Dott.ssa Celeste Loglisci Psicologa

Dott.ssa Celeste Loglisci Psicologa Sono una psicologa psicoterapeuta ad orientamento Psicodinamico individuale e di gruppo

Molti genitori si sentono feriti  quando si parla di carenza affettiva o di inadeguatezza genitoriale, perché interpreta...
29/10/2025

Molti genitori si sentono feriti quando si parla di carenza affettiva o di inadeguatezza genitoriale, perché interpretano il discorso come un’accusa verso se stessi e si sentono giudicati rispetto al loro impegno genitoriale. E certamente può essere un aspetto che genera dolore e tristezza. In realtà il punto fondamentale non è tanto stabilire se abbiano voluto bene ai figli, ma è riconoscere che per generazioni intere è mancato il linguaggio emotivo necessario per trasmettere davvero quell’amore. Ci sono persone che hanno dato tutto ciò che avevano, ma quel “tutto” era LIMITATO a causa della mancanza di strumenti interiori ricevuti a loro volta durante l’infanzia.
Chi è stato cresciuto senza un modello affettivo sano spesso fatica a vedere e a credere che questo lo abbia ferito, perché ammetterlo darebbe la sensazione di mettere in discussione l’intera storia familiare, i propri genitori. Si sviluppa una fedeltà invisibile ,ovvero si difendono i genitori proprio come un tempo si è dovuto difendere e proteggere se stessi. E' una questione di sopravvivenza emotiva.I figli da adulti possono pensare che la loro infelicità dipenda dal carattere, dalla fragilità personale o dal destino, e questo perché nessuno gli ha insegnato a collegare il disagio alle prime ferite non riconosciute.
Non si tratta tanto di colpa, ma di responsabilità intergenerazionale. La colpa dice che avresti potuto fare meglio ma non l’hai fatto, non te ne sei curato, non hai fatto nulla per metterti in discussione e crescere, ma sei rimasto arroccato sulle tue posizioni. La responsabilità affettiva dice invece che hai fatto ciò che era possibile con ciò che avevi, che ti è stato trasmesso, ma oggi hai la possibilità di metterti in discussione e di decidere di acquisire ciò che ieri ti mancava. Questa è ciò che permette di guarire senza distruggere il legame, di riconoscere la ferita senza negare la realtà. Spezzare questa catena si traduce nella presa di coscienza di aver avuto una determinata storia affettiva, educativa, familiare, e quindi nel vedere le proprie ferite, il proprio dolore, accoglierlo, validarlo con l'intento di agire diversamente.

Molti genitori si sentono feriti  quando si parla di carenza affettiva o di inadeguatezza genitoriale, perché interpreta...
29/10/2025

