26/05/2020
LIBERTA’ DI CURA IN PSICHIATRIA
1 - STORIA DEL TRATTAMENTO SANITARIO OBBLIGATORIO (TSO)
Erano i tempi della triste realtà manicomiale, ovvero di uomini privati di tutti i diritti fondamentali e confinati dal contesto sociale, una storia oramai conclusa dell’umanità, alla quale abbiamo purtroppo assistito impotenti. Una storia che è durata fino a quando, 42 anni fa, dopo un lungo iter di valutazione, con Franco Basaglia e le nuove leggi, la storia è cominciata a cambiare: chiusura progressiva dei manicomi e attivazione dei Centri di Igiene Mentale (CIM) chiamati poi Centri di Salute Mentale (CSM), e attivazione dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC). Si dava inizio quindi, alla assistenza psichiatrica territoriale, e non più in luoghi chiusi
Con la chiusura dei Manicomi, il problema diventava come fare nel caso di persone gravemente e cronicamente disturbate psichicamente, avulse completamente dal contesto sociale, che rischiavano di rimanere senza assistenza e quindi in un degrado senza fine. Come fare affinché fosse possibile dare anche ad esse, comunque, una possibilità di cura? La soluzione si è trovata, ed è stata l’attivazione di una precisa procedura, studiata a proposito, che prende il nome di Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO).
La soluzione trovata con quella nuova legge sembrava essere veramente efficace, almeno sulla carta. Essa, dopo più di 40 anni, tutt’oggi consente al medico di non abbandonare al proprio destino le persone che, in modo continuato nel tempo, non sono più in grado di valutare correttamente la realtà, e quindi di accettare, prima o poi, uno dei possibili percorsi di cura. Si tratta quindi di uno strumento terapeutico nelle mani del medico, senza il quale in certi casi noi medici non sapremmo veramente come fare, e da utilizzare nei casi, che in realtà sarebbero un’esigua minoranza, nei quali davvero tutto l’amore umano e la competenza professionale del medico e degli altri operatori sanitari, non trovano, in alcun modo, uno sbocco possibile. La procedura è teoricamente ben studiata e protettiva dei diritti della persona, ma trattandosi di una procedura particolare e complessa, richiederebbe, di norma, un tempo di attuazione che potrebbe essere, nel suo svolgimento naturale, di qualche giorno per essere attuata correttamente. Il fatto che sia stata studiata una procedura che richiede questo tempo non deve meravigliare perché, come sottolineato all’inizio, era pensata per situazioni davvero particolari, nelle quali l’alternativa, senza questa possibilità prevista per legge, sarebbe stata quella di non poter agire in nessun modo, e di abbandonale quindi quella persona al suo infausto destino.
Un medico, non necessariamente specialista in psichiatria, ma che di fatto normalmente è lo specialista psichiatra incaricato dell’assistenza per quella persona, o in caso di primo contatto lo specialista psichiatra di competenza in quel territorio incaricato delle urgenze, dopo aver ripetutamente provato con ogni mezzo, con quella persona, ogni tentativo di collaborazione ad una cura possibile ed efficace nel consentire di iniziare un cammino di guarigione da un grave sindrome clinica in atto, può fare la PROPOSTA di TSO, piuttosto che lasciare quella persona ed i suoi familiari nella impossibilità di un decorso accettabile di vita. Questo consiste nel dichiarare, sotto la propria responsabilità, che quella persona è affetta da una grave patologia psichiatrica che necessita di urgenti cure mediche, che la persona, a causa della sua patologia (e non per scelta ideologica su un diverso orientamento di trattamento) non è in grado di capire ed accettare quella proposta di cura, che quindi risulta necessario ed indispensabile il trattamento mediante un ricovero in ambiente ospedaliero. Un secondo medico, questa volta necessariamente psichiatra, crea quindi un nuovo contesto relazionale e rivaluta la situazione. Questo perché è doveroso consentire una nuova opportunità, in quanto è possibile che la reazione avversa alle cure sia, per esempio, conseguenza di una dinamica conflittuale con il medico o lo psichiatra curante o per una diversità di vedute sulle proposte di trattamento, affinché la persona abbia una nuova possibilità per essere accompagnata ad una possibile accettazione di un trattamento. Se anche questo secondo tentativo, differenziato dal precedente, dovesse fallire, lo psichiatra CONVALIDA la proposta di TSO proposta dal primo medico e dispone il ricovero forzato in ambiente ospedaliero per le cure del caso. Questo ricovero durerà sette giorni, rinnovabili, se necessario, per altri sette, e poi ancora per altri sette, e così via, fino al raggiungimento di un compenso clinico. Teoricamente il periodo di sette giorni può essere interrotto anticipatamente, ma questo non avviene praticamente mai. Prima di