Dott. Vito Rodio, Psicologo Clinico, Psicoterapia Umanistica/Bioenergetica

Dott. Vito Rodio, Psicologo Clinico, Psicoterapia Umanistica/Bioenergetica Dott. Vito Rodio, Psicologo Clinico, Psicoterapeuta ad indirizzo UMANISTICO/BIOENERGETICO

Il fatto è che certe cose le puoi dire solo a chi sai che le può capire. Che è anche il motivo per cui parliamo così poc...
15/11/2025

Il fatto è che certe cose le puoi dire solo a chi sai che le può capire. Che è anche il motivo per cui parliamo così poco di quello che ci importa davvero. Alla fine trovare qualcuno con cui parlare è difficile, sì, ma non è quella la cosa più difficile. Il difficile è trovare chi ti sappia fare le domande giuste, quelle per cui hai la risposta lì da anni senza neanche saperlo.

15/11/2025

"Ogni volta che un assetto mentale monodirezionale incontra un altro assetto mentale, più ampio e che include gli opposti, il primo è "disciolto" nel secondo e va in uno stato di "solutio".
Questo spiega perchè le prospettive più ampie delle proprie siano spesso vissute come minacce.
La sensazione è quella di affogare, motivo per cui le si resiste".

Edward F. Edinger - "Anatomia della Psiche"

Indifferenza nei confronti del partnerVi è mai capitato di vivere una situazione simile? L'indifferenza nei confronti de...
11/11/2025

Indifferenza nei confronti del partner

Vi è mai capitato di vivere una situazione simile? L'indifferenza nei confronti del partner è un argomento complesso quanto doloroso.

Quando inizia a manifestarsi un sentimento di indifferenza nei confronti del partner vuol dire che è arrivato il momento di porsi delle importanti domande. È ora di mettere un punto alla relazione?

Prepariamo da mangiare. Ci mettiamo a tavola. Il mio partner è seduto di fronte a me. Mangiamo, e nel frattempo guardiamo la televisione. Scambiamo quattro chiacchiere sulla nostra giornata. Beve un sorso d’acqua. Mi guarda. Ci guardiamo. Stiamo insieme da anni. Ci sorridiamo. Mi racconta qualche storia sulla sua famiglia. Lo osservo con attenzione mentre mangio in silenzio. Lo amo. È una parte importante della mia vita. Tuttavia, sento che non siamo più sulla stessa lunghezza d’onda. Non vorrei mai che gli accadesse qualcosa di brutto, ma ormai nulla è più come prima.

Vi è mai capitato di vivere una situazione simile? L’indifferenza nei confronti del partner è un argomento complesso quanto doloroso.

Quando l’indifferenza nei confronti del partner si fa sentire sempre più spesso e più intensamente, inizia ad andare di pari passo con una sensazione di malessere che finisce per prendere il sopravvento sul nostro stato d’animo e sul nostro corpo. Cosa ci succede? Cos’è cambiato? L’amore è finito? Siamo diventati vittime della monotonia?

Sebbene non sia successo nulla di particolare, la connessione magica di un tempo sembra svanita. Espressioni come “più che una coppia sembriamo due amici” o ” la vedo più come una sorella che come una fidanzata” sono all’ordine del giorno per molte coppie. È proprio arrivato il momento di chiudere la relazione o c’è ancora una speranza di poter ravvivare la fiamma dell’amore?

Indifferenza nei confronti del partner: non ci amiamo più?

L’amore è un concetto dalle sfumature astratte. Siamo noi a dare a questa parola gran parte del suo significato. Se ci atteniamo alla definizione buddista, amore è desiderare che tutti gli esseri siano felici e abbiano ragione di esserlo. Da questo punto di vista, è possibile che l’amore non sia finito, poiché anche se in apparenza proviamo indifferenza verso il nostro partner, in realtà gli auguriamo tutto il bene possibile.

Tuttavia, il cambiamento c’è e non può essere ignorato. I nostri desideri nei suoi confronti sono dei migliori, semplicemente non abbiamo più piacere a condividere con lui la nostra vita.

Forse sarebbe più corretto dire che è finito l’amore romantico. Abbiamo smesso di vedere il nostro partner come un compagno di vita e ora lo vediamo semplicemente come qualcuno che sta al nostro fianco, ma che non riesce a darci più di tanto. Ci obblighiamo ad ascoltare ciò che ha da dirci, facendo uno sforzo di volontà, ma senza interesse. Non cerchiamo di ritagliarci del tempo per l’intimità. I rapporti sessuali sono passati in secondo – per non dire terzo, o ancor meglio decimo- piano.

