Epochè. Centro di Psicodramma Analitico Freudiano

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CENTRO DIDATTICO SIPsA – CAGLIARI
Nel marzo 2019 avviene la costituzione del centro didattico Epoché, con l’obiettivo di formare psicoterapeuti di vario orientamento allo psicodramma analitico freudiano.

03/10/2023
09/07/2023

«La farfalla, è qualcosa di particolare.
Non è un animale come gli altri.
In fondo non è propriamente un animale, ma solamente, l'ultima, più elevata, festosa e importante essenza di un animale.
È la forma festosa, nuziale di quell'animale che era giacente crisalide e ancor prima affamato bruco.
La farfalla non vive per cibarsi o invecchiare, vive solamente per amare e concepire, e per questo è avvolta in un abito mirabile.
Tale significato della farfalla, è stato avvertito in tutti i tempi e da tutti i popoli.
È un emblema sia dell'effimero, sia di ciò che durerà in eterno.
È un simbolo dell'anima.»

(Hermann Hesse)

NON PUO' AVERSI AMORE SE NON NELLA RINUNCIA DEL NARCISISMOPoiché l'essere umano, a partire dal distacco dalla madre, e i...
06/01/2021

NON PUO' AVERSI AMORE SE NON NELLA RINUNCIA DEL NARCISISMO

Poiché l'essere umano, a partire dal distacco dalla madre, e in conseguenza del fatto che è stato raggiunto dalla parola che lo ha separato dalla natura per introdurlo nell'ordine sociale, ha irrimediabilmente perduto qualcosa (il legame originariamente narcisistico con la propria mamma) e dunque è radicalmente e strutturalmente mancante (l'essere è una mancanza-ad-essere, dice Lacan), sarà di conseguenza alla continua ricerca di ciò che ha perduto, quell'oggetto prezioso originariamente condiviso tra sé e la madre, cui Lacan darà il nome di "oggetto piccolo a".

Questa tensione di continua ricerca di ciò di cui ci sentiamo mancanti a causa della perdita originaria, costituisce il desiderio, che si configura come "struttura di mancanza" e dunque come base della domanda d'amore.

Noi amiamo, infatti, nel tentativo di ritrovare nell'altro quello che abbiamo originariamente perduto per sempre, e che l'altro però non può darci se non in "sostituzione", e dunque in maniera sempre insoddisfacente.

In altre parole, noi ci innamoriamo dell'altro quando, per qualche ragione (puramente immaginaria) e per come ci appare, pensiamo - immaginiamo appunto - che egli possegga proprio quello che abbiamo perduto, quello che non abbiamo più, quello di cui manchiamo: per questo possiamo dire che l'innamoramento avviene sempre lungo la via del narcisismo.

Solo che, dopo questa iniziale illusione narcisistica, siamo destinati ad accorgerci, prima o poi, che anche l'altro è a sua volta mancante, e proprio di quello che noi cerchiamo: lì dove pensiamo egli serbi per noi quello che a noi manca, il prezioso oggetto perduto, lì invece troviamo un... buco! Cosa che farà dire a Lacan che "l'amore è dare quello che non si ha" e che "non esiste Altro dell'Altro".

Questa scoperta mette a dura prova l'amore, perché apre all'esperienza della delusione: "ecco, non sei quello che mi aspettavo", "mi deludi", "non mi soddisfi veramente", "non mi capisci veramente" eccetera, tutte frasi che vogliono dire: "in fondo non mi dai proprio quello che da te mi aspettavo e di cui ho bisogno". Frasi che sono dell'ordine dell'appello: le frasi che frequentemente si ripetono i partner dopo l'idillio iniziale della luna di miele dell'innamoramento.

A questo punto, al punto della delusione, le vie possibili sono due: o quella di continuare a credere che l'altro possa comunque darci quello che ci manca, costringendosi a "soddisfare tutti i nostri desideri" così come ce lo siamo aspettato: "devi cambiare!" (amore narcisistico, che però non ha lunga vita o molto successo se non nella finzione, e dunque per lo più destinato a finire, spesso anche tragicamente), oppure, quella di innamorarci proprio del fatto che l'altro è diverso da noi, ha altro di cui possiamo godere, di innamorarci cioè proprio del fatto che non può darci quello che vorremmo, di innamorarci della sua mancanza appunto, e voler esseri amati per la mancanza che anche noi siamo per il nostro partner: "ti manco?"

