Dott. Antonio Molinari - Biologo Nutrizionista

Dott. Antonio Molinari - Biologo Nutrizionista NUTRIZIONISTA

🔷 OBESITÀ & INDICE DI MASSA CORPOREAUno studio multicentrico di portata globale ha rivelato che oltre un quinto degli ad...
03/11/2025

🔷 OBESITÀ & INDICE DI MASSA CORPOREA

Uno studio multicentrico di portata globale ha rivelato che oltre un quinto degli adulti che presenta un indice di massa corporea considerato normale manifesta in realtà livelli di obesità addominale tali da esporli a rischi significativamente elevati di sviluppare ipertensione, diabete, ipercolesterolemia e ipertrigliceridemia. Questa condizione, che potremmo definire come un’epidemia sommersa, mette in discussione l’affidabilità del BMI quale unico parametro di valutazione dello stato nutrizionale e della salute metabolica degli individui.

Le patologie cardiometaboliche rappresentano attualmente una delle principali cause di mortalità e disabilità a livello mondiale. Nel corso degli ultimi tre decenni, l’incidenza delle malattie cardiovascolari ha conosciuto un incremento vertiginoso, passando da 271 milioni di casi a 523 milioni, con un raddoppio degli anni di vita corretti per disabilità.

⚠️ L’obesità addominale, in particolare quella caratterizzata da un accumulo di grasso viscerale, interferisce profondamente con i processi metabolici attraverso meccanismi infiammatori che favoriscono l’insorgenza di insulino-resistenza, dislipidemia, ipertensione arteriosa e alterata regolazione glicemica. Il diabete, che nel 2022 ha interessato circa 828 milioni di adulti nel mondo, costituisce una delle conseguenze più gravi di questa sindrome metabolica.

L’indagine, pubblicata sulla prestigiosa rivista JAMA Network Open con il titolo “Cardiometabolic Outcomes Among Adults With Abdominal Obesity and Normal Body Mass Index”, ha adottato un disegno trasversale per analizzare la prevalenza globale dell’obesità addominale in soggetti normopeso e la sua correlazione con esiti cardiometabolici avversi. I ricercatori hanno utilizzato i dati provenienti dalle indagini WHO STEPS condotte in 91 nazioni tra il 2000 e il 2020, coinvolgendo complessivamente 471.228 partecipanti di età compresa tra i 15 e i 69 anni, distribuiti nelle regioni dell’Africa, delle Americhe, del Mediterraneo Orientale, dell’Europa, del Sud-Est Asiatico e del Pacifico Occidentale.

⚙️ La definizione di obesità addominale è stata stabilita sulla base di una circonferenza vita elevata, pari o superiore a 80 centimetri nelle donne e 94 centimetri negli uomini, mentre l’obesità addominale in soggetti normopeso è stata identificata dalla combinazione di un BMI normale, compreso tra 18,5 e 24,9 , con un’elevata circonferenza vita.

I risultati emersi dall’analisi del campione aggregato hanno rivelato dimensioni sorprendenti del fenomeno. Nel complesso, il 21,7% dei partecipanti con BMI normale presentava obesità addominale, con variazioni geografiche significative che oscillavano dal 15,3% nella regione del Pacifico Occidentale fino al 32,6% nella regione del Mediterraneo Orientale. A livello nazionale, il Libano ha registrato la prevalenza più elevata con il 58,4%, mentre il Mozambico ha mostrato il valore più basso con il 6,9%.

Gli adulti che, pur presentando un BMI normale, manifestavano un’aumentata circonferenza vita, hanno dimostrato probabilità significativamente maggiori di sviluppare condizioni metaboliche avverse rispetto ai coetanei con BMI normale privi di obesità addominale. Le analisi hanno evidenziato incrementi statisticamente significativi a livello globale per ipertensione, diabete, ipercolesterolemia totale e ipertrigliceridemia.

Un aspetto particolarmente intrigante emerso dalla ricerca riguarda la correlazione tra livello di istruzione e probabilità di presentare obesità addominale. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, un livello di istruzione più elevato si associava tendenzialmente a maggiori probabilità di manifestare obesità addominale, con l’istruzione primaria e quella secondaria o superiore che aumentavano rispettivamente il rischio del 53% e del 138% rispetto all’assenza di istruzione formale. L’Africa costituiva l’unica eccezione a questo pattern, con l’istruzione secondaria e superiore associata a probabilità inferiori. Questo dato suggerisce l’esistenza di dinamiche complesse che legano lo sviluppo socioeconomico, le abitudini alimentari e la distribuzione del grasso corporeo, richiedendo ulteriori approfondimenti per comprendere i meccanismi sottostanti.