Come affermato da Garcia e Llabaca (2013) riguardo alle relazioni di coppia “i due membri che la compongono devono costruire un’identità particolare in grado di integrare e dare spazio a entrambe le individualità, il che non è facile”. Secondo questo approccio, quando entrambi i membri smettono di costituire un’identità comune, si corre il rischio di vedere la coppia sgretolarsi.

C’è un tempo per tutto

L’idea romantica secondo la quale una relazione deve durare per sempre, contro qualsiasi ostacolo, può essere molto dannosa. Non tutte le relazioni hanno la stessa durata. Inoltre, è necessario comprendere che quelle che durano meno non sono necessariamente migliori.

Proiettare grandi aspettative sulla durata di una relazione può finire per essere controproducente; in situazioni del genere, a volte, ci si ritrova a riporre grandi speranze in situazioni che non ci offrono una vera soddisfazione.

D’altro canto, non è così facile mettere un punto a una relazione. Come sottolinea Bowlby (1995) “il rischio della perdita genera ansia, e la perdita affettiva provoca tristezza e rabbia”. Dunque, nonostante la sensazione di indifferenza nei confronti del partner, l’idea di perderlo può provocarci ansia, tristezza e rabbia. Sperimentare la sensazione di perdere qualcuno che amiamo, sebbene non ci soddisfi appieno, ci provoca ansia e malessere.

L’ansia o la sensazione di malessere sono fenomeni comuni all’interno di una separazione, a prescindere da chi dei due abbia preso l’iniziativa. Pertanto, se riusciamo ad accettare determinate emozioni considerandole normali e passeggere, superare la rottura ci risulterà molto più facile.

E adesso? Bisogna imparare a stare bene da soli

Quando l’indifferenza nei confronti del partner porta alla fine di una relazione, molti si chiedono “e ora cosa faccio?”. Alcune persone scelgono la via del “chiodo scaccia chiodo”, vale a dire che sentono la necessità di riempire questo vuoto gettandosi a capofitto in una nuova relazione.

Altre preferiscono starsene da sole per un po’. Tuttavia, quando una relazione finisce, la migliore opzione consiste nell’imparare – o rimparare o meglio riabituarsi- a stare con se stessi. In questo modo, si evita di intraprendere una nuova relazione per una mera questione di dipendenza.

Molte persone sono incapaci di vivere senza qualcuno al loro fianco. Per quanto possa sembrare romantico, dietro questo bisogno si cela un alto fattore di dipendenza emotiva.

Molte persone sono terrorizzate all’idea di rimanere da sole con se stesse, di non avere nessuno da abbracciare, dover ascoltare i propri pensieri e capire cosa vogliono o meno. Hanno un vuoto interiore che cercano di riempire con affetti provenienti dall’esterno: per questo motivo difficilmente troveranno una persona che ci riesca davvero, e sono così condannate a vivere relazione destinate a finire in breve tempo.

"Solo quando ci si sente completi, si è in grado di portare avanti una relazione sana, libera da attaccamenti esagerati e dipendenze."

Evitate di parlare dei vostri problemi. Non andate in cerca di comprensione, perché il bisogno di autocommiserarsi provo...
08/11/2025

Evitate di parlare dei vostri problemi. Non andate in cerca di comprensione, perché il bisogno di autocommiserarsi provoca ancora più infelicità. Vincete l’impulso di esagerare le difficoltà, perché non fareste altro che peggiorare la situazione. Alcuni sostengono che parlare di una sofferenza guarisce: non credeteci. Se viene piantato il seme di un problema, diventerà un albero. Se parlate di malattia o di scarsità di denaro, oppure di amicizia e di libertà, quello che dite è proprio ciò che otterrete. Sradicate tutti questi discorsi. I discorsi negativi sono come trappole per orsi che scattano a qualunque cosa si avvicini. Il dolore che provereste sarebbe insopportabile, perciò tenetevi lontani...

«La tua visione diventa chiara solo quando guardi dentro il tuo cuore. Chi guarda fuori, sogna. Chi guarda dentro, si sv...
07/11/2025

«La tua visione diventa chiara solo quando guardi dentro il tuo cuore. Chi guarda fuori, sogna. Chi guarda dentro, si sveglia.»

