14/04/2023
Una giustizia antropocentrica non è una giustizia per l’universo
Nel mio libro “Wabi Sabi, la bellezza della vita imperfetta”, ho narrato degli Ainu, una popolazione indigena di alcune isole del Giappone e della pen*sola della Kamcatka, in Siberia, che vivono in un sorta di simbiosi con l’orso. Uomo e orso si potenziano reciprocamente presso gli Ainu. Avremmo molto da imparare dagli Ainu. Infatti, a causa della nostra visione antropocentrica del mondo siamo portati inevitabilmente a sentirci separati da ciò che ci circonda, e non partI di esso.
Se facciamo qualcosa che per noi è bello e giusto, ma che non considera l’orso, i passerrotti, la martora e il procione, allora non è veramente bello. Ciò che è bello è ciò che è in armonia con il tutto.
Una giustizia antropocentrica non è una giustizia per l’universo. L’universo non punisce e non premia nessuno, semplicemente cancella ogni nota stonata, ogni tratto di pennello fuori luogo.
L’unica cosa assente in natura è la bruttezza, perciò il brutto non è possibile, se non nella mente umana. Cambiare mente, come il serpente cambia la pelle, cambiare metodo di pensiero è un imperativo oggigiorno. Questo cambiamento di mentalità è un cambiamento del mondo, ed è fantastico!
Una sera vissi un’esperienza incredibile. Arrivai assetata a un torrente e affondai nell’acqua le mani e il viso. Aveva già incominciato a imbrunire e la vegetazione sulle sponde del ruscello era f***a. Lo notai solo quando alzai la testa dall’acqua: un orso dal collare era a pochi passi da me, un grosso pesce in bocca.
Non appena mi voltai a guardarlo, lui si rizzò sulle zampe posteriori. Ero così profondamente immersa nella natura che ci circondava, così intensamente legata al torrente, al pesce che stava morendo nella bocca dell’orso, agli alberi, che, piena di energia, mi alzai in piedi. Eravamo così: uno di fronte all’altra.
Pensai alle orchidee sui davanzali delle finestre nella mia casa; le offrii all’orso con un pensiero lento, come se avessi a disposizione un tempo infinito. L’animale non si mosse fino a quando la mia immaginazione non ebbe terminato di deporre di fronte a lui i fiori. Allora l’orso appoggiò pesantemente a terra le zampe anteriori. Mi sembrò che due sole cose fossero possibili: la prima era che se ne andasse, la seconda era che lasciasse cadere il pesce e mi aggredisse.
Lasciò il pesce. Chiusi gli occhi e tesi in avanti le braccia per proteggermi. Lui emise un ruglio profondo come l’oceano che mi separava dalle mie orchidee, dalla mia casa, dai miei figli, dalla mia vita... e poi se ne andò via lento. Dopo qualche passo si voltò a guardarmi, quindi prese a correre maestosamente, sembrava pieno di gioia.
E io? Io non mi trovavo. Mi cercavo, ma non sapevo dove fossi. In Giappone? Nel tempo che io impiegai a orizzontarmi Noburo, che aveva sentito il ruglio dell’orso, accorse.
Ci inginocchiamo entrambi davanti al grosso pesce ormai esanime, e io piansi.
"Era Kamuy, il dio degli Ainu", mi disse Noburo.
“Accetto!”, risposi, incapace di arrestare le lacrime. Poi chiusi gli occhi e, rimanendo in ginocchio, dormii un po’, mentre le mie lacrime cadevano sul pesce e, senza che me accorgessi, si mescolavano alla pioggia che aveva iniziato a cadere. Al risvelgio avrei avuto qualcosa da mangiare: era un dono dell’orso.
Tratto da Selene Calloni Williams “Wabi Sabi, la bellezza della vita imperfetta”, edizioni Pickwick-Mondadori
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