⭕️ Le implicazioni cliniche e di sanità pubblica di questi risultati sono di portata considerevole. La scoperta che il BMI, parametro universalmente utilizzato per lo screening dell’obesità e la stratificazione del rischio cardiovascolare, fallisce nell’identificare oltre un quinto degli individui a rischio elevato di patologie metaboliche, impone una riflessione profonda sulle strategie di valutazione e intervento attualmente adottate.

La distribuzione del grasso corporeo, in particolare l’accumulo di tessuto adiposo viscerale, emerge come un determinante critico del rischio cardiometabolico, indipendentemente dal peso corporeo totale. Questo fenomeno, che potremmo definire come obesità fenotipicamente normale ma metabolicamente patologica, sfugge alle classificazioni tradizionali e rappresenta una sfida sia diagnostica che terapeutica.

La necessità di integrare misure antropometriche complementari al BMI nella pratica clinica quotidiana appare sempre più urgente. La misurazione della circonferenza vita, del rapporto vita-altezza e del rapporto vita-fianchi dovrebbe essere sistematicamente incorporata nella valutazione dello stato di salute metabolica, permettendo di identificare precocemente gli individui a rischio elevato che altrimenti rimarrebbero misconosciuti. Questa strategia di screening più completa consentirebbe l’implementazione tempestiva di interventi preventivi mirati, incluse modifiche dello stile di vita, programmi di attività fisica e, quando indicato, trattamenti farmacologici appropriati.

La ricerca sottolinea inoltre l’importanza di adottare un approccio personalizzato alla valutazione del rischio cardiometabolico, che tenga conto non soltanto dei parametri antropometrici ma anche del contesto geografico, socioeconomico e culturale degli individui. Le marcate differenze nella prevalenza dell’obesità addominale tra le diverse regioni del mondo suggeriscono l’influenza di fattori ambientali, genetici e comportamentali che meritano ulteriori investigazioni. Solo attraverso una comprensione approfondita di questi determinanti sarà possibile sviluppare strategie di prevenzione e trattamento efficaci, adattate alle specificità delle diverse popolazioni.

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📌 PER APPROFONDIRE:

📚 Ahmed, K. Y., et al. (2025). “Cardiometabolic Outcomes Among Adults With Abdominal Obesity and Normal Body Mass Index.” *JAMA Network Open*, 8(10), e2537942.

🍭🧠 SCLEROSI MULTIPLA E ALIMENTI ULTRAPROCESSATIUna recente ricerca presentata al Congresso del Comitato Europeo per il T...
27/10/2025

🍭🧠 SCLEROSI MULTIPLA E ALIMENTI ULTRAPROCESSATI

Una recente ricerca presentata al Congresso del Comitato Europeo per il Trattamento e la Ricerca nella Sclerosi Multipla ha rivelato dati particolarmente significativi riguardo la correlazione tra il consumo di alimenti ultraprocessati e l’aggravamento dell’attività patologica nella sclerosi multipla.

🔎 Lo studio, condotto dalla dottoressa Gloria Dalla Costa, neurologa e ricercatrice presso il Dipartimento di Nutrizione della Harvard T.H. Chan School of Public Health di Boston, fornisce evidenze convincenti sul ruolo determinante che la dieta può esercitare nell’esacerbazione delle malattie infiammatorie croniche.

⚠️ L’indagine ha seguito per un periodo di cinque anni un gruppo di pazienti, rivelando che coloro che si collocavano nel quartile più elevato di consumo di alimenti ultraprocessati presentavano un rischio superiore del trenta per cento di incorrere in ricadute cliniche rispetto ai pazienti nel quartile più basso. Questi risultati, caratterizzati da una significatività statistica notevole, assumono un’importanza ancora maggiore se si considerano i dati radiologici emersi nel corso dell’osservazione.

Nel giro di soli due anni, infatti, i consumatori abituali di alimenti ultraprocessati hanno manifestato un numero superiore di nuove lesioni attive alle risonanze magnetiche cerebrali, accompagnato da un incremento più marcato del volume delle lesioni di tipo T2. Tali evidenze permangono rilevanti anche dopo aver controllato accuratamente altri fattori prognostici che potrebbero influenzare il decorso della malattia.