Questa celebre citazione
attribuita a Carl Gustav Jung, non compare testualmente in nessuna delle sue opere pubblicate.
Si tratta, infatti, di una parafrasi o riformulazione libera di alcuni temi junghiani autentici, in particolare dell’idea che l’individuazione e la conoscenza di sé passino attraverso l’introspezione e il confronto con l’inconscio.

Il riferimento autentico più vicino è in Psychological Reflections (ed. J. Jaffé, 1953), dove Jung scrive:

“Who looks outside, dreams; who looks inside, awakes.”

Questa è una versione inglese molto diffusa, ma non è una citazione diretta da un’opera di Jung: è tratta da una raccolta postuma di aforismi e riflessioni, curata e adattata da Jolande Jacobi e Aniela Jaffé.

Non tornare dove un giorno sei stato felice, è una trappola della malinconia, tutto sarà cambiato e niente sarà più come...
03/11/2025

Non tornare dove un giorno sei stato felice, è una trappola della malinconia, tutto sarà cambiato e niente sarà più come prima, nemmeno tu.
Non cercare gli stessi paesaggi, né le stesse persone, il tempo gioca sporco e si sarà occupato di distruggere tutto ciò che un giorno ti ha reso felice.
Non tornare nel luogo in cui un giorno sei stato felice, tienilo sempre nella tua memoria, com'era, ma non tornare.
La vita va avanti e ci sono nuove strade da percorrere, nuovi posti da visitare e altre persone che ci aspettano.

Fernando Garcia Lorca

Parlare con i propri morti: riti moderni per nutrire il legameParlare con i morti, porre loro domande, condividere con i...
02/11/2025

Parlare con i propri morti: riti moderni per nutrire il legame

Parlare con i morti, porre loro domande, condividere con il mondo invisibile le nostre riflessioni. Dovrebbero essere pratiche abituali quotidiane da mantenere sempre ben allenate. Questo perché innanzitutto ci prepara alla nostra di morte: avere a che fare ogni giorno con l’esperienza di un contatto tra mondi permette di giungere consapevoli al momento del trapasso, non rischiamo così di giungervi impreparati, increduli, non attenti. La disattenzione in un tempo così fondamentale della vita porta a non viverlo in modo adeguato. Inoltre mantenere un collegamento con i nostri cari defunti è la via maestra per sentirli vicini, per farci giungere messaggi attraverso i sogni, per aprirci la via della conoscenza di noi stessi.

"La vita è una grande sorpresa. Non vedo perché la morte non potrebbe esserne una anche più grande."

(Vladimir Nabokov)

Il dolore che unisce: la presenza invisibile dei nostri cari

Il dolore per la perdita dei nostri cari è un dolore che vivrà sempre in noi, soprattutto se non siamo stati in grado di elaborarne il lutto. Quel vuoto lasciato scava dentro la nostra interiorità in modo silente ma continuo, è una presenza perpetua che ci parla dell’assenza, dell’invisibile, dell’incapacità di farsi una ragione della finitudine dell’esistenza.

Il dolore allora può essere visto come un legame che unisce, non come una forza che distrugge.

Nel dolore possiamo rifugiarci ripensando a chi non c’è più, in quello spazio vuoto le nostre lacrime trovano sfogo, le emozioni possono vivere da regine. Il dolore è un grande maestro di vita, può insegnare importanti lezioni se ci poniamo in un atteggiamento di completa apertura e fiducia. I nostri cari sono uniti a noi grazie al dolore, al ricordo, al vuoto: esperienze faticose ma fondamentali per riportarci al centro di noi stessi.

"La grande debolezza della morte è che può vincere solo la materia. Non può nulla contro i ricordi e i sentimenti. Al contrario, li ravviva e li radica in noi per sempre, come se volesse farsi perdonare dicendoci: “È vero, vi sto togliendo molto, ma guardate tutto quello che vi lascio”.

(Joël Dicker)

Rituali simbolici per continuare a comunicare

Si può davvero trovare il modo per comunicare con il mondo invisibile? Sentire ancora la voce dei nostri cari? Provare a instaurare un vero e proprio dialogo con loro?

Il mondo dell’Oltre invia continuamente messaggi all’uomo, mascherati da sogni, simboli, coincidenze, accadimenti che si ripetono di continuo. Il linguaggio dell’anima è fatto di immagini, di codici che non appartengono alla mente, li possiamo cogliere solo con l’intuizione. Per poter attivare questo dialogo particolare è allora importante creare un tempo favorevole all’instaurarsi di questi scambi tra i mondi.