Molti genitori si sentono feriti quando si parla di carenza affettiva o di inadeguatezza genitoriale, perché interpretano il discorso come un’accusa verso se stessi e si sentono giudicati rispetto al loro impegno genitoriale. E certamente può essere un aspetto che genera dolore e tristezza. In realtà il punto fondamentale non è tanto stabilire se abbiano voluto bene ai figli, ma è riconoscere che per generazioni intere è mancato il linguaggio emotivo necessario per trasmettere davvero quell’amore. Ci sono persone che hanno dato tutto ciò che avevano, ma quel “tutto” era LIMITATO a causa della mancanza di strumenti interiori ricevuti a loro volta durante l’infanzia.
Chi è stato cresciuto senza un modello affettivo sano spesso fatica a vedere e a credere che questo lo abbia ferito, perché ammetterlo darebbe la sensazione di mettere in discussione l’intera storia familiare, i propri genitori. Si sviluppa una fedeltà invisibile (quello che Benjamin chiama il dono d'amore),ovvero si difendono i genitori proprio come un tempo si è dovuto difendere e proteggere se stessi. E' una questione di sopravvivenza emotiva.I figli da adulti possono pensare che la loro infelicità dipenda dal carattere, dalla fragilità personale o dal destino, e questo perché nessuno gli ha insegnato a collegare il disagio alle prime ferite non riconosciute. È proprio così chr il ciclo continua e si ripete, come ha scritto e riscritto Alice Miller, chi non è stato visto interiormente, chi non ha avuto vicino a sé un testimone compassionevole, fatica a vedersi e a vedere a sua volta.
Quindi non si tratta tanto di colpa, ma di responsabilità intergenerazionale. La colpa dice che avresti potuto fare meglio ma non l’hai fatto, non te ne sei curato, non hai fatto nulla per metterti in discussione e crescere, ma sei rimasto arroccato sulle tue posizioni. La responsabilità affettiva dice invece che hai fatto ciò che era possibile con ciò che avevi, che ti è stato trasmesso, ma oggi hai la possibilità di metterti in discussione e di decidere di acquisire ciò che ieri ti mancava. Questa è ciò che permette di guarire senza distruggere il legame, di riconoscere la ferita senza negare la realtà.
Spezzare questa catena si traduce nella presa di coscienza di aver avuto una determinata storia affettiva, educativs, familiare, e quindi nel vedere le proprie ferite, il proprio dolore, accoglierlo, validarlo con l'intento di agire diversamente, con consapevolezza. Non serve avere fatto tutto perfetto, è praticamente impossibile, ma è fondamentale vedere la nostra storia, vedere quel dolore, da dove proviene e avere il coraggio di metterci mano.
L’affetto non basta se non c'è un ascolto profondo, che passa prima dall' ascolto di sé.

"Temono l’amore perché crea un mondo che non possono controllare".Questa frase mi risuona oggi come un monito e una care...
24/10/2025

"Temono l’amore perché crea un mondo che non possono controllare".
Questa frase mi risuona oggi come un monito e una carezza insieme: un monito per chi dimentica il potere della libertà dell’anima, e una carezza per chi ha scelto, nonostante tutto, di amare davvero.

Nel mondo che Orwell descrive - un mondo regolato dalla paura, dal controllo, dalla disciplina regolare del pensiero - l’amore rappresenta qualcosa di ribelle. Qualcosa che non si lascia incasellare, non si lascia dominare, non si lascia banalizzare.
Amare significa aprire spazi che vanno oltre la logica della mera utilità, del “ciò che si può governare”.
Amare significa dare vita a universi che sfuggono alle maglie strette del potere, della manipolazione, del conformismo.

E allora capisco: “temono l’amore" perché dove compare l’amore vero, autentico non si può più ridurre l’essere umano a pedina.
Dove appare l’amore vero, il controllo vacilla. E ci si perde per ritrovarsi davvero.
L’amore costruisce ponti, moltiplica relazioni, abbatte silenzi, inaugura verità.
L’amore è creazione, è apertura, è dono - ed è proprio questo dono che diventa un “mondo che non possono controllare”.

Credo che siamo chiamati a non avere paura di questo “mondo che non si può controllare”.
Sì, perché è nel rischio dell’amare che la nostra libertà si manifesta.
È nell’abbandonarsi - non come debolezza, ma come forza - che scopriamo quanto possiamo essere umani e generare relazioni che non si reggono su paura e dominio, ma su gratuità, fiducia, rispetto, libertà e amore vero.

Amare è l'atto di libertà più autentico e coraggioso: voler bene senza pretendere di possedere, ascoltare senza dover dominare, restare fedeli e scegliere e riscegliere anche quando per tanti motivi tutto invita a rinunciare.
L’amore apre un mondo che non è governato dall’ansia del controllo, ma dalla meraviglia del dono.
E in questo modo viviamo davvero, non subiamo gli accadimenti, non siamo in balia delle paure e dei meri ragionamenti.

La via più facile è fuggire, chiudere il cuore, proteggersi. Chi ama non piega lo sguardo, non boicotta ciò che il cuore percepisce.
Si teme l'amore perché è la vera rivoluzione.