Sulla base di questi dati clinici e strumentali, gli alimenti ultraprocessati sembrano comportarsi come autentici acceleranti dell’infiammazione, capaci di incrementare sistematicamente il rischio di ricadute e di altre manifestazioni di attività patologica. Questa interpretazione risulta coerente con un corpus crescente di letteratura scientifica che ha documentato come gli alimenti ultraprocessati non siano soltanto associati a condizioni infiammatorie, ma rappresentino fattori di rischio consolidati per patologie cardiovascolari, neoplastiche e per l’aumento della mortalità per tutte le cause.

👉🏻 Una recente metanalisi condotta su oltre un milione di partecipanti ha dimostrato in maniera inequivocabile che per ogni incremento del 10% nella proporzione di alimenti ultraprocessati nella dieta quotidiana, il rischio di mortalità aumenta in modo statisticamente significativo.

Per esplorare l’influenza potenziale degli alimenti ultraprocessati sulla sclerosi multipla, i ricercatori hanno fatto ricorso a una coorte già ampiamente caratterizzata, proveniente dallo studio Betaferon/Betaseron in Newly Emerging MS for Initial Treatment. Questo trial aveva originariamente esaminato se il trattamento precoce con interferone beta-1b dopo una sindrome clinicamente isolata potesse rallentare la progressione verso la sclerosi multipla conclamata, ridurre le ricadute e migliorare gli esiti radiologici. L’analisi secondaria condotta dalla dottoressa Dalla Costa ha esaminato i dati di 451 pazienti assegnati casualmente a interferone beta-1b o placebo e seguiti per 5 anni, applicando una firma metabolomica pubblicata precedentemente per derivare punteggi individuali di esposizione agli alimenti ultraprocessati dai campioni plasmatici basali.

⚙️ L’approccio metabolomico adottato rappresenta una metodologia particolarmente accurata per quantificare l’esposizione agli alimenti ultraprocessati, superando i limiti intrinseci dei questionari alimentari autocompilati. La firma metabolomica utilizzata comprendeva 39 metaboliti, 17 dei quali risultavano positivamente associati all’esposizione a questi alimenti. Nel corso dei primi cinque anni di osservazione, 208 pazienti con sindrome clinicamente isolata sono progrediti verso una sclerosi multipla clinicamente definita, mentre 243 non hanno mostrato tale evoluzione.

Un dato particolarmente interessante emerge dal confronto dei punteggi di esposizione agli alimenti ultraprocessati in questi due gruppi: non si sono riscontrate differenze significative, suggerendo che l’esposizione dietetica a questi alimenti potrebbe non fungere da fattore scatenante per l’insorgenza della sclerosi multipla propriamente detta.

Tuttavia, tra i pazienti che hanno sviluppato la forma clinicamente definita della malattia, coloro con un’assunzione più elevata di alimenti ultraprocessati hanno manifestato un volume significativamente maggiore di lesioni ipointense in T1 e punteggi inferiori nella scala composita funzionale della sclerosi multipla rispetto a coloro che presentavano un’assunzione inferiore. Il numero maggiore di ricadute, l’incremento delle nuove lesioni attive e il loro accumulo nei pazienti del quartile più elevato hanno tutti mostrato tendenze verso la significatività statistica, o l’hanno effettivamente raggiunta, anche dopo gli aggiustamenti per età, sesso, trattamenti ricevuti, carico patologico basale, indice di massa corporea, livelli di vitamina D e abitudine al fumo.

La dottoressa Dalla Costa ha riconosciuto la necessità di studi di conferma, pur ritenendo i dati sufficientemente robusti e applicabili alla pratica clinica corrente. La raccomandazione emersa da questa ricerca è quella di evitare il consumo di alimenti ultraprocessati come strategia di supporto preziosa nella gestione precoce della sclerosi multipla. Oltre agli effetti proinfiammatori ben documentati, gli alimenti ultraprocessati potrebbero contribuire all’aumento dell’attività della malattia attraverso meccanismi addizionali, che includono la presenza di sostanze capaci di compromettere le difese del sistema nervoso centrale o di causare stress metabolico che ostacola i processi riparativi tissutali.