Tutto ciò che alimenta l’intuizione è benvenuto come esercizio dell’anima. Che sia lo yoga, la preghiera, la meditazione, il ballo o qualsiasi arte creativa, tutto può aiutare a sintonizzarci su altri livelli di coscienza. Spesso basta molto di meno: una candela accesa, occhi chiusi, una melodia soave e una domanda da porre. La risposta può arrivare nei sogni, in una frase sentita da una persona che ci cattura in modo particolare, nell’apparire di un uccellino che ci porta meraviglia. I messaggi dal mondo invisibile arrivano spesso all’improvviso, portano stupore, ci destano dalla nostra quotidianità.

Andare al cimitero pensando a un defunto può farci incontrare una persona che ci riporta alla mente un ricordo vissuto proprio con quel nostro caro, oppure inoltrarci nella natura è la via maestra per iniziare a dialogare con l’invisibile poiché in questo luogo non vi è distrazione e siamo sempre ben disposti ad ascoltare il silenzio, gli animali, ad ammirare il cielo, a sintonizzarsi su un altro canale, più sottile, potente e rivelatorio.

In tutti i casi è bene rimanere ben desti, alle date, alle coincidenze, agli intoppi che viviamo quotidianamente: gli antenati hanno un modo tutto loro di farsi sentire, i loro messaggi giungono a chi è pronto ad afferrare il loro linguaggio, a chi si fida dell’intuito, a chi osa abitare tempi, luoghi e persone che sente chiamare a sé senza una spiegazione logica.

Ognuno può trovare la via prediletta per innescare il dialogo con i propri defunti: sperimentate, provate vie nuove, seguite l’intuito.

"Non stare sulla mia tomba a piangere.
Io non sono lì, non dormo.
Sono mille venti che soffiano.
Sono il diamante che scintilla sulla neve.
Sono la luce del sole sul grano maturo.
Sono la dolce pioggia autunnale."

(Mary Elizabeth Frye)

Il ricordo come nutrimento spirituale e ponte tra i mondi

Ricordare chi non c’è più è la via migliore per comunicare con il mondo invisibile. I nostri defunti si sentono riconosciuti, visti, il loro ricordo rimane vivo nelle generazioni. Spesso è importante ricostruire il proprio albero genealogico per fare chiarezza sul passato, fissarlo nella mente, nel cuore e su carta, tramandarlo ai figli, mantenere viva la memoria delle origini.

Ricordare non vuol dire rimanere nel passato, ancorandosi a ciò che è stato e non voler proseguire nella vita, vuol dire invece avere un filo che ci lega all’affetto delle origini e grazie a questo filo intrecciato proseguire con più consapevolezza verso il futuro.

Chi non viene ricordato lascia un vuoto, un non detto, un irrisolto che pesa sulla famiglia e sulle generazioni future. Ricordare invece è un ponte tra i mondi, un collegamento fondamentale per la vita, una preparazione necessaria per prepararsi al morire.

"Vita e morte non sono due estremi lontani l’uno dall’altro. Sono come due gambe che camminano insieme, ed entrambe ti appartengono. In questo stesso istante stai vivendo e morendo allo stesso tempo. Qualcosa in te muore a ogni istante. Nell’arco di settant’anni la morte arriverà a compimento. In ogni istante continui a morire, e alla fine morirai davvero."

(Osho)

Ferita primaria: cicatrici latenti che vivono nel presenteLa ferita primaria è un trauma irrisolto. Esemplifica e sottol...
31/10/2025

Ferita primaria: cicatrici latenti che vivono nel presente

La ferita primaria è un trauma irrisolto. Esemplifica e sottolinea la violazione dell’attaccamento, la rottura di quel legame essenziale tra un bambino e i suoi genitori; è il tradimento dei bisogni emotivi insoddisfatti, inascoltati. Questo dolore, originato in età precoce e mai risolto, cerchiamo di anestetizzarlo in età adulta, tuttavia, continua a condizionarci.

In psicologia, e in particolare nell’approccio psicoanalitico, viene data grande importanza alla ferita e al trauma. Freud spiegava che queste lesioni psichiche vanno dall’esterno all’interno. Si verificano nel nostro ambiente più vicino, soprattutto durante l’infanzia. Così, e ben lungi dal dissolversi con il tempo, questa ferita originale sopravvive, rimane latente ed entra nel nostro essere creando numerosi strati fino a gravitare in qualsiasi area della nostra vita…

Sigmund Freud e sua figlia Anna Freud hanno rivelato per la prima volta l’influenza delle prime esperienze sullo sviluppo della personalità, e negli anni ’90 è stato pubblicato un libro decisivo in relazione a questo argomento. "La ferita primaria. Comprendere il bambino adottato"
ci spiegava per la prima voltail trauma silenzioso, invisibile, ma permanente vissuto dai bambini adottati.