Insomma l'amore può darsi solo nella logica dell'essere e non in quella dell'avere, e dunque, se l'innamoramento non può che seguire la via del narcisismo, l'amore può continuare solo lungo quella della sua rinuncia.

www.egidioerrico.com

Lo studio del Dott. Errico è specializzato nella valutazione, la diagnosi e il trattamento dei disturbi psichici in genere. Sono a Salerno in Via P.Ta Elina,23

Ciò che neghi ti sottomette.Ciò che accetti, ti trasforma.C., G., Jung Oggi 26 luglio è l'anniversario di nascita di uno...
26/07/2020

Ciò che neghi ti sottomette.
Ciò che accetti, ti trasforma.
C., G., Jung

Oggi 26 luglio è l'anniversario di nascita di uno dei padri della psicanalisi!
La cui storia ha, in qualche modo, influenzato e plasmata la mia storia.
Auguri dr. Jung ovunque tu sia!
S., Pisu

01/05/2020

ITALIA

Di Umberto Galimberti
16 aprile 2020
Dove credeva di essere arrivato, l'essere umano? Perché, costretto a fermarsi, non sa più chi è? E cosa pensa di fare davanti alla negatività della vita? Ecco il pensiero, spiazzante e urticante, del filosofo Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, filosofo, sociologo, antropologo culturale, psicanalista e accademico: allievo di Emanuele Severino e Karl Jaspers, di cui traduce le opere, è un assoluto divulgatore. 78 anni il 2 maggio, cresciuto con altri nove tra fratelli e sorelle, sta lavorando a un nuovo libro (rigorosamente con la macchina per scrivere). Per GQ ha scritto questa riflessione.