🔥 Gli effetti proinfiammatori di questi prodotti alimentari, formulati industrialmente e progettati per massimizzare la palatabilità e la conservabilità, sono stati ampiamente documentati in molteplici studi. Una revisione sistematica pubblicata nel 2024 su Nature Reviews ha collegato diversi meccanismi di disregolazione immunitaria agli ingredienti sintetici e ai metodi di lavorazione quali l’idrogenazione e l’estrusione. Il grado di ultraprocessazione può essere quantificato utilizzando il sistema di classificazione alimentare Nova, sviluppato oltre un decennio fa e ormai ampiamente adottato nella ricerca nutrizionale epidemiologica.

Sebbene uno studio prospettico randomizzato sarebbe ideale per confermare definitivamente questi risultati, la complessità e i costi elevati di tale disegno sperimentale, unitamente alle note difficoltà nel reclutare partecipanti disposti a mantenere modifiche dietetiche a lungo termine, rendono questa opzione particolarmente ardua. Tuttavia, considerando il crescente corpo di evidenze che collega le diete proinfiammatorie al peggioramento della sclerosi multipla e di altre patologie infiammatorie, nonché gli effetti avversi sulla salute generale ben documentati associati agli alimenti ultraprocessati, appare ragionevole incoraggiare i pazienti a ridurre il loro consumo già nel presente, anche nell’attesa di ulteriori conferme circa l’effetto modificante sulla progressione della malattia.

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📌 PER APPROFONDIRE:

📚 Dalla Costa G, et al. Ultraprocessed Foods and Multiple Sclerosis Activity. Presentato al Congress of the European Committee for Treatment and Research in Multiple Sclerosis (ECTRIMS) 2025, Barcellona, Spagna.

📚 Meta-analysis of ultraprocessed foods and mortality. Systematic Reviews 2025. DOI: 10.1186/s13643-025-02800-8

📚 Betaferon/Betaseron in Newly Emerging MS for Initial Treatment trial - 15-year follow-up results. Journal of Neurology 2024.

📚 Lane MM, et al. Ultra-processed food consumption and adverse health outcomes: umbrella review of epidemiological meta-analyses. Nature Reviews Immunology 2024.

📚 Monteiro CA, et al. The UN Decade of Nutrition, the NOVA food classification and the trouble with ultra-processing. Nature Food 2023.

💉 OMEGA INDEXL’Omega Index rappresenta uno dei più innovativi e clinicamente rilevanti marcatori biochimici emersi negli...
24/10/2025

💉 OMEGA INDEX

L’Omega Index rappresenta uno dei più innovativi e clinicamente rilevanti marcatori biochimici emersi negli ultimi decenni nel campo della nutrizione molecolare e della medicina preventiva.

🔴 Questo parametro, definito come la percentuale di acidi grassi omega-3 a catena lunga, specificamente acido eicosapentaenoico (EPA) e acido docosaesaenoico (DHA), sul totale degli acidi grassi presenti nelle membrane dei globuli rossi, ha acquisito crescente importanza nella valutazione del rischio cardiovascolare e nell’identificazione di alterazioni metaboliche associate a diverse condizioni patologiche.

Il fondamento scientifico dell’Omega Index risiede nella comprensione del delicato equilibrio tra acidi grassi pro-infiammatori e anti-infiammatori, particolarmente evidente nel rapporto tra acido arachidonico (AA) ed EPA. L’acido arachidonico, appartenente alla famiglia degli omega-6, costituisce il precursore di numerosi mediatori pro-infiammatori e pro-aggreganti, inclusi i trombossani, le prostaglandine della serie 2 e i leucotrieni della serie 4. Al contrario, l’EPA agisce come substrato competitivo per gli stessi enzimi, generando mediatori anti-infiammatori e anti-aggreganti, creando un sistema di modulazione endogena dei processi infiammatori che risulta fondamentale per il mantenimento dell’omeostasi cellulare.

🔷 La rilevanza clinica di questo equilibrio è supportata da un crescente corpus di evidenze scientifiche che dimostrano come alterazioni del rapporto AA/EPA possano predisporre a diverse patologie croniche. Studi epidemiologici hanno evidenziato che un rapporto AA/EPA elevato, tipicamente superiore a 11:1, è associato a un incremento significativo del rischio cardiovascolare. La competizione enzimatica tra questi acidi grassi a livello delle ciclossigenasi e lipossigenasi determina il profilo dei mediatori lipidici prodotti, influenzando direttamente i processi di aggregazione piastrinica, vasocostrizione e infiammazione vascolare.