Cos’è la ferita primaria?

L’essere umano ha un bisogno che va oltre il cibo. Quando un bambino viene al mondo, ha bisogno prima di tutto di sentirsi protetto, inondato di affetto e sostenuto dall’amore. L’amore ci dà un posto nel mondo e ci nutre. L’amore ci aiuta a svilupparci con sicurezza in un ambiente empatico, dove sappiamo di essere importanti per qualcuno.

Anche quando uno psicologo o un terapeuta ricevono il loro paziente, cercheranno a loro volta di creare un ambiente in cui l’empatia e la vicinanza siano sempre patenti e palpabili. Le persone hanno bisogno di questi nutrienti, perché se non li percepiscono, se non li vedono o non li sentono, il loro cervello reagisce quasi subito. Compaiono il sospetto, la paura e la tensione.

Questo è ciò che prova un bambino quando non riceve un attaccamento sicuro. La ferita primaria viene inflitta quando i genitori non sono accessibili a livello emotivo, psichico o fisico. A poco a poco la mente del neonato viene invasa da ansia, fame, desiderio emotivo, vuoto, solitudine, perdita e mancanza di protezione.

Possiamo vedere la ferita primaria quasi come un sacrilegio evolutivo. Il processo di “ominazione” attraverso cui ogni essere umano passa, deriva prima di tutto da uno scambio di affetto solido e da una costante vicinanza tra madre e figlio. Non possiamo dimenticare che un bambino viene al mondo con un cervello ancora immaturo e che ha bisogno di quella pelle e di quell’attaccamento sicuro per continuare a crescere e avviare una esogestazione con cui promuovere la continuità del suo sviluppo.

Se qualcosa non funziona in questo processo, se nei primi tre anni di vita vi è un’interruzione di tale iter, avviene una frattura invisibile e profonda, una ferita che nessuno vede. La stessa che (probabilmente) in futuro ci limiterà in diversi aspetti della nostra vita. Vediamoli a seguire.

Effetti della ferita primaria

Handbook of attachment, degli psicologi Jude Cassidy e Phillip R. Shaver, è un libro molto interessante considerato il manuale di riferimento nello studio dell’attaccamento. In questo lavoro ci viene ricordato che il fine proprio dell’essere umano è l’autorealizzazione. Il nostro scopo è quello promuovere la sicurezza per favorire la nostra crescita personale ed emotiva, godendo così di una vita piena con noi stessi e con gli altri.

Una delle condizioni più importanti affinché ciò accada è quella di godere nei nostri primi anni di vita di un attaccamento sicuro, maturo, vicino e intuitivo verso i nostri bisogni. Se questo non accade, si genera la ferita primaria e con essa i seguenti effetti:

- Insicurezza e bassa autostima.
-Impulsività, cattiva gestione emotiva.
-Aumento del rischio di soffrire di vari disturbi psicologici.
-Difficoltà a instaurare relazioni affettive.
-Sviluppo di una “personalità da sopravvivenza”.

Cerchiamo di mostrare autonomia e sicurezza, ma il vuoto sopravvive ed è comune passare da momenti in cui l’isolamento e la solitudine sono necessari a momenti in cui si desidera la prossimità, qualunque essa sia, sebbene sia dannosa o falsa.

Come guarire la ferita primaria

La cosa più appropriata da fare in questi casi è chiedere aiuto a un professionista. Negli ultimi anni stanno acquisendo sempre più importanza le terapie come la EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing). È una tecnica in cui i diversi tipi di stimolazione ed elaborazione delle informazioni sono combinati in modo che la persona porti alla luce esperienze traumatiche e ferite infantili, in modo da parlarne, riconoscerle e gestirle meglio.

Vale la pena di indicare anche quelle strategie di base di cui si fa spesso uso per affrontare e guarire la ferita primaria:

-Prendere coscienza delle proprie emozioni latenti e dare esse un nome.