(Davide Banzato)

Immag

23/10/2025
I LIVELLI DELL’AMOREC’è una fase, all’inizio di molte relazioni, che viene spesso scambiata per amore ed è quella in cui...
20/10/2025

I LIVELLI DELL’AMORE

C’è una fase, all’inizio di molte relazioni, che viene spesso scambiata per amore ed è quella in cui l’altro sembra incarnare tutto ciò che stavamo aspettando.
Non si tratta ancora di un incontro reale tra due esseri coscienti, ma di una attivazione del corpo astrale, cioè la parte energetico-emotiva che vive di impulsi, proiezioni e desideri.
In quella fase siamo sotto l’effetto di un’onda che ci sovrasta: non riusciamo a vedere l’altro per com’è, perché ci stiamo guardando attraverso di lui.
Ciò si presenta come una forma di euforia, ma al tempo stesso è anche di ipnosi.
Qui non c’è ancora libertà: c’è bisogno… non c’è contatto, ma solo attrazione.
Il fatto è che il corpo astrale non è stabile, non conosce equilibrio, ma solo picchi. Il problema sta nel fatto che ciò che sale troppo velocemente, inevitabilmente precipita.
Per questo motivo, lo stesso meccanismo che ci ha fatto idealizzare l’altro, col tempo ci fa cambiare polarità:
dall’idealizzazione alla delusione,
dall’attaccamento all’irritazione,
dal desiderio all’allontanamento.
Molte relazioni non finiscono per incompatibilità, ma per crollo dell’illusione in quanto il legame non era costruito su qualcosa di reale, ma su un investimento astrale reciproco e, quando l’energia emotiva si consuma, resta il vuoto… o peggio, il rancore.
Chi prima era “tutto”, ora diventa “il problema” e nel momento in cui il legame si rompe, fa male come se ci strappassero qualcosa di vivo:
perché un legame astrale, quando si spezza, lacera.

Poi c’è un altro tipo di esperienza: quella fisica.
Questo tipo di relazione viene spesso disprezzata da chi si dichiara spirituale, ma in realtà è quantomeno più pura di quella emotiva.
L’incontro fisico tra due corpi può essere diretto, istintivo, naturale…non ha pretese, non ha bisogno di giustificazioni metafisiche.
Semplicemente il corpo cerca unione, rilascio, piacere e in sé, questo movimento è neutro:
diventa problematico solo quando si aggancia all’emotivo, cioè quando si comincia ad aspettarsi qualcosa, a chiedere garanzie, a pretendere ruoli.
Il dramma non è nel corpo… il dramma nasce quando l’atto fisico diventa pretesto per costruire legami emotivi/astrali.

Ma esiste un altro amore che non nasce né dall’emotivo né dal bisogno fisico, ma da un riconoscimento animico.
Questo è un amore lucido che non chiede che l’altro ci riempia e non viene usato per colmare un’assenza, ma riconosce l’altro come essere autonomo e lo ama proprio in virtù della sua libertà.
Non cerca di trattenerlo, lo sostiene nel suo cammino.
L’amore cosciente non dice “stai con me perché ne ho bisogno”.
Dice: “Se la tua anima fiorisce accanto a me, restiamo. Altrimenti, vai”.
È un amore che si prende cura, ma non controlla, che non si misura in parole dolci, ma in presenza reale…non è dipendenza emotiva.
Questa è la vera differenza:
nell’amore emotivo, chiedi che l’altro si comporti in un certo modo per non stare male tu.
Nell’amore consapevole, desideri che l’altro realizzi sé stesso, anche se questo significasse perderlo.
La maggior parte delle relazioni oggi si muove tra il piano emotivo e quello fisico, con qualche illusione spirituale che copre la dipendenza… ma se non si attraversano questi due primi livelli con lucidità e verità, non si arriva mai a quello autentico.

L’amore vero non ti fa perdere la testa.
Ti fa trovare te stesso… e non perché l’altro ti completa, ma perché accanto a lui… ricordi chi sei.