Quando predomina l’acido arachidonico, si osserva una maggiore sintesi di tromboxano A2, un potente vasocostrittore e aggregante piastrinico, mentre una maggiore disponibilità di EPA favorisce la produzione di prostaciclina I3 e tromboxano A3, molecole con proprietà anti-aggreganti e vasodilatatrici.

🧠 Le implicazioni patologiche di uno squilibrio omega-3/omega-6 si estendono ben oltre il sistema cardiovascolare. Ricerche recenti hanno dimostrato una correlazione significativa tra rapporti AA/EPA elevati e l’incidenza di disturbi dell’umore, particolarmente la depressione. La modulazione neuroinfiammatoria operata dagli acidi grassi omega-3 influenza la sintesi di neurotrasmettitori e la plasticità sinaptica, mentre uno stato pro-infiammatorio cronico, sostenuto da un eccesso relativo di omega-6, può compromettere la funzionalità del sistema nervoso centrale. Gli studi condotti su popolazioni giapponesi hanno evidenziato come soggetti con rapporti AA/EPA superiori a 12:1 presentino un rischio significativamente maggiore di sviluppare sintomatologia depressiva rispetto a quelli con rapporti ottimali.

Il sistema immunitario rappresenta un altro target critico delle alterazioni dell’equilibrio omega-3/omega-6. L’acido arachidonico in eccesso promuove la sintesi di citochine pro-infiammatorie come TNF-α, IL-1β e IL-6, contribuendo al mantenimento di uno stato infiammatorio cronico di basso grado che caratterizza numerose patologie autoimmuni e degenerative. Al contrario, gli omega-3 stimolano la produzione di mediatori specializzati nella risoluzione dell’infiammazione, incluse le resolvine e protectine, che facilitano il ritorno all’omeostasi tissutale e prevengono la cronicizzazione dei processi infiammatori.

🔬 L’analisi dell’Omega Index rappresenta una metodica analitica sofisticata che richiede tecniche di gascromatografia accoppiate a spettrometria di massa per garantire accuratezza e riproducibilità dei risultati. Il processo analitico inizia con la raccolta di un campione di sangue intero, generalmente mediante un semplice prelievo capillare, che viene successivamente essiccato su carta da filtro speciale. I globuli rossi vengono isolati e sottoposti a estrazione lipidica mediante solventi organici, seguita da transesterificazione per convertire gli acidi grassi in esteri metilici volatili. La separazione cromatografica avviene utilizzando colonne capillari ad alta risoluzione con fasi stazionarie specifiche per acidi grassi, mentre l’identificazione e quantificazione vengono effettuate mediante confronto con standard interni ed esterni certificati. Il risultato finale viene espresso come percentuale di EPA e DHA sul totale degli acidi grassi identificati, con valori ottimali compresi tra 8% e 12%.

La standardizzazione del test dell’Omega Index ha permesso di stabilire range di riferimento clinicamente significativi. Valori inferiori al 4% sono considerati ad alto rischio e associati a incremento della mortalità cardiovascolare, valori tra 4% e 8% rappresentano un rischio intermedio, mentre valori superiori all’8% sono associati a protezione cardiovascolare ottimale. Questa stratificazione del rischio ha trovato validazione in numerosi studi prospettici che hanno dimostrato come ogni incremento dell’1% nell’Omega Index corrisponda a una riduzione del 9% del rischio di morte cardiaca improvvisa.

L’interpretazione clinica dell’Omega Index deve necessariamente considerare anche il rapporto AA/EPA, che fornisce informazioni complementari sull’equilibrio infiammatorio sistemico. Rapporti AA/EPA inferiori a 2,5:1 sono considerati ottimali, valori tra 2,5 e 11:1 rappresentano un rischio moderato, mentre rapporti superiori a 15:1 sono associati a rischio elevato di patologie infiammatorie croniche. La valutazione combinata di questi parametri offre una panoramica completa dello status degli acidi grassi essenziali e permette interventi nutrizionali mirati.

Le applicazioni cliniche dell’Omega Index si stanno estendendo progressivamente a diversi ambiti della medicina. In cardiologia, rappresenta un biomarker predittivo indipendente per eventi cardiovascolari maggiori, mentre in psichiatria viene utilizzato per il monitoraggio di pazienti con disturbi dell’umore in terapia con omega-3. In medicina dello sport, atleti con Omega Index subottimali mostrano maggiore suscettibilità a processi infiammatori e tempi di recupero prolungati, suggerendo un ruolo nella modulazione delle prestazioni atletiche e del recupero post-esercizio.

