12/11/2025
Riflessioni di Massimo Recalcati
Perché non esiste a scuola una materia che si chiama “educazione” in senso lato? Perché la scuola «nel suo complesso», appunto, come scrivo, è tenuta a generare degli effetti educativi. «Nel suo complesso» significa nell’attività didattica, nelle relazioni tra insegnanti e allievi, in quelle tra gli allievi, insomma in quella vita comunitaria che dovrebbe costituire l’anima vivente di ogni scuola. Sarebbe allora pensabile una materia che avesse come tema l’insegnamento dell’educazione in senso lato? No, non lo sarebbe.
Lo stesso vale, nel mio ragionamento, per la cosiddetta educazione sessuale e affettiva. Un bravo insegnante non è un filosofo della morale, non pretende di condurre le vite dei suoi allievi nella giusta direzione (quale sarebbe poi?), non è un educatore di professione. La didattica è già in se stessa profondamente educativa senza che questo costituisca il suo programma esplicito. Resto convinto che non avrebbe senso alcuna materia deputata all’insegnamento di cosa sia educazione sessuale o all’affettività perché questa educazione dovrebbe scaturire dalla vita stessa della scuola.
Per quel che mi riguarda molto meglio una lezione su Flaubert o su Saba, sul terrore giacobino o sulla nostra Costituzione che una spiegazione “educativa” per comprendere cosa significhi tolleranza e rispetto della differenza, accoglimento e critica alla discriminazione di ogni genere. Senza l’aggancio con la didattica ogni discorso correrebbe infatti, sempre a mio modestissimo parere, il rischio di una caduta psicologistica nutrendo l’illusione che esistano “esperti” o “specialisti” deputati a spiegare come dovrebbe essere una sessualità e una affettività “giusta”.
E poi tenuto da chi? Io per primo mi rifiuterei di spiegare cosa dovrebbe essere una sessualità e una affettività “giusta”. Soprattutto in un’aula magna piena di sedicenni. Forse mi vedrei meglio a parlare, solo se però lo volessero, ai loro genitori non per offrire un modello ideale, ma per evocare la centralità che la testimonianza attiva del loro reciproco rispetto può avere nella sua trasmissione ai loro figli. Credo per questo che anche un solo gesto o una parola di un insegnante possa valere molto di più di qualunque educazione strutturata alla sessualità o all’affettività nella formazione di un giovane.
Ma tutto questo mio personalissimo ragionamento trova la sua giustificazione in un tema ancora più scabroso. Riguarda quello che chiamiamo prevenzione. Ho compiuto 65 anni e da 35 ascolto bambini e bambine (all’inizio della mia attività), ragazzi e ragazze, uomini e donne parlarmi delle loro più diverse e insopportabili sofferenze. Parte di queste sono legate alla sessualità e alla propria vita affettiva. Lasciami fare per esperienza questa semplice considerazione: l’idea che sia la trasmissione del sapere a dissuadere dalle cattive pratiche risponde a un “modello greco” della conoscenza che alimenta purtroppo solo illusioni: conoscere il nostro bene significherebbe fare il nostro bene.
Avendo partecipato a tavoli nazionali e internazionali di ogni genere sul tema della prevenzione, tutte le persone più oneste intellettualmente che ho potuto conoscere condividevano il presupposto che ciò che previene non è affatto il sapere. Questo “modello greco” è stato infatti scombussolato traumaticamente da quello cristiano prima e da quello della psicoanalisi poi: «Perché non faccio quello che veramente voglio, ma solo quello che detesto?», si chiedeva Paolo di Tarso nella sua Epistola ai Romani. Domanda inquietante che non possiamo eludere e che la psicoanalisi ha messo al centro della sua prassi: perché pur sapendo quale sarebbe il proprio bene gli esseri umani possono tendere a fare il loro male? Domanda che è davvero spesso al cuore della nostra vita affettiva e alla quale nessuna istruzione può rispondere.
E allora? Cosa ci salva? Cosa rende possibile una vita affettiva e sessuale gioiosa e affermativa? Risponderò in modo bruscamente sintetico isolando quelle che a me appaiono le due condizioni di base. La prima: serve la testimonianza reale dei propri genitori o di qualunque altro adulto di riferimento che è possibile davvero amare e desiderare senza usurpare o fare soffrire, senza ricattare o ingannare, senza esercitare potere o subirlo, senza negare la libertà dell’altro ma riconoscendola appieno. Testimonianza reale, ripeto, e non chiacchiere.
La seconda e più fondamentale riguarda propriamente la scuola come comunità: alimentare il desiderio di vita nei nostri figli, fare sorgere in loro una vocazione, favorire l’accensione della loro esistenza. Perché le maggiori distorsioni della vita sessuale o affettiva non derivano da un non sapere, ma dalla chiusura della vita, dalla paura che determina la spinta a sopraffare l’altro o a offrirsi come sua vittima sacrificale. Pasolini lo diceva a suo modo: è il «vuoto di cultura» che genera «desiderio di morte». Laddove invece c’è trasmissione della cultura si accende il desiderio di vita che è la sola prevenzione possibile che possiamo davvero offrire.
È quello che si dovrebbe fare giorno dopo giorno a scuola. Non nel recinto chiuso di una materia ma nell’apertura della vita stessa della scuola. Educare a una vita affettiva e sessuale generativa significa innanzitutto, almeno per me, educare al desiderio come impegno e vocazione. Più le vite dei nostri figli saranno capaci di vita più la qualità delle loro relazioni affettive o sessuali tenderanno a essere feconde e non mortifere. E vale, ovviamente, anche il contrario.