Maria Rayka

Lo psicoanalista J.M. Quinodoz nel suo celebre libro “La solitudine addomestica” ci offre una definizione di ciò che lui...
02/10/2025

Lo psicoanalista J.M. Quinodoz nel suo celebre libro “La solitudine addomestica” ci offre una definizione di ciò che lui intende per qualità di portanza.
“Per qualità di portanza dell’oggetto interiorizzato, indicherei il sentimento dell’analizzando che prova la gradevole sensazione di arrivare a “ volare con le sue ali”, perché percepisce di aver conseguito la capacità di autosostenersi, rendendosi così indipendente dall’oggetto di cui prima aveva bisogno per “essere portato”.
È una sensazione nuova e complessa, di gioia e paura mescolate, accompagnata dal sentimento di essere finalmente se stessi, dalla consapevolezza che ci può dirigere nel tempo e nello spazio conoscendo i propri limiti, e dalla capacità di sperimentare il va e vieni dell’oggetto senza troppa angoscia.”
J.M. Quinodoz, La solitudine addomesticata, p.220, Borla, 2009.

Quando una fonte si prosciuga: il peso delleesperienze finite✒️ Dr. D’Angelo | Voce delle SoglieCi sono esperienze dentr...
09/09/2025

Quando una fonte si prosciuga:
il peso delle
esperienze finite

✒️ Dr. D’Angelo | Voce delle Soglie

Ci sono esperienze dentro di noi che si esauriscono. Sono relazioni, situazioni, legami o ruoli da cui abbiamo attinto e verso
cui abbiamo dato tutto ciò che potevamo. Eppure, a un certo punto, quella fonte si prosciuga. Non c’è più nulla da dare, né da
ricevere. È difficile accettarlo. Perché ciò che ha avuto senso, ciò che ci ha
nutrito, non si lascia andare facilmente. Anche quando è finito, anche quando è vuoto, resta lì. E noi restiamo aggrappati. Come se
lasciarlo andare fosse una forma di tradimento. Come se mollare la
presa fosse rinnegare ciò che è stato.
Ma trattenere ciò che si è esaurito ha un prezzo: diventa peso. Ingombra lo spazio interno. Occupa stanze che potrebbero ospitare altro. Ci riporta continuamente indietro, mentre la vita spingerebbe
avanti.Tratteniamo per fedeltà, diciamo. Ma spesso tratteniamo per paura. Perché se lasciamo andare davvero, dobbiamo fare i conti con quel vuoto. Con il tempo che non torna. Con la parte di noi che ha creduto, che ha sperato, che si è data intera.
Eppure lasciare andare non è dimenticare. È riconoscere che quella sorgente ha dato tutto ciò che poteva dare. Che quel tempo ha fatto
il suo corso. Che noi possiamo esistere anche oltre quel legame, oltre quel luogo interiore.
Il dolore, in questi casi, non è solo perdita. È trasformazione. È uno sguardo che cambia direzione. È la possibilità di tornare a se
stessi, con una memoria integra, ma non più ingombrante.In terapia, a volte, si lavora proprio su questo: accompagnare
l’altro nel gesto interiore del congedo. Non con rabbia, non con fretta, ma con verità. Aiutare a deporre ciò che è stato, senza rinnegarlo. Perché una fonte, per quanto amata, non può continuare a darci acqua se si è prosciugata.
E allora, forse, possiamo imparare a lasciare andare. A custodire senza trattenere. A ringraziare ciò che è stato. E, con passo lento, fare spazio a ciò che ancora non conosciamo, ma che ci aspetta.

Quando i mostri della mente si stancano e noi impariamo a danzare sotto la pioggiaCi sono momenti della vita in cui la m...
04/09/2025

Quando i mostri della mente si stancano e noi impariamo a danzare sotto la pioggia

Ci sono momenti della vita in cui la mente sembra popolata da mostri. Non hanno un volto definito, eppure li riconosciamo: sono ansie, ossessioni, paure che ci inseguono senza tregua. Ci paralizzano, ci tolgono il respiro, ci fanno credere che non riusciremo mai a liberarci da loro.