«Il cambiamento imposto dal coronavirus sembra una sofferenza difficile da sopportare, anche se l’umanità ha superato di molto peggio. Succede perché ci troviamo nella condizione in cui tutta la nostra modernità, la tutela tecnologica, la globalizzazione, il mercato, insomma tutto ciò di cui andiamo vantandoci, ciò che in sintesi chiamiamo progresso, si trova improvvisamente a che fare con la semplicità dell’esistenza umana. Siamo di fronte all’inaspettato: pensavamo di controllare tutto e invece non controlliamo nulla nell’istante in cui la biologia esprime leggermente la sua rivolta. Dico leggermente, perché questo è solo uno dei primi eventi biologici che denunceranno, da qui in avanti, gli eccessi della nostra globalizzazione.
Se questo è il quadro, c’è forse un’incapacità di evolverci, come esseri umani? Il Cristianesimo ha diffuso in Occidente un ottimismo che ci ha insegnato a pensare in questi termini: il passato è male, il presente è redenzione e il futuro è salvezza. Questa modalità di considerare il tempo è stata acquisita dalla scienza, che a sua volta dice che il passato è ignoranza, il presente è ricerca e il futuro è progresso. Persino Karl Marx è un grande cristiano quando predica che il passato è ingiustizia sociale, il presente farà esplodere le contraddizioni del capitalismo e il futuro renderà giustizia sulla Terra. E Sigmund Freud, che pure scrive un libro contro la religione, sostiene che i traumi e le nevrosi si compongono nel passato, che il presente sia magico e che il futuro sia guarigione. Non è così. Il futuro non è il tempo della salvezza, non è attesa, non è speranza. Il futuro è un tempo come tutti gli altri. Non ci sarà una provvidenza che ci viene incontro e risolve i problemi nella nostra inerzia. Speriamo, auguriamoci, auspichiamo: sono tutti verbi della passività. Stiamo fermi e il futuro provvederà: non è così.
Quindi cosa dobbiamo fare? Non c’è niente da fare, c’è da subire. Accettiamo che siamo precari: ce lo siamo dimenticati? Rendiamoci conto che non abbiamo più le parole per nominare la morte perché l’abbiamo dimenticata. Ammettiamo che quando un nostro caro sta male lo affidiamo all’esterno, a una struttura tecnica che si chiama ospedale, e da lì non abbiamo più alcun contatto. Una volta i padri vedevano morire i figli quanto i figli vedevano morire i padri. C’erano le guerre, le carestie, le pestilenze. Esisteva, concreta, una relazione con la fine. Oggi l’abbiamo persa. Quando qualcuno sta male, mancano le parole per confortarlo. Diciamo: vedrai che ce la farai. Che sciocchezza. Che bugia. Perché abbiamo perso il contatto con il dolore, con il negativo della vita. E quindi come facciamo ad avere delle strategie quando il negativo diventa esplosivo?
Mi chiedete: il timore di cambiare è un limite valicabile? Facciamo prima un punto sulla realtà. Sono trent’anni che il Paese non è governato: accorgerci ora che abbiamo cinquemila letti in terapia intensiva quando la Germania ne ha 28 mila, scoprire che le carceri sono in subbuglio e che è possibile scappare sui tetti, ammettere adesso che andavano costruite altre strutture perché i detenuti potessero vivere in condizioni almeno vivibili; è il conto che stiamo pagando per essere stati distratti, per non aver preteso una guida vera. Per non parlare del debito pubblico: un macigno che si farà ancora più pesante per sopperire alle difficoltà economiche di questi mesi. È questo il limite, reale. E se lo troveranno davanti soprattutto i giovani, che al momento sembrano non morire con la stessa velocità e intensità dei vecchi: poi toccherà a loro, se non si ammalano, continuare a esistere in questo mondo.
