27/10/2025
“Un giorno arrivi su questa terra chissà da dove, forse sempre da qui. Te ne nutri, cresci, lotti, prendi botte, patisci, gioisci, speri, disperi, lotti e speri. Alla fine, comunque, ogni vita va alla morte e vi si perde. Ogni cosa si disfa, si disgrega, si annulla. La verità è che, per tutto il tempo, la vita fa solo una cosa: va a morire.”
O forse questo è solo un possibile punto di vista, una mesta visione che riflette la soggettiva percezione di un essere umano in un dato momento. Già, perché la vita viene concepita e interpretata in maniera sempre differente.
“La nostra percezione può in ogni istante oscillare tra il buio di un’insensata sofferenza e la luce potente della gioia, così che la vita stessa può apparirci un momento come un’infinita austerità e, il momento immediatamente dopo, fonte di inesauribile speranza.”
La vita è insondabile, è sempre la stessa, e nessuno sa veramente. Tutti le proiettiamo addosso ciò che abbiamo dentro: le nostre oscillazioni tra gioia e dolore, luce e buio, speranza e disperazione.
Questa meravigliosa complessità emerge nel romanzo attraverso le parole dei tanti personaggi, che sembrano mettere in scena un conflitto che alberga in ciascuno di noi.
Allo stesso modo, per tutta la vita nell’essere umano si consuma un’altra battaglia titanica: quella tra natura e cultura.
Da una parte, il “gigante” della cultura — le norme, la civiltà, la ragione, la formazione — costruite da secoli di storia per contenere gli istinti. Dall’altra, la carne, simbolo della natura viva, impulsiva, indomabile, che pulsa, urla, ribolle.
Un contrasto universale e senza soluzione: la natura non si lascia “addomesticare” e, quando è repressa, “spacca la scorza” delle regole, irrompendo con violenza. La civiltà allora appare come una pelle fragile che l’uomo indossa per sopravvivere, ma sotto la quale ribolle qualcosa di più autentico, e forse più terribile.
Le storie degli uomini si collocano dunque dentro la vastità di “una natura maestosa, infinita, potente, bellissima, ma anche feroce e assassina”.
“Così, se pensiamo alle scene di un simile che annienta il suo simile, all’appassire di un fiore, allo sfiorire della bellezza, vediamo come la natura, di cui ciascuno ignaro partecipa, chiede per sé un attimo di distrazione, un cambio di vento, e la vita è finita, l’amore è sfumato, non resta più niente.”
Su questo sfondo di profonde riflessioni esistenziali si snodano le vicende del protagonista, Aldo Masi, psichiatra responsabile della Sezione Detenuti del Reparto di Psichiatria, chiamato a svolgere il delicato ruolo di discriminare il confine tra follia e colpa, tra libertà e necessità.
Il reclusorio, altrimenti detto “purgatorio”, è una metafora potente: non solo un luogo fisico, ma uno spazio liminale, sospeso tra due giudizi — quello morale e quello medico. Lì gli individui non sono ancora condannati né assolti: attendono che qualcuno decida se il loro male sia colpa o natura, peccato o malattia.
Masi, affiancato dalla sua preziosa allieva e compagna di riflessioni Alice Morna, ci accompagna in un racconto che attraversa tante storie drammatiche, restituendone una lettura analitica che ne coglie la complessità, senza mai scivolare nel giudizio, ma con una sensibilità profonda e partecipe, capace di illuminare quella zona d’ombra dove la follia e l’umano si confondono.