👉🏻 L’emergere dell’Omega Index come strumento diagnostico di precisione rappresenta un paradigma evolutivo nella medicina personalizzata, permettendo la stratificazione del rischio individuale e l’implementazione di strategie terapeutiche mirate. La crescente comprensione dei meccanismi molecolari che sottendono l’azione degli acidi grassi omega-3 e omega-6 continua a rivelare nuove applicazioni cliniche, consolidando il ruolo centrale di questi nutrienti nella prevenzione e nel trattamento di patologie croniche degenerative.

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📌 PER APPROFONDIRE:

📚 Dinu M, Pagliai G, Angelino D, Rosi A, Dall’Asta M, Bresciani L, et al. Effects of Popular Diets without Specific Calorie Targets on Weight Loss Outcomes: Systematic Review of Findings from Clinical Trials. Nutrients. 2020;12(4):822.
1. Martínez-González MA, Gea A, Ruiz-Canela M. The Mediterranean Diet and Cardiovascular Health. Circ Res. 2019;124(5):779-798.

📚 Simopoulos AP. The importance of the ratio of omega-6/omega-3 essential fatty acids. Biomed Pharmacother. 2002;56(8):365-379.

📚 Harris WS, Del Gobbo L, Tintle NL. The Omega-3 Index and relative risk for coronary heart disease mortality: Estimation from 10 cohort studies. Atherosclerosis. 2017;262:51-54.

📚 Fenton JI, Hord NG, Ghosh S, Gurzell EA. Immunomodulation by dietary long chain omega-3 fatty acids and the potential for adverse health outcomes. Prostaglandins Leukot Essent Fatty Acids. 2013;89(6):379-390.

📚 Sublette ME, Ellis SP, Geant AL, Mann JJ. Meta-analysis of the effects of eicosapentaenoic acid (EPA) in clinical trials in depression. J Clin Psychiatry. 2011;72(12):1577-1584.

📚 von Schacky C. The Omega-3 Index as a risk factor for cardiovascular diseases. Prostaglandins Other Lipid Mediat. 2011;96(1-4):94-98.

📚 Calder PC. Omega-3 fatty acids and inflammatory processes: from molecules to man. Biochem Soc Trans. 2017;45(5):1105-1115.

📚 Lands B. A critique of paradoxes in current advice on dietary lipids. Prog Lipid Res. 2008;47(2):77-106.

📚 Mozaffarian D, Wu JH. Omega-3 fatty acids and cardiovascular disease: effects on risk factors, molecular pathways, and clinical events. J Am Coll Cardiol. 2011;58(20):2047-2067.

⛓️‍💥 STRESS E METABOLISMO - IL RUOLO DELL’FGF21Una scoperta significativa ha recentemente illuminato i meccanismi biolog...
22/10/2025

⛓️‍💥 STRESS E METABOLISMO - IL RUOLO DELL’FGF21

Una scoperta significativa ha recentemente illuminato i meccanismi biologici attraverso cui lo stress psicologico si può tradurre in alterazioni metaboliche concrete, con implicazioni profonde per la comprensione dell’invecchiamento e delle malattie croniche.

👨🏻‍⚕️ Ricercatori della Columbia University Mailman School of Public Health, in collaborazione con il Columbia University Irving Medical Center e il Butler Columbia Aging Center, hanno dimostrato che l’FGF21, un ormone studiato da oltre vent’anni principalmente nel contesto del diabete e della regolazione del glucosio, agisce simultaneamente come ormone dello stress, creando un ponte biologico tra la dimensione psicologica e quella metabolica dell’organismo umano.

L’FGF21, acronimo di fibroblast growth factor 21, rappresenta un fulgido esempio di come la ricerca biomedica contemporanea stia progressivamente abbattendo le barriere tradizionali tra sistemi fisiologici apparentemente distinti. Questo ormone, la cui funzione primaria era stata identificata nella modulazione del metabolismo energetico, emerge ora come un mediatore cruciale capace di integrare le esperienze psicosociali con la segnalazione metabolica sistemica, ampliando il tradizionale quadro neuroendocrino oltre gli ormoni dello stress classicamente riconosciuti come il cortisolo e le catecolamine.

🔎 La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista Nature Metabolism, costituisce la prima evidenza nell’essere umano che l’FGF21 risponde acutamente allo stress mentale, offrendo nuove prospettive sulla comprensione di come gli stati mentali influenzino direttamente la risposta metabolica corporea e, in ultima analisi, la salute generale e l’invecchiamento biologico.