È un momento di sospensione, specie dalla frenesia quotidiana. Mi dicono: per molti è un valore positivo, per altri un monito del fato. Io penso che la sospensione ci trovi soprattutto impreparati: ci lamentiamo tutti i giorni di dover uscire per andare a lavorare, ma se dobbiamo fermarci non sappiamo più cosa fare. Non sappiamo più chi siamo. Avevamo affidato la nostra identità al ruolo lavorativo. La sospensione dalla funzionalità ci costringe con noi stessi: degli sconosciuti, se non abbiamo mai fatto una riflessione sulla vita, sul senso di cosa andiamo cercando. Siccome non lo facciamo, poi ci troviamo nel vuoto, nello spaesamento. E allora chiediamoci: il paesaggio era il lavoro? L’identità era la funzione? Fuori da quello scenario non sappiamo più chi siamo? Questo è un altro problema. Non basta distrarsi nella vita, bisogna anche interiorizzare e guardare se stessi. Finora siamo scappati lontano, come se noi fossimo il nostro peggior nemico. I nostri week end non erano l’occasione per volgere lo sguardo a noi, ai nostri figli. Erano fughe in autostrada. Perché conosciamo due modalità dell’esistenza: lavorare e distrarci. Fuori dal quel cerchio, è il nulla.
Un quarto della popolazione italiana è estremamente fragile: il virus lo ha dimostrato. C’è chi si sorprende del relativismo della società rispetto ai più deboli. Ma è inevitabile. So bene che se mi dovessi ammalare io passerei in secondo piano, perché sono da salvare prima i giovani. Il problema è perché siamo arrivati a dover affrontare questo tipo di scelta, perché non abbiamo provveduto a creare le condizioni, e le strutture, per fronteggiare il dilemma. Moriremo per inefficienza. Se un virus si propaga con un numero di vittime paragonabile ai morti in guerra è chiaro che andrà tracciata − netta − la linea tra chi deve vivere e chi morire.
Ora: l’egoismo non sta diventando adesso un valore primario. È già il valore primario nella nostra cultura. La solidarietà è andata a picco in questi anni. Individualismo, narcisismo, egoismo: sono tutte figure di solitudine. La socializzazione si è ridotta alla propria parvenza digitale. E se anche l’istruzione, superata questa fase sperimentale, costretta dai tempi, dovesse poi ve**re diffusa via internet? I ragazzi hanno bisogno di imparare ma anche di guardarsi in faccia, di ridere, di capire attraverso lo sguardo se l’altro dice la verità o sta mentendo. Hanno bisogno di esperienze fisiche. Nell’isolamento e nelle avversità, gli esseri umani hanno bisogno di sentire di non essere soli a lottare. I cinesi di Wuhan se lo gridavano dalle finestre. Quindi se la rete digitale ha reso possibile la connessione là dove non c’è possibilità di incontro, mi viene da pensare: bene, ottimo, ha dimostrato la sua utilità. Ma per come ha funzionato fino a ora, Internet ha anche isolato i nostri corpi. Un conto è dirsi le cose in rete, un conto è dirsele di persona. Il problema, da qui in poi, è di continuare ad avere una relazione sociale secondo natura, in cui un uomo incontra un uomo, e non l’immagine di un uomo in uno schermo.
Quando potrà risollevarsi l’animo umano? E come? Il degrado è stato significativo. Secondo me l’animo umano era più all’altezza di queste situazioni all’epoca dei nostri nonni, quando la fatica e la penuria e la povertà erano le condizioni della solidarietà. Nelle società opulente abbiamo sviluppato invece l’egoismo, perché ci era consentito, non avendo più bisogno del nostro prossimo. Che l’umanità occidentale sia a perdere mi sembra evidente: siamo costretti in casa con le nostre scorte alimentari e il nostro letto caldo, l’unica pena che ci è inflitta è non poter uscire. Siamo il popolo più debole della Terra, il più assistito dalla tecnologia: se manca la luce per dodici ore andiamo nel panico. Mi spingo oltre: il razzismo di noi italiani, al di là di come viene indotto, ha una ragione radicata nell’inconscio. Abbiamo paura degli africani perché capiamo che quei signori capaci di attraversare i deserti, sopravvivere alle carceri e attraversare il mare sono biologicamente superiori a noi. Bios vuole dire vita. Ed è la biologia, accettiamolo, che vincerà.