-Mettere in evidenza i propri bisogni insoddisfatti (affetto, sostegno, mancanza di protezione, vicinanza empatica…). Bisogna”legittimare” questi bisogni e non reprimerli.
-Riflettere sulla solitudine provata durante l’infanzia. Lo faremo senza paura, senza rabbia e senza vergogna. Alcune persone evitano di pensare al vuoto vissuto nella loro infanzia, preferiscono non guardare quegli anni di sofferenza perché fanno provar loro dolore e disagio. Dobbiamo portare alla luce questo Io ferito, quella parte di noi ancora piena di rabbia perché non ha sperimentato abbastanza affetto e sicurezza.

-Comprendere che non è stata colpa nostra. La vittima non è colpevole di nulla.
-Permettersi di liberare la propria tristezza, le proprie emozioni. Sfogarsi.

-Impegnarsi a cambiare, ad assumersi la responsabilità di un cambiamento verso il benessere interiore.

Infine, gli esperti di gestione della ferita primaria e del trauma ci invitano a perdonare. Concedere il perdono ai nostri genitori non li esenta dalla colpa, ma ci permette di liberarci dalle loro figure. Significa accettare quello che è successo, assumere la realtà di tutto quello che abbiamo sofferto, ma essere in grado di offrire un perdono che ci permette di chiudere il ciclo del dolore per andare avanti molto più alleggeriti. Liberi da dolore, rabbia e ricordi di ieri.

Riflettiamoci. Vale certamente la pena di comprendere la complessa realtà psicologica rappresentata dalla ferita primaria.

Quando diventiamo il lupo cattivo nel racconto di qualcunoA volte, quasi senza rendercene conto, diventiamo i cattivi de...
29/10/2025

Quando diventiamo il lupo cattivo nel racconto di qualcuno

A volte, quasi senza rendercene conto, diventiamo i cattivi della storia, il lupo cattivo di Cappuccetto Rosso. Siamo quel qualcuno che per essersi rifiutato di fare qualcosa, per aver detto la verità ad alta voce o per aver agito in accordo ai propri valori diventa all’improvviso il personaggio malvagio della storia, la causa per la quale la fiaba non è rosea e non presenta la narrativa che volevano dettare.

È davvero pericoloso e poco idoneo fare uso della dicotomia così estrema che differenzia nettamente tra le persone buone e quelle cattive. Lo facciamo così spesso da non accorgercene nemmeno. Ad esempio, se un bambino è ubbidiente, tranquillo e silenzioso, diciamo subito che è “bravo”. Viceversa, se ha carattere, è insolente, irrequieto e molto incline ai capricci, non esitiamo a dirgli ad alta voce che “è un bambino monello”.

“Un racconto acquisisce sempre i colori datigli dal narratore, dal contesto in cui viene raccontato e dal ricettore”
-Jostein Gaarder-

È come se molti di noi disponessero di un ferreo schema auto-costruito su quello che si aspettano dagli altri, su quello che considerano adeguato e rispettabile, sui personali concetti di nobiltà e bontà. Quando uno di questi fattori non viene rispettato, quando un solo elemento di questa ricetta interiore non viene compiuto, espresso o non è presente, non esitiamo a definire gli altri come sconsiderati, tossici o persino “cattivi”.

Essere il lupo cattivo nel racconto di qualcuno è molto comune. Tuttavia, in molti casi è necessario analizzare la persona che si trova sotto il cappuccetto rosso.

Quando creare i nostri “racconti” personali ci dà sicurezza

Cappuccetto Rosso è una bambina obbediente. Mentre cammina nel bosco sa che non deve allontanarsi dal percorso prestabilito, che deve seguire le regole, agire secondo quanto stabilito. Tuttavia, quando compare il lupo, le sue prospettive cambiano… si lascia ammaliare dalla bellezza del bosco, dal canto degli uccellini, dall’aspetto dei fiori, dalla fragranza di quel nuovo mondo colmo di sensazioni. Il lupo, nel racconto, rappresenta, quindi, l’intuito e la dimensione più selvaggia della natura umana.

Questa metafora ci serve senz’altro per capire meglio molte delle dinamiche con le quali dobbiamo fare i conti ogni giorno. Ci sono persone che, come Cappuccetto Rosso all’inizio del racconto, mostrano un comportamento rigido e schematico. Hanno interiorizzato come devono essere i rapporti, come deve essere un buon amico, un bravo collega, il figlio ideale ed il partner perfetto. Il loro cervello è programmato per cercare esclusivamente queste dinamiche e tale uniformità, perché è così che ottengono quello di cui hanno più bisogno: la sicurezza.

