19/11/2025
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SUPERVISIONE E PSICOTERAPIA: TROVA LE DIFFERENZE
L’idea della supervisione nasce quando Ferenczi prima, e poi Jung, iniziarono a dire che ogni terapeuta avrebbe dovuto fare la sua analisi personale. E ve lo figurate Sigismondo? Freud intendo? Che se la cantava e se la suonava fino a quel momento e che si vedeva chiamato a raccontare i fatti suoi ai discepoli?
Ed è di quell’emozione che parleremo oggi, di quanto i terapeuti mantengano riserbo sulla loro vita professionale e di come vivano la supervisione come un luogo un pelino da massoni, quello in cui raccontarsi la verità su tutto bandendola dalla terapia e negandola ai pazienti.
E se da una parte questo assetto è funzionale alla terapia, dall’altra costituisce un terzo spazio che viene negato alla coppia terapeutica. Ma riflettiamo insieme… sempre se vi va.
Magari i pazienti si interrogano, si chiedono cosa venga detto su di loro in supervisione. Anzi, senza magari, se lo chiedono e me lo hanno chiesto, oppure semplicemente lo hanno alluso… qualcosa del tipo “Chissà cosa dirà di me in supervisione doc!”
Allora lo confesso, nella mia prima analisi anche io ho alluso al terapeuta. Alludetti al fatto che mi chiedevo se lui, Leonardo, un attempato analista che somigliava, come tutti noi, al sig. Freud, occhiali, barba, cani ma niente sigaro… facesse supervisione.
Insomma quello che gli dissi suona più o meno così: “Doc, sa che sono combattuto tra la fantasia grandiosa di essere un caso abbastanza intrigante al punto che lei lo porti in supervisione e, al tempo stesso, vivo il terrore che io sia grave al punto da costringerla a portare il mio caso in supervisione?”.
Dunque, esiste uno spazio altro dalla terapia dove la terapia prosegue. Questa è la supervisione. Un incontro in cui un terapeuta o una terapeuta va da un altro terapeuta o da un’altra terapeuta per parlare di un paziente o di una paziente.
Potete chiedere a una qualsiasi AI per sapere cosa sia la supervisione e vi dirà che è un processo di analisi con un collega più esperto per migliorare la pratica clinica con casi complessi.
Quindi? Se sei complesso finisci nell’agenda del supervisore? Se non ci finisci non sei complesso? Mhh, direi che la complessità non va intesa come aspetto intrinseco del paziente ma della coppia terapeutica.
In vero succede qualcosa di molto intrigante in supervisione, ossia i terapeuti esplorano la dinamica con i pazienti proprio allo stesso modo in cui i pazienti esplorano la dinamica coi loro congiunti.
Si si ok ok, c’è un contorno di tecnicismo clinico, di messa a fuoco di elementi riconducibili all’evidence based, ci sono bevande a base di diagnosi e tipo di funzionamento del paziente e posate fatte di strumenti trattamentali.
Ma la portata principale è sempre quella del tipo: quel pazienti mi irrita, mi piace, mi diverte, vorrei non vederlo, fatico a congedarlo, è bella, brutto, magro, non si lava, molto curato, mi fa domande personali. Mi sento in difficoltà.
La supervisione allora diventa il luogo in cui ci si chiede che farsene di quelle sensazioni e di quelle emozioni nate nello spazio analitico. Con quei pazienti che non fanno i bravi pazienti.
Iniziate a sentire un formicolio al naso? Iniziate a chiedervi quale sia la differenza con una terapia? Inizia a risultarvi evidente che la supervisione è una psicoterapia che si occupa delle mie difficoltà con i pazienti? E possiamo anche ammettere e confessare che ogni terapeuta che si rispetti torni a casa dicendo, di quando in quando, qualcosa del tipo: “Cavolo oggi sono molto stanca, ho un paziente che mi mette piuttosto pensiero”.
