemi digitali di registrazione),
• gestire ulteriori adempimenti documentali,
• sostenere costi formativi senza alcuna forma di incentivo o rimborso.
Il risultato è una nuova burocrazia di sicurezza, a spese del privato, senza che lo Stato investa in cultura della prevenzione.
3. Prevenzione assente: formazione e assistenza dimenticate
La prevenzione vera nasce dalla formazione continua e di qualità, dalla presenza di figure competenti e dal dialogo costante tra istituzioni e imprese.
Su questo fronte, il decreto è silente.
Non prevede programmi formativi nazionali, né linee di finanziamento INAIL dedicate, né reti di assistenza o sportelli territoriali gratuiti per le piccole realtà.
Manca un piano strutturale di educazione alla sicurezza: non si coinvolgono attivamente scuole, enti bilaterali o organismi paritetici, che potrebbero fungere da motore culturale del cambiamento.
4. Le micro e piccole imprese: il grande dimenticato
Il decreto ignora la realtà delle microimprese, che costituiscono la spina dorsale del sistema produttivo italiano.
Per queste realtà, ogni nuovo obbligo amministrativo (badge, piattaforme digitali, reportistica) rappresenta un costo e un ostacolo, non un aiuto.
Senza incentivi economici, semplificazioni procedurali o forme di accompagnamento gratuito, si rischia di trasformare la sicurezza in un onere burocratico e non in un valore aziendale condiviso.
5. Una sicurezza “contabile”, non sostanziale
Il decreto sembra più orientato a rendicontare azioni visibili (numero di controlli, badge installati, white list attive) che a costruire una cultura di sicurezza effettiva e duratura.
Si confonde la tracciabilità dei comportamenti con la riduzione del rischio reale.
Ma la sicurezza non si ottiene con un cartellino elettronico: si ottiene con formazione, responsabilizzazione e supporto continuo.
Conclusione
Il provvedimento appare quindi come una riforma amministrativa più che una politica di prevenzione.
Manca una visione strategica capace di unire:
• investimento pubblico nella formazione e nella consulenza,
• sostegno concreto alle micro e piccole imprese,
• azioni strutturali di prevenzione primaria (educazione, accompagnamento, cultura).
In sintesi:
“Si è scelto di sorvegliare meglio gli errori, non di evitarli. Di misurare la sicurezza, non di costruirla.”