L'analista si fa propulsore di un discorso che perde i connotati di potere e fa largo alla produzione di un sapere incon...
20/04/2020

L'analista si fa propulsore di un discorso che perde i connotati di potere e fa largo alla produzione di un sapere inconscio, ossia di quell'unico e differente non-senso attraverso il quale ciascuno riesce a pronunciare qualcosa della propria verità.
G., R., di Meana

"Ciò che la natura richiede al melo è che produca mele e al pero che produca pere. Da me la natura vuole che io sia semp...
12/04/2020

"Ciò che la natura richiede al melo è che produca mele e al pero che produca pere. Da me la natura vuole che io sia semplicemente un uomo, ma un uomo cosciente di ciò che è e di ciò che fa."
C., G., Jung
Il gruppo di Epochè augura a tutti una Buona Pasqua e una buona rinascita🌱nella forma più consona e più vicina alla vostra "autentica" natura.

29/03/2020

La memoria del Trauma

Il Trauma, nell'esistenza di un individuo, può essere causato da una molteplicità di fattori generalmente inaspettati e, comunque, in grado di incidere energicamente sull'assetto psichico della persona. Si tratta, secondo S. Freud, di «eventi in grado di provocare un'eccitazione psichica tale da superare la capacità del soggetto di sostenerla o elaborarla». Parliamo quindi di situazioni, condizioni che perturbano in modo stabile l'esistenza di un individuo, oppure, in un'ottica di relazione, di un gruppo più o meno ampio di soggetti. Tale perturbazione, o forse sarebbe meglio dire «urto», a differenza di altre situazioni descrivibili con questo termine, non lascia mai le cose come le ha trovate, perché ha necessariamente la caratteristica di non limitarsi al momento attuale, esprime cioè degli effetti nel tempo futuro dell'individuo o del gruppo colpito.
In questo scritto cercherò di analizzare, con brevità, alcuni aspetti del Trauma in riferimento alla tragica situazione mondiale nella quale l'intera umanità è stata precipitata dal virus in grado di sviluppare la malattia denominata Covid-19. Tale analisi, tuttavia, parte dal presupposto che gli effetti psicosociali del Trauma siano da mettere in relazione con un altro evento traumatico della storia moderna. Mi riferisco ai fatti riguardanti la seconda guerra mondiale.
Da più parti, infatti, mai come in questa situazione, i politici ed i media hanno definito l'emergenza Corona virus seconda solamente a quella vissuta durante la Seconda Guerra Mondiale e nel dopo guerra. Ed in effetti, in particolare l'Italia, non aveva mai visto dal dopoguerra ad oggi, una simile critica circostanza con un numero di morti difficilmente controllabile ed, in questo senso, assimile ad una guerra vera e propria. Morti quasi sempre senza nome, senza identità potremmo dire, come è ovvio quando la cifra giornaliera è così alta.
Le difese psichiche collettive hanno generato una forte opposizione al Trauma attraverso processi che potremmo definire basati sulla negazione: si parla dei morti quasi sempre usando il termine «vittime», vocabolo ambivalente non necessariamente indicante il decesso, oppure con la diffusione, almeno durante le prime settimane del fenomeno, della musica, dei canti dal balcone, dei video incitanti all'ottimismo e all'unità: bisogna negare «il male incontrollabile». Parliamo di difese, se alla fine dei conti è la morte il vero oggetto delle paure, legate spesso a fenomeni di scissione: a fronte dell'innegabile tragedia che sta sconvolgendo il mondo intero moltissimi si riscoprono bisognosi di attività fisica, di attività sportiva che permetta di arginare gli effetti del Trauma attraverso la focalizzazione sul proprio corpo, principale bersaglio del virus. Attività motoria che, chiunque abbia praticato sport lo sa, permette di dimenticare per qualche tempo l'angoscia del pericolo immanente. E' la scissione della mente dal corpo quella che necessita in molti nel momento in cui la malattia minaccia uno dei due, oppure, più realisticamente entrambi.
Ma questa emergenza, come ben sappiamo, non è solamente italiana. E qualcosa di imprevedibile è accaduto sul piano internazionale. Il Covid-19 ha scardinato, almeno apparentemente, strutture difensive solidissime che tenevano ben separati gli Stati così detti virtuosi da quelli dall'organizzazione interna problematica se non addirittura precaria. Mi riferisco al «Patto di Stabilità», un accordo fondante nella U.E. che prevede un tetto alle spese non coperte economicamente e quindi fonte di debito delle nazioni. La logica sino a pochi giorni prima dell'emergenza fa era del tipo: lo Stato Virtuoso è capace di organizzare le proprie risorse ed attività produttive in modo tale da non dover gravare, attraverso misure extra-debito, sul futuro economico dell'Unione nel suo insieme. In altre parole, se sai spendere i soldi della Comunità (europea), mostrando giudizio e capacità gestionale, non avrai bisogno di spendere i soldi dell'Unione in investimenti a rischio di