Insomma terapia e supervisione sono fatte della stessa materia anche se i terapeuti le trattano troppo come cose diverse. Lo dico sempre ai colleghi che vengono in supervisione da me, ogni terapia che si rispetti deve giungere al punto che lei e il suo paziente parliate con lo stesso tenore con cui parliamo qui.
Si perché provate a pensare a una situazione in cui voi parlate con un amico o un conoscente e lui, venite a sapere, si trattiene dal dire alcune cose a voi per poi parlarne col vicino di casa. Ognuno di noi si chiederebbe perché mai non ce lo abbia detto in faccia.
Uno spazio terzo, insomma, esterno alla coppia terapeutica, uno spazio in cui entrambi sono limpidi, in gioco, pronti a scusarsi, pronti a mostrare i loro limiti e a ragionare su come porsi nel modo il più etico, utile, umile, costruttivo e curativo.
E perché mai questo assetto di limpidezza non giunge direttamente nella terapia? Sembrerebbe già di per se un vizio nella relazione analitica. Perché non dire al paziente che mi irrita, mi piace, mi diverte, vorrei non vederlo, fatico a congedarlo, è bella, brutto, magro, non si lava, molto curato, che le domande personali non mi piacciono?
“Non è forse per questo che ci pagano?” Si chiedeva Hillman. “Per avere le nostre reazioni!”
Si direi che la supervisione è il luogo in cui si ragiona su come dare le nostre reazioni ai pazienti in modo che non li feriscano o destabilizzino, in modo che possano diventare risorsa per osservarsi nello specchio che diveniamo.
Le reazioni sono il cibo della terapia e devono essere digerite. Ma mentre i pazienti hanno il diritto di portare cibo indigesto o indigeribile e noi abbiamo il compito di favorirne la digestione, noi terapeuti abbiamo il compito di portare reazioni che siano già digerite e digeribili.
Per questo la supervisione si fa da giovani professionisti mentre col passare degli anni si trova sempre più facile dire “le devo dire qualcosa che potrebbe risultarle faticoso, posso?... le sue domande incalzanti mi mettono un certo affanno che va sottobraccio a una strana irritazione”
Ahahahaha come sono professionale vero? E si deve esserlo, ma vi rivelo e confesso che un buon terapeuta, ed io lo sono, spesso cade nell’errore comunicativo, agisce una certa irritazione. Ma sta nel correggere quell’errore che buona parte della terapia si scioglie, almeno in merito alla dimensione relazionale.
A volte si finisce di digerire lavorando come terapeuti.
E i modi di agire emozioni o reazioni negate o non supervisionate sono molti. Si chiude due minuti prima o dopo, si risponde in ritardo magari senza salutare, si alza di poco il volume della voce o si diventa impazienti nel rispondere.
Il punto è che il bisogno di uno spazio terzo è legato ad una diffusa vergogna rispetto a ciò che si prova di fronte a un paziente. Si, perché se ciò che proviamo non ci impaurisce e non ci imbarazza, allora diventa strumento.
Ogni terapeuta che si rispetti, ed io mi rispetto, fa delle sue emozioni il suo principale strumento. Se mi irrito o mi sento manipolato, allora questa esperienza è quella che avviene spesso nella vita del paziente. Del resto, ogni relazione terapeutica è un prototipo di relazione, senza che stiamo a invocare la coazione a ripetere.
Allora si diventa supervisori quando non sai ha più bisogno del supervisore, ossia quando si riesce a stare nell’analisi con la propria totalità senza sentire parti di se come eccessive, o fuori luogo.
Ecco! Non vi sembra forse questa anche la miglior definizione di quale sia la fine e il fine della terapia?
Allora un buon terapeuta è soprattutto paziente, nasce paziente e pazientemente ascolta i pazienti. Poi ascolta se stesso in quella relazione e racconta cosa sente di se, e non per contenere, non per silenziare o incolpare, no.
Solo perché ciò che io provo nel corso di questa terapia è il gioiello più prezioso di cui ti posso fare dono. Ma due accortezze, il paziente deve essere pronto a riceverlo ed io a offrirlo nel modo giusto.
Buona terapia e che diventi una supervisione
Luca Urbano Blasetti