Tuttavia, quando si verifica la dissonanza, quando qualcuno reagisce, agisce o risponde in modo diverso dal piano previsto, entrano nel panico. Subentrano la minaccia e lo stress. Un’opinione contraria viene vista come un attacco. Un piano alternativo, un rifiuto inoffensivo oppure una decisione inattesa vengono subito percepiti come una desolante delusione e come un immenso affronto.

Quasi senza cercarlo né prevederlo né volerlo, diventiamo il “lupo cattivo” del racconto, in questo qualcuno che per aver seguito il suo intuito ha ferito l’essere fragile che si trovava sotto il cappuccetto.

D’altro canto, vi è un aspetto che non possiamo negare: molte volte siamo noi stessi quel cappuccetto che commette l’errore di scrivere il proprio racconto. Tracciamo ed ideiamo piani ben precisi su come deve essere la nostra vita, la nostra famiglia ideale, il nostro miglior amico e quell’amore imperfetto che non sbaglia mai e che combacia alla perfezione con noi. Immaginarlo ci entusiasma, il suo verificarsi ci dà sicurezza e lottare affinché tutto prosegua come lo abbiamo programmato ci definisce come persone.

Tuttavia, quando il racconto smette di essere tale e diventa una prova della realtà, crolla tutto e compare subito un branco di lupi che divora la nostra fantasia quasi impossibile.

Essere il lupo: questione di coraggio

Essere il lupo cattivo nel racconto di qualcuno non è piacevole. Forse ci sono motivi concreti per i quali lo siamo o forse no. In qualsiasi caso, si tratta di una situazione difficile per entrambe le parti.

C’è, però, un aspetto molto importante che non possiamo ignorare. A volte essere il “cattivo” della storia di qualcuno ci ha permesso di essere il “buono” nella nostra. Siamo stati, per esempio, l’eroe capace di uscire da un rapporto logorante ed infelice o il personaggio che ha avuto il coraggio di scrivere “fine” ad una storia che non portava più da nessuna parte.

" Il lupo sarà sempre cattivo se ascoltiamo solo Cappuccetto Rosso"

Prima di diventare i lupi addomesticati che vivono favole impossibili, conviene radunare forza e coraggio, ascoltare il proprio istinto ed agire con intelligenza, rispetto ed astuzia. Agire secondo i propri principi, i propri bisogni ed i propri valori non è affatto comportarsi con malizia. Vuol dire vivere seguendo il proprio istinto, sapere che nel bosco della vita non sempre i buoni sono totalmente buoni ed i cattivi non sono totalmente cattivi. L’importante è saper convivere con autenticità, senza pelli né cappucci

Cosa provoca l’attacco di panicoL’attacco di panico nasce nella mente e colpisce il corpo, è fatto di un mix esplosivo d...
28/10/2025

Cosa provoca l’attacco di panico

L’attacco di panico nasce nella mente e colpisce il corpo, è fatto di un mix esplosivo di ansia ed emozioni non metabolizzate. Aggiungici una bella spruzzata di pensieri catastrofici e il cocktail è servito!

Se la responsabilità di questo evento è da imputare alla testa, purtroppo tocca al corpo fare il lavoro sporco: per evitare che la quantità abnorme di energia mobilitata dall’ansia ti faccia visceralmente del male (non dimentichiamoci che le emozioni lavorano a stretto contatto con gli ormoni), il corpo è costretto a trovare una valvola di sfogo in grado di smaltire in poco tempo tutta questa energia.

Si può dire che l’attacco di panico può essere innescato da pensieri catastrofici e da emozioni molto forti; ma a volte anche l’assunzione di sostanze eccitanti può avere un ruolo rilevante: come l’abuso di caffè che può provocare tachicardia, per esempio.

Pensieri catastrofici /stress troppo intenso /evento destabilizzante → Tempesta emotiva (+ sostanze eccitanti) = possibile attacco di panico

L’attacco di panico è un episodio dove l’ansia raggiunge un livello abnorme e può durare da una manciata di minuti a 20 minuti (in casi rari) durante i quali si può riscontrare i seguenti sintomi:

• Palpitazioni, tachicardia
• Sudorazione
• Brividi o vampate di calore
• Tremori
• Sensazione di soffocamento
• Dolore o fastidio al petto
• Nausea o disturbi addominali
• Sensazioni di sbandamento, senso di svenimento
• Derealizzazione o depersonalizzazione
• Paura di perdere il controllo o di impazzire
• Paura di morire

Quando gli attacchi di panico hanno tendenza a ripetersi, si parla di disturbo di panico.