attuare “di fatto” il ricovero forzato, è necessario fare arrivare la PROPOSTA e la CONVALIDA del TSO al Sindaco di quel comune, che dopo aver acquisito la pratica, ovvero essere venuto a conoscenza della situazione di un cittadino del suo comune, per eventuali interventi sul caso o per eventualmente verifica, emette l’ORDINANZA. In realtà, di fatto l’emissione dell’ordinanza è solo una pratica amministrativa automatica, nessuna verifica viene fatta da parte del Comune. Solo a quel punto il TSO dovrebbe essere attuato concretamente, con il prelievo del paziente dal luogo in cui si trova, per il suo ricovero ospedaliero forzato, ovvero contro la sua volontà, e le cure necessarie del caso, altrettanto forzate. La legge non specifica con esattezza chi debba compiere fisicamente questo atto di trasferimento in ambiente ospedaliero, ma essendo il Sindaco collegato alla Polizia Municipale, la consuetudine è che siano i vigili urbani a dover compiere questo lavoro di sostegno ai sanitari, medici ed infermieri, per la concreta e fattiva realizzazione del ricovero forzato. Anche sulle modalità di attuazione di questo tipo di intervento ci sarebbero molte considerazioni da farsi, per esempio se trasferire semplicemente la persona in ospedale che viene valutata clinicamente e quindi curata, o se prima effettuare delle cure sedative per facilitare il trasferimento. Posso affermare che purtroppo anche su questo frangente, le procedure non sempre riescono a rispettare la dignità della persona, nel senso che, per comprensibili motivi pratici, attuare cure mediche farmacologiche in un contesto inadeguato, porta gli operatori ad attuare modalità che possono essere considerate un atto disumano.
Il fatto che questa procedura sia così complessa, e che di fatto necessiti, di norma, di un periodo adeguato di attuazione, rende poco agevole la sua applicazione corretta. Questo ha portato nel tempo, negli anni e nei decenni, a delle modalità attuative, che di fatto, pur nella buona fede dei sanitari è diventata, nel tentativo di snellire la pratica, in certi casi, un vero abuso dei diritti del cittadino, ovvero una semplificazione di tutte le procedure ed un salto dei vari passaggi. In conseguenza di questa semplificazione, le procedure vengono attuate senza che la persona che subisce l’intervento sia in grado di capire correttamente le caratteristiche della proposta terapeutica, e addirittura cosa stia realmente accadendo. Non è strano infatti che il paziente, nel momento in cui comprende la forzatura del ricovero e la perdita del suo diritto di esprimere una preferenza, dica quasi sempre, con rabbia, che si sta compiendo un sopruso e che sporgerà denuncia. Evidentemente il fatto che esista una modulistica e una procedura legale che autorizza i sanitari a privare della libertà una persona, non annulla la necessità di un lungo e delicato lavoro finalizzato alla corretta informazione per favorire la comprensione del problema vissuto da quella persona e delle possibili procedure di legge.
Vediamo quindi insieme quali potrebbero essere i punti di criticità nella applicazione di questa legge. Un punto su cui si potrebbe molto discutere, che ha dato adito a numerose polemiche, è la valutazione se quel comportamento sia effettivamente associato ad una determinata patologia psichiatrica, in quanto ovviamente è possibile inquadrare comportamenti “alterati” di diversa origine, con una possibile diagnosi di “alterazione dell’umore” o di “generica psicosi”. Non era questo, ovviamente, lo spirito con cui è stata fatta la legge, pensata per le persone affette da gravi psicosi croniche come la Schizofrenia associata a grave alterazione delle capacità sociali e di gestione autonoma delle funzioni della vita quotidiana. Fa una certa impressione vedere queste procedure applicate anche a cittadini che, pur assumendo comportamenti non consueti o socialmente criticabili, vengono in modo incongruo avviati ad un percorso di repentina privazione della libertà, pensato sicuramente per situazioni di altro genere. Il punto di criticità sarebbe nella interpretazione sulla “necessità di cura” in quella situazione, perché pur essendo evidente la necessità di un intervento medico, psicologico, psicosociale, o di ordine pubblico e di rispetto delle leggi, certamente non è il TSO lo strumento sempre più adatto nella gestione di molte situazioni in cui invece questo strumento viene, probabilmente con eccessiva leggerezza, utilizzato; e questo anche quando quella situazione non costituisce, in quel momento, un problema di pericolo né per se né per gli altri. Intendo dire che ci sarebbe, in molti casi, tutta la possibilità di valutare le vie alternative di risoluzione di quella situazione. Sarebbe solo molto più dispendioso in termini di risorse e di tempo. In ogni caso il TSO non può essere uno strumento di controllo sociale.
