07/10/2025
Venerdì 3 ottobre presso il Santuario S.S Medici di Bitonto, si è tenuta un momento di preghiera, voluto dalla CEI da don Massimo Angelelli, tra il nostro hospice e in collegamento il Bambin Gesù di Roma.
La preghiera è stata animata da don Antonio Stizzi responsabile dell' Ufficio Pastorale Della Salute .
In questa serata la protagonista è stata una "CURANTE", giovane infermiera assunta in hospice.
Di seguito pubblichiamo il suo testo.
Buona sera a tutti
Mi chiamo Valeria e sono un’infermiera di cure palliative.
L’hospice è un luogo spesso visto come “l’ultima tappa”, ma che io ho imparato a conoscere come uno spazio pieno di vita. Sì, proprio così: vita.
Quando si parla di malattia terminale, molte persone pensano che “non ci sia più niente da fare”, ma per noi che lavoriamo in cure palliative, questa frase non ha senso.
Perché c’è sempre qualcosa da fare: alleviare il dolore, ascoltare, sostenere, accarezzare una mano, offrire una presenza.
Non possiamo più cambiare la prognosi, è vero, ma possiamo cambiare profondamente la qualità di vita delle persone che accompagniamo.
E questo è un atto di cura, ma è anche un atto d’amore.
Spesso mi chiedono: “Ma non è pesante, emotivamente, stare ogni giorno a contatto con la morte?”
Io rispondo che non si è mai davvero a contatto con la morte, quanto piuttosto con la fragilità, con la verità e con l’autenticità della vita.
In hospice ho visto persone riconciliarsi dopo anni.
Ho visto sorrisi e ho ascoltato storie e vissuti meravigliosi.
Ho imparato che la fine della vita può essere un momento di profonda bellezza, se è accompagnata con dignità, rispetto e presenza.
Nel nostro lavoro, la relazione è tutto.
È nella relazione che nasce la cura: quando ci sediamo accanto a un letto, quando chiamiamo per nome e non per numero di stanza o posto letto, quando ci fermiamo anche solo un minuto in più.
Non servono grandi azioni: la cura passa nei dettagli, nei piccoli gesti quotidiani, nei silenzi condivisi.
Come infermiera, mi sento privilegiata.
Perché ogni giorno entro in punta di piedi nella vita delle persone, in un momento delicatissimo, e lì mi è chiesto di portare competenza, ma anche umanità.
Ed è proprio lì, nel dolore, nella paura, nella vulnerabilità, che si manifesta la parte più vera del nostro essere umani.
E anche, se vogliamo, la parte più sacra.
Il nostro lavoro non è solo “assistenza sanitaria”. È una vocazione alla presenza.
Essere accanto a qualcuno quando soffre, quando ha paura, quando sente che il tempo è breve: questa è una responsabilità enorme, ma anche un dono.
Ecco perché, anche quando sembra che “non ci sia più niente da fare”, c’è ancora tutto da essere: essere umani, essere vicini, essere presenti.
E questa, per me, è la più bella forma del “curare”.