L’attacco di panico è come un’onda emotiva anomala che rompe gli argini, la potenza delle emozioni si scatena in maniera incontrollabile e travolge tutto sul suo passaggio dandoti l’impressione di perdere il controllo. Vorrei rassicurarti su un punto fondamentale: non stai perdendo la testa o impazzendo, sei semplicemente stato esposto ad un livello di stress talmente alto che il tuo corpo è stato costretto a premere il pulsante di emergenza per permettere a quell’energia dirompente di essere espulsa fuori.

Ansia, che fare quando il troppo storpia

Cosa fare quando ti ritrovi confrontato a questo tsunami emotivo? Non puoi opporti o bloccare l’evento perciò la soluzione migliore è imparare a surfare. La prima cosa da fare è accogliere l’onda rendendosi conto che è in atto un attacco di panico quindi occorre calmare i pensieri e focalizzarsi sul respiro per spingere la mente fuori dal circolo vizioso che ha creato.

Durante un attacco di panico, la “fame d’aria” dovuta al senso di soffocamento porta ad un’iperventilazione che può causare formicolio, senso di sbandamento, accelerazione cardiaca, ecc. Per ripristinare un ritmo cardiaco regolare e “surfare sull’onda”, sarà utile respirare svuotando bene i polmoni prima di inspirare per ripristinare il giusto equilibrio tra ossigeno e anidride carbonica. In poco tempo, la situazione tornerà alla normalità, al livello fisico almeno.

Se le barriere cadono, puoi allargare i tuoi confini

L’attacco di panico fa crollare tutto per un momento, e da un certo punto di vista, può anche rappresentare un aiuto: spesso sono le persone perfezioniste, che danno sempre il massimo, che non si danno il diritto all’errore, a soffrire maggiormente di ansia. L’attacco di panico le costringe a ridimensionare la causa del loro malessere e a dover fare un lavoro introspettivo per uscire dal circolo vizioso che rischierebbe di instaurarsi altrimenti.

Il panico arriva quando i muri della nostra mente si avvicinano sempre più, fino al momento in cui lo spazio dentro di noi è talmente stretto che l’unica via d’uscito per non rimanere schiacciato è fare esplodere tutto, ed è a questo che serve l’attacco di panico: a fare crollare le barriere che ci opprimono dentro con un’esplosione talmente violenta da farci temere per la nostra vita e/o salute mentale. L’ironia della sorte vuole che rimaniamo terrorizzati dall’esplosione che ci salva e non dai meccanismi infernali della nostra mente che ci avrebbero schiacciato come moscerini.

“Gli dèi che abbiamo rimosso dalla nostra consapevolezza nell’inconscio, sono diventati sintomi.”
(Carl Gustav Jung)

La verità è che dentro di noi c’è un’energia enorme che desidera essere canalizzata in qualche modo ma che sotto l’effetto dello stress ci si ritorca contro: quando ci toglie il respiro e ci fa tremare come una foglia, allora ci rendiamo conto della sua potenza.

Ma immagina per un momento quello che saremo in grado di fare se riuscissimo a convogliare tutta questa potenza in uno scopo preciso se, invece di soffocarci, ci permettesse di spiccare il volo. E se imparassimo a governare i nostri impulsi interiori, a direzionare quel furore che abbiamo dentro affinché ci dia la spinta necessaria a raggiungere i nostri obiettivi invece di subirli senza capire cosa ci sta succedendo, cosa saremmo in grado di fare?

“Se hai delle forze e non le usi, prima o poi ti si rivolteranno contro.”
(Proverbio cinese)

Magari potremmo imparare qualcosa da questi attacchi di panico e lavorare su di noi affinché i meccanismi mentali in grado di mobilitare così tanta energia da farci ve**re un attacco di panico lavorino a nostro favore per una volta.

A conti fatti, abbiamo due possibilità che si offrono a noi: possiamo continuare a lamentarci che nessuno ci abbia dato il libretto di istruzioni della nostra testa e delle nostre emozioni, oppure possiamo decidere di riprendere i redini della nostra mente in mano e fargli capire chi comanda. Certo, occorrerà tempo e fatica, e magari l’aiuto di uno psicoterapeuta, per conoscersi meglio ma sarà sempre meglio che rimanere alla merce degli eventi.

Indirizzo

Vicinale Argentieri 14
Céglie Messápica

Orario di apertura

Lunedì 15:00 - 20:00
Martedì 15:00 - 20:00
Mercoledì 15:00 - 20:00
Giovedì 15:00 - 20:00
Venerdì 15:00 - 20:00

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