In sostanza il TSO, questa particolare modalità di intervento è diventata, negli anni e nei decenni, una normale procedura terapeutica, una pratica facile da formalizzare ed attuare, anche quando effettivamente sarebbero altre le risorse da attivare in quelle situazioni se ci fosse il tempo e la voglia, ma oserei dire anche la capacità. Il paradosso più evidente è l’uso della compilazione del modulo di “stato di necessità” che snellisce ulteriormente le procedure, quando un stato di necessità reale è per sua natura una situazione in cui si crea la necessità di intervento indispensabile da attuare nell’immediatezza, allo scopo di salvaguardare la incolumità di quella persona o di altre persone, che quindi non prevede la compilazione di un modulo, ma l’azione rapida di chiunque si trovi lì, compresi i sanitari e le forze dell’ordine.
Il problema, secondo il mio punto di vista, non è nella legge in sé, ma nella sua applicazione, anche se certamente è possibile fare dei tentativi di miglioramento della legge. Nel tempo, la sua applicazione si è allontanata enormemente dallo spirito con cui questa legge era stata pensata. Ed ancora più a monte, il problema sta nella inadeguatezza nelle procedure normali di cura nei servizi territoriali, che presentano anch’esse delle evidenti criticità, e che favoriscono l’evoluzione a situazioni difficili, che poi vengono inevitabilmente trattate con il TSO. Capite bene che se gli operatori di un Centro di Salute Mentale non vedono per un lungo periodo una persona che rifiuta le cure, perché l’unico strumento proposto è il farmaco che non sempre viene accettato, senza attuare un adeguato programma per creare una valida occasione di riflessione sui problemi e sul senso della vita, senza quindi avere l’opportunità di arrivare ad una alleanza umana che poi è anche terapeutica, è inevitabile che poi si arrivi a situazioni sempre più complesse, conflittuali, estreme, e quindi di disagio soggettivo e relazionale, ed è facile a quel punto ricorrere alla pratica di TSO incongrui. Per questo motivo, ho maturato negli anni la ferma convinzione che la “normalità della vita” con tutte le sue risorse umane, deve essere il terreno fondamentale nel quale si costruisce la attività di un Centro di Salute Mentale, ovvero la possibilità di una vera libertà di cura in psichiatria. Dedicare tutte le risorse solo ai “livelli essenziali di assistenza” è sicuramente una battaglia persa in partenza. Il ricorso ai livelli essenziali di assistenza, ovvero la necessità di contenere la spesa sanitaria, la riduzione del personale e delle risorse destinate alla sanità in campo psichiatrico, la mancanza di una vera “cultura della libertà di cura” e di trattamenti personalizzati, la mancanza di integrazione tra le cure mediche e le altre risorse disponibili nel territorio, sono alcuni degli elementi che conducono ad una riduzione della efficienza di cura nei servizi pubblici, e che quindi indirettamente contribuiscono ad un ricorso eccessivo ed inadeguato della misura del TSO.
La conseguenza di tutto questo è molto grave, perché la mancanza di ascolto e di riconoscimento dei veri problemi che stanno alla base dello scompenso clinico e che hanno favorito il momento di crisi, che da esistenziali diventano poi psicologiche e biologiche, il tentativo di coprire gli scompensi con il facile ricorso ad interventi farmacologici, anche forzatamente, rendono la qualità dell’assistenza psichiatrica sempre più insufficiente a fornire una reale occasione di crescita delle persone e di superamento evolutivo e costruttivo della crisi. Inoltre la privazione della libertà nel momento della esecuzione del trattamento obbligatorio e durante tutto il periodo di ricovero, causa senz’altro ulteriori danni psicologici che si sommano a quelli già non elaborati della persona coinvolta in un momento di così grave scompenso psichico. Quasi sempre infatti, il tutto viene condotto senza la possibilità di far comprendere al paziente ciò che sta realmente accadendo, così che il paziente giudica questo comportamento assurdo e prevaricante e senza una logica per lui comprensibile e quindi accettabile.
Sarebbe quindi quanto mai opportuno attivare un serio dibattito per favorire una cultura della libertà di cura nella psichiatria, che parte dall’inizio del percorso e non dalla fine, e che vedrebbe diversi momenti focali sui quali instaurare un diverso modello di cura nel campo della Salute Mentale.
Mi puoi aiutare firmando questa petizione?
http://chng.it/jkhXNS2W
LIBERTÀ DI CURA IN PSICHIATRIA