La verità, però, è che questi mostri non sono eterni persecutori. Hanno la forza che noi concediamo loro. Si nutrono della nostra resistenza, del nostro tentativo disperato di controllare ogni pensiero, di zittire ogni emozione. È quando iniziamo a non combatterli più, quando smettiamo di inseguire la perfezione e la sicurezza assoluta, che accade qualcosa di sorprendente: i mostri si stancano.

Non perché spariscono, ma perché non trovano più terreno fertile nel nostro terrore. E in quel vuoto che si apre nasce una possibilità nuova: quella di danzare sotto la pioggia.

Ballare sotto la pioggia non significa amare il dolore, né cercarlo. Significa riconoscere che la vita non è fatta solo di giornate di sole. Ci sono tempeste che non scegliamo, ma che attraversiamo. E possiamo decidere se restare fermi, bagnati e tremanti, o se muoverci, respirare, lasciarci bagnare senza che l’acqua diventi catena.

È in questo gesto che nasce la libertà: non dall’eliminare i mostri, ma dal togliere loro il potere di governare la nostra vita. E allora anche la paura diventa insegnante, anche l’angoscia può trasformarsi in un varco, anche la notte custodisce un’alba.

La danza sotto la pioggia non è spettacolare, non è perfetta. È fragile, tremante, incerta. Ma è vera. È la prova che, anche nel dolore, possiamo restare vivi, presenti, capaci di aprire uno spazio di respiro.

E forse la vita non ci chiede altro: non di vincere ogni battaglia, ma di non smettere di danzare.

“Tanto più si conosce la propria cattiveria, tanto più si è capaci di proteggersi da quella degli altri. […]. Le persone...
29/08/2025

“Tanto più si conosce la propria cattiveria, tanto più si è capaci di proteggersi da quella degli altri. […]. Le persone che si lasciano maltrattare dagli altri sono o molto giovani, o troppo candide; ma soprattutto esse sono indirettamente responsabili di ciò che accade loro, non hanno sufficiente coscienza del male che hanno in sé. Se l’avessero, acquisirebbero una sorta di percezione intuitiva del male negli altri e non presterebbero il fianco. [...] Lo sciocco idealista che si lascia imbrogliare da tutti può essere aiutato non con la pietà, ma conducendolo alla sua Ombra interiore”.

Marie Louise von Franz, Il femminile nelle fiabe

L’uomo viene gettato nel mondo e deve accettare di vivere con angoscia la sua esistenza. Ora qualcuno mi potrà dire: ma ...
25/08/2025

L’uomo viene gettato nel mondo e deve accettare di vivere con angoscia la sua esistenza. Ora qualcuno mi potrà dire: ma perché alcuni sono presi dall’angoscia e altri no? Non è facile rispondere. Certo si può dire che forse c’è un problema di sensibilità, per il quale, per esempio, alcune persone non si fanno mai delle domande. Vivono tranquillamente una vita all’esterno, si accontentano di quello che succede, e la loro vita scorre. Nessuno può biasimare questa modalità. Ma ci sono invece poi delle persone che si fanno delle domande. E siccome a queste domande non si può mai rispondere, proprio la mancanza di risposta può generare l’angoscia. E allora l’angoscia diventa uno strumento significativo. Io punto molto su questi aspetti, perché la persona sofferente crede di essere la persona più disgraziata del mondo: in realtà quella sofferenza diventa quella spina che è nel fianco, oppure che è dietro la nuca, ci impedisce di dormire e quindi ci spinge verso la conoscenza, ci spinge a capire cose che altrimenti non avremmo mai capito. Una persona angosciata, secondo il mio punto di vista, ha un tipo di nobiltà che la persona che non conosce angoscia, non ha mai avuto né potrà mai avere. Naturalmente è un tipo di nobiltà che la persona angosciata ha e questo tipo di nobiltà ha un prezzo molto alto. Io non potrei dire se vale la pena o non vale la pena di pagarlo, però so che bisogna pagare questo prezzo. Anche perché poi, in fondo, le cose veramente importanti nella vita non vengono mai date con uno sconto, hanno sempre un prezzo.