insolvenza. Detto, ancora, in altro modo: non spendi più di quello che hai. Questa logica, delle nazioni del nord Europa, sino a pochi giorni fa intoccabile, oggi è in discussione. Tale baluardo potrebbe franare, a quanto pare, come è franato il muro di Berlino: semplicemente, quella divisione, distinzione tra popoli, non aveva più senso di esistere in quell'ormai lontano 1989. Appare evidente la consapevolezza da parte di tutte le nazioni dell'interdipendenza economica che ormai governa sia l'Europa che il resto del mondo. Interdipendenza economica ma non solo. Chi può negare l'esistenza di una cultura comune, intesa in alcuni casi come stile di vita e non altro, trasversale che lega tutto l'occidente e gran parte dell'oriente? Le immagini di queste settimane ci hanno mostrato una nazione, la Cina, decisamente diversa da quella che ci era stata proposta a scuola quando questo immenso Stato apparteneva al cosiddetto «terzo mondo». La Cina, paese dove vige una «dittatura di stato», e dove vi sono numerosissime contraddizioni interne a vari livelli - stiamo parlando di un'area del mondo che è passata da zona sottosviluppata a seconda potenza economica mondiale in meno di trent'anni, con tutto ciò che questo comporta a livello sociale - quanto appartiene all'area occidentale per stile di vita, politica estera, relazioni internazionali? Sicuramente molto, moltissimo. Dalla Cina e dalla Russia arrivano, in questi giorni, in Italia e non solo, aiuti in termini sia di personale medico che di attrezzature. Avremmo mai potuto immaginare qualcosa di simile sino a poche settimane fa? Forse questo insieme di elementi, solo apparentemente legati al mondo dell'economia, ci da l'idea delle dimensioni che il Trauma ha assunto e sta assumendo in particolare in Europa in relazione al Covid-19: il Trauma genera un tale senso di fragilità che porta i popoli ad accettare aiuti da chiunque.
Se accettiamo il presupposto che il Trauma debba essere rappresentato da situazioni, eventi, condizioni generalmente ripetute nel tempo, forse possiamo anche riflettere su come i Traumi si leghino tra loro in catene capaci di una autonoma rievocazione nel tempo stesso. In altre parole quali sono i Traumi che l'umanità ha vissuto nella sua storia moderna? Non c'è dubbio che il più recente, complesso, tragico e tutt'ora maggiormente rievocato in molteplici forme sia quello della Seconda Guerra Mondiale. La ferita del Conflitto Mondiale ha imposto una direzione radicalmente nuova alla storia dell'umanità nel suo insieme. Forse può essere utile parlare del Trauma usando come metafora descrittiva la costruzione degli edifici. Immaginiamo che ad un certo punto della costruzione di una casa venga usato, al posto dei mattoni, un materiale informe, irregolare, di natura intrinsecamente diversa, per resistenza e funzione, rispetto al mattone tradizionale. L'edificio presenterà, sotto l'intonaco, delle aree non sufficientemente armonizzate col resto della struttura. Di certo tali aree determineranno anche l'aspetto morfologico dell'edificio stesso: sarà difficile costruire un grande balcone sopra un'area percepita come instabile, l'altezza stessa della struttura nel suo insieme non potrà non risentire di tali aree. E cosa succederà in caso di stress? Possiamo dubitare sulla tenuta degli elementi portanti. Il Trauma influenza le definizioni future: non costruire un balcone può essere rappresentato, nell'individuo, come la difficoltà, oppure l'impossibilità, di realizzare progetti di largo respiro nella sua vita futura. Ad esempio in relazione all'unione stabile con un/una partner, oppure in riferimento alla predisposizione all'accoglienza di figli, o più semplicemente alla ricerca di una posizione lavorativa maggiormente gratificante e stabile per la propria esistenza. E' chiaro però che una simile rappresentazione del Trauma ha qualcosa di artificioso perché eccessivamente statica. Non include infatti la possibilità che altri eventi possano rappresentare, in qualche misura, una «cura». In tale concetto di «cura» dobbiamo chiederci se questi possano comprendere, a loro volta, altri eventi potenzialmente traumatici. Mi rendo conto che quest'ultima affermazione possa apparire controversa. Può un Trauma dive**re la cura di un altro Trauma? In termini assoluti probabilmente no. In termini relativi forse, almeno in parte, si.