Aldo Carotenuto

“A volte mi chiedono cosa si prova a fare lo psicoterapeuta.E io vorrei rispondere senza parole.Con il silenzio che prec...
25/08/2025

“A volte mi chiedono cosa si prova a fare lo psicoterapeuta.
E io vorrei rispondere senza parole.
Con il silenzio che precede un pianto.
Con la pelle che assorbe le storie.
Con gli occhi che trattengono il peso di ciò che non si può dire.
Fare lo psicoterapeuta è entrare in stanze dove il dolore ha voce,
dove i sorrisi sono difese e la rabbia è solo una richiesta d'amore.
È sedersi accanto a un'anima nuda
senza vestirla di consigli,
senza aggiustarla.
Solo esserci.
Con la presenza che cura più delle parole.
È sentire il nodo alla gola di chi parla,
mentre tu lo senti anche nel tuo.
È restare saldi quando il mondo dell’altro trema.
E poi gioire in silenzio
quando un piccolo gesto
diventa il primo passo verso la vita.

Non salviamo nessuno.
Ma accompagniamo.
Nel buio, nel caos, nella rinascita.
Con rispetto.
Con grazia.
Con un amore che non chiede nulla.
È un mestiere che ti cambia la voce,
ti cambia il cuore,
ti cambia la pelle.
E a volte, quando meno te l’aspetti,
cura anche te.”

Oscar Travino

CIÒ CHE LA PSICOTERAPIA NON Èdi Giuseppe RanioloLa psicoterapia è un atto di cura: silenzioso, complesso, trasformativo....
03/08/2025

CIÒ CHE LA PSICOTERAPIA NON È
di Giuseppe Raniolo

La psicoterapia è un atto di cura: silenzioso, complesso, trasformativo. Implica rispetto per la soggettività e per i tempi della psiche. Ma oggi questo spazio “sacro” è spesso travolto da logiche di mercato, potere, narcisismo e spettacolo. Occorre ricordare cosa la psicoterapia è e cosa non deve mai diventare.

1. Non è una merce.
Quando è confezionata come prodotto, venduta con slogan, pacchetti o “risultati garantiti”, la psicoterapia perde la sua anima. La cura non è consumo: non si misura in efficienza né in stelle su una piattaforma.
2. Non è una chiesa.
Le scuole che si chiudono in dogmi e carismi tradiscono il pensiero clinico. La clinica viva non ripete formule: interroga, ascolta, si trasforma.
3. Non è esercizio di potere.
Chi cura non domina, accompagna. Non offre soluzioni preconfezionate, ma sostiene la soggettivazione. Ogni sfruttamento, anche sottile, è abuso.
4. Non è un surrogato affettivo.
La relazione terapeutica non sostituisce legami mancati: li elabora. Se resta nella fusione idealizzante, produce dipendenza, non libertà.
5. Non conferma l’Io: lo interroga.
La psicoterapia non adatta, non potenzia. Non promette benessere o successo, ma consente di abitare la propria verità, anche scomoda.
6. Non è uno spettacolo.
La narrazione clinica non è materiale da brand. Esibire il dolore altrui o il proprio ruolo di “guaritore” è una violazione etica.
7. Non deve servire il dominio.
La cura psichica non normalizza, non addomestica. Interroga i codici del potere, non li conferma.
8. Richiede pensiero e formazione continua.
Non basta un titolo. Serve un percorso personale, una supervisione costante, una responsabilità etica attiva.
9. È sempre un atto etico.
Curare è sostenere il soggetto, non la prestazione. È tollerare il silenzio, custodire l’invisibile, resistere alla semplificazione.

Chi cura deve proteggere il confine tra parola e potere, tra incontro e invasione, tra cura e dominio.

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