Partiamo dal presupposto che gli eventi della nostra vita vengano selettivamente recepiti dagli altri membri delle comunità nelle quali abitano. In terapia quotidianamente operiamo una selezione degli eventi che il paziente ci porta, anzi, la selezione parte proprio dal paziente. Questo significa che per ragioni ovviamente prevalentemente inconsce, che non analizzeremo in questa sede, non tutta l'esperienza e quindi anche i diversi componenti del Trauma, possono ve**re trasmessi. Ma anche sul piano intrapsichico non possiamo immaginare il Trauma possa essere rappresentato in modo monolitico, la sua natura è sempre poliforme, composta da aspetti diversi, spesso contrastanti o contradditori, aspetti concatenati ma non tutti equiparabili tra loro dal punto di vista degli effetti sulla psiche (si pensi, ad esempio, alla schiera di istanze contrastanti nei vissuti legati all'abuso sessuale infantile, situazione traumatica molto diffusa e studiata). La SGM ha portato un livello di distruzione mai concepito prima di allora dall'uomo. Eppure, nonostante ciò, anzi, proprio per via di questo, si sono attivate difese psichiche individuali e collettive che nel dopoguerra hanno portato la nostra civiltà all'attuale definizione. Si potrebbe obbiettare che alcuni aspetti, quali condivisione, costruttività, organizzazione e cooperazione non appartengano al Trauma ma siano casomai delle risposte ad esso. Questo è senz'altro vero. Ma se facciamo una lettura «di sistema» della dinamica forse non è esattamente o solo così: se è vero che gli elementi descritti non sono parte del Trauma in senso stretto, è anche vero che da esso vengono sollecitati, potremmo dire, con un linguaggio non strettamente analitico, elicitati. In altre parole: senza il Trauma non sarebbero emersi con la stessa energia. Qui apro una piccola parentesi: l'energia di un sistema non cambia col modificarsi del sistema stesso. Il Trauma, probabilmente, sottrae energia in una direzione ma ne restituisce in un'altra, rappresentata ad esempio dalla sofferenza, ma anche dalla reattività. Inoltre, a conferma dell'energia connessa alla sofferenza, ben conosciamo il potere trasformativo del dolore psichico quando questo non venga negato, diretto a livello somatico o rimanga intrappolato in rigidi meccanismi di scissione.
E' indubbio che qualcosa di straordinario stia accadendo in questa nostra epoca in riferimento al Covid-19. L'Europa sembra ritrovare in parte, seppure a tratti, ed in modo disomogeneo, una compattezza ed un'unità che non si vedevano da molto tempo, forse proprio dal secondo dopo guerra. E' in quegli anni che nascevano i presupposti per gli accordi che avrebbero portato ad un'unione dapprima riferita ad alcune attività produttive, poi monetaria anche se, secondo molti osservatori, non ancora abbastanza «dei popoli». Oggi sembra vi sia da parte di diversi soggetti la riscoperta delle potenzialità difensive del gruppo rispetto al singolo. Questo principio, che ha dominato e tutt'ora domina l'esistenza di qualunque specie salvo rare eccezioni, si esplica attraverso istinti che riverberano la loro influenza su molti contesti della vita individuale e collettiva. Uno dei più importanti istinti sappiamo essere quello di conservazione. La «conservazione» dell'individuo consente la sopravvivenza della specie, la quale, a sua volta, permette la sopravvivenza dell'individuo in un'ottica evidentemente circolare. A proposito dell'attualità del ruolo degli istinti a livello sia comportamentale che psichico è utile ricordare che l'umanità affonda le sue radici in una storia di circa 2,3 milioni di anni, oppure, se si rimane all'interno del genere Homo, di 1,2 milioni di anni. La cosiddetta civiltà, ovvero quell'insieme di regole e norme sociali in grado di affiancarsi agli istinti e, talvolta di contrastarli, approssimativamente copre una piccolissima porzione di tale periodo, ovvero solo alcune decine di migliaia di anni. L'istinto (e la pulsione) è però sempre stato la guida per eccellenza del comportamento umano in condizioni critiche (in inglese useremo il concetto di Drive primari e secondari per indicare questo concetto). La tendenza all'unione avrebbe, da questo punto di vista, quindi una sua natura istintuale. Del resto basta osservare gli animali meno evoluti del genere Homo. L'organizzazione in gruppi, o branchi, garantisce maggiori probabilità di sopravvivenza agli eventi avversi, qualunque essi siano. Il confinamento domiciliare che stiamo vivendo in quest'epoca segnata dal Covid-19 non fa eccezione a questa regola: l'individuo segue direttive collettive per salvaguardare la specie nel suo insieme. Ma questa volta tale organizzazione travalica i confini nazionali. Anche la limitazione dei traffici tra nazione e nazione risponde al principio sopra esposto. Ma le cose, in termini di unità, in tempi moderni sono sempre andate così? Si potrebbe affermare di no se consideriamo le due guerre mondiali con l'esaltazione della disgregazione che hanno comportato. Le alleanze si sono mostrate spesso funzionali da una parte ad offendere il nemico - si pensi al patto di non belligeranza Molotov - Ribbentrop del 1939 tra Unione Sovietica e Germania Nazista - e solo dopo molto tempo a difendere il proprio diritto ad esistere (asse GB, Usa, Urss, Francia). Prima del secondo conflitto mondiale il nazionalismo, intendendo un individualismo esteso a livello di nazione, ha trovato un forte radicamento nella struttura politica generale del pianeta. Il Trauma della SGM ha portato un insegnamento che oggi potrebbe tornarci estremamente utile ma solo se vi fosse lo sforzo di rispondere alla seguente domanda: se fosse vero che «proprio (…) il principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte» (Freud, Al di là del principio di piacere) dobbiamo chiederci, alla luce degli eventi attuali, dove compaia Eros e dove lasci il terreno, o meglio, lo renda fertile, nel campo della pulsione di morte, di Thanatos. Dobbiamo chiederci quale equilibrio si stia realizzando tra l'uno e l'altro oggi.
Nei primi giorni del 2020 in Cina, da una città mai sentita prima, di oltre sei milioni di abitanti (più di due volte la popolazione di Roma), chiamata Wuhan, si iniziò a raccontare al mondo intero gli effetti della diffusione del Corona virus. Iniziava la conta dei morti. In Italia si assisteva al fenomeno, come spesso accade, prendendo semplicemente atto di quella che veniva giudicata una delle tante sciagure a cui il mondo, di tanto in tanto, va incontro. La vita proseguiva senza particolari cambiamenti. Tuttalpiù si iniziava a percepire la preoccupazione che la produzione industriale mondiale rallentasse. Del resto «la Cina è lontana» si diceva. I morti, nel frattempo, giorno dopo giorno, aumentavano. L'incapacità di cogliere l'aspetto umano, prima che quello economico del problema Covid-19 all'inizio della sua storia, attingeva forse, in qualche misura, da Thanatos? Una pulsione di morte non-agita, che trova appagamento nella morte altrui? Eros, espressione dell'economia (sofferente), come si pone in rapporto ad una pulsione che tende a negare il dramma umano? Non credo siano scattate, in un primo momento, delle difese legate al dramma della morte del popolo cinese. La pulsione di morte ha bisogno dell'assuefazione alla negazione, alla scissione dal sé individuale del dolore altrui. Siamo quindi la Civitas dell'assuefazione alla morte (altrui ma anche nostra)?
L'Italia è apparsa da quasi subito la più colpita tra le nazioni europee. Ancora una volta la dinamica precedente di osservazione della sofferenza altrui senza coinvolgimento si è presentata, ma stavolta all'interno dell'Europa: Eros e Thanatos hanno dilagato nel resto del Vecchio Continente, le nazioni si sono mostrate quasi tutte grandi asili dell'infanzia: si pensi alle dichiarazioni di Johnson che invitava i concittadini del Regno Unito a prepararsi alla morte nelle loro famiglie anziché prendere provvedimenti che sarebbero apparsi poi tardivamente, oppure a Macron che ha permesso elezioni locali in Francia, con grande coinvolgimento delle masse popolari, salvo poi impedire il secondo turno delle elezioni stesse. Gli Stati Uniti sembrano ora smarriti dietro il confuso ed inadeguato smalto del loro presidente e sono diventate la nazione più colpita dal virus al mondo. Ancora, si pensi ai materiali sanitari inviati dalla Cina all'Italia e trafugati con la complicità del governo Ceco. Quale «macchia cieca» collettiva ha governato la riflessione, e quindi l'azione, di queste nazioni nelle fasi iniziali di un dramma, come quello del Covid-19, riguardante una collettività planetaria e non una circoscritta comunità locale? Forse proprio la macchia cieca legata alle pulsioni di morte e ai fenomeni di negazioni peraltro tipici nella difesa dal Trauma. Eppure, sempre più, assistiamo all'interdipendenza di un'umanità si feroce, quando dominata da Thanatos, talvolta infantile quando attraversata da difese immature, ed anche assetata in modo irresponsabile di Eros attraverso un godimento che non può che condurre al baratro, ma pur sempre inevitabilmente appunto interdipendente. Tale umanità, inevitabilmente intercorrelata, mostrerà la consapevolezza che il dramma non può essere esorcizzato attraverso la negazione? Del resto non si può rimuovere il Trauma perché questo, come in guerra, si reitera di continuo.
Tutto questo passerà. Mi chiedo se non sia da considerare parte inscindibile del Trauma la pulsione di morte, il piacere della morte (altrui) e se tale consapevolezza possa facilitare la possibilità di guardare la realtà con più lucidità prima che gli eventi chiedano un prezzo troppo alto al cambiamento. In altre parole, mi chiedo se la memoria del Trauma non sia capace se non di preve**re nuovi Traumi, quantomeno di attenuare gli effetti di quello presente oppure se in realtà la memoria del Trauma, alimentato da una incontrollata sfiducia verso l'altro, non condurrà alla dissoluzione, ad esempio, dell'Unione Europea. Se così fosse significherebbe che, ancora una volta, Thanatos ha prevalso sulla pulsione di Vita dalla quale trarrebbe energie e la memoria del Trauma è solo una nozione priva di qualunque effetto sulle scelte costruttive dell'umanità. Oggi è il 29 marzo 2020, i morti nel mondo sono complessivamente 32.113 di cui 10.023 in Italia. Solo una parte di questi è deceduta realmente a causa del Covid-19. Le altre morti sono dipese dalle scelte umane operate nelle diverse nazioni.
Antonello Mosso

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