Lo studio ha monitorato le variazioni ormonali conseguenti all’esposizione a uno stressor psicologico standardizzato in due popolazioni distinte: individui sani e pazienti affetti da malattie mitocondriali, un gruppo di disordini genetici che compromettono la trasformazione energetica cellulare. Nei partecipanti sani, i livelli di FGF21 mostravano una diminuzione immediata dopo l’esposizione allo stress, con un ritorno ai valori basali entro novanta minuti, delineando un pattern ormonale dinamico e strettamente regolato. Al contrario, i pazienti con disfunzione mitocondriale presentavano una risposta diametralmente opposta: i livelli di FGF21 aumentavano progressivamente dopo lo stress, raggiungendo il picco massimo proprio a novanta minuti dall’evento stressante. Questa divergenza fondamentale nella risposta allo stress suggerisce che la biologia mitocondriale giochi un ruolo determinante nella modulazione ormonale, aprendo quello che i ricercatori definiscono un nuovo asse di vulnerabilità biologica.

La validazione di questi risultati è stata condotta attraverso l’analisi di dati provenienti da oltre ventimila partecipanti della UK Biobank, integrati con informazioni derivanti dallo studio MiSBIE, acronimo di Mitochondrial Stress and Biomarkers in Emotion, un progetto di ricerca specificamente dedicato all’indagine di come le variabili psicosociali si traducano in processi biologici misurabili.

⚙️ L’analisi epidemiologica su larga scala ha rivelato correlazioni significative tra i livelli di FGF21 e dimensioni cruciali dell’esperienza sociale ed emotiva. La solitudine, le esperienze di trascuratezza infantile e le recenti rotture relazionali, comprese le separazioni coniugali, risultavano associate a livelli più elevati di FGF21, mentre individui caratterizzati da legami sociali più solidi e un maggiore benessere emotivo, incluse interazioni sociali frequenti, soddisfazione di coppia elevata e robusto supporto sociale, presentavano livelli ormonali più contenuti. Questi dati forniscono un’evidenza a livello di popolazione che l’FGF21 non riflette esclusivamente lo stress acuto, ma costituisce piuttosto un indicatore biologico della qualità della vita sociale ed emotiva di un individuo nel tempo.

Le implicazioni di questa scoperta si estendono ben oltre l’ambito della ricerca fondamentale, toccando direttamente la pratica clinica e le strategie di salute pubblica. L’identificazione dell’FGF21 come mediatore biologico e potenziale biomarcatore dello stress psicologico inaugura nuove possibilità per il monitoraggio clinico e per lo sviluppo di interventi terapeutici più mirati.

Come sottolineato dai ricercatori, questo studio crea un ponte tra campi tradizionalmente separati, quello della metabolomica e quello della biologia dello stress, suggerendo che le future strategie di medicina di precisione potrebbero trarre vantaggio dall’incorporazione dell’FGF21 e di altri biomarcatori analoghi per monitorare la vulnerabilità allo stress metabolico e le risposte terapeutiche.

⭕️ In particolare, per i pazienti affetti da malattie mitocondriali, la comprensione di come l’ambiente sociale e le esperienze psicologiche interagiscano con la salute mitocondriale potrebbe influenzare direttamente gli esiti metabolici e il rischio di malattia a lungo termine, aprendo prospettive per interventi preventivi e terapeutici più efficaci.

Questa ricerca rappresenta quindi un esempio emblematico di come la scienza contemporanea stia progressivamente abbracciando una visione più olistica della salute umana, riconoscendo che la rigida separazione tra mente e corpo costituisce più un artefatto concettuale che una realtà biologica.

👉🏻 L’FGF21, un tempo studiato esclusivamente nel contesto delle malattie metaboliche, emerge ora come un ormone che attraversa il confine tra dimensione mentale e corporea, offrendo intuizioni biologiche preziose su come invecchiamo, ci adattiamo e ci deterioriamo sotto pressione. La comprensione di come la nostra esperienza vissuta, le nostre relazioni, il nostro stress e la nostra resilienza vengano tradotti in biologia rappresenta un avanzamento fondamentale verso un’immagine più accurata e integrata della salute umana, aprendo prospettive entusiasmanti per la scienza e la medicina del futuro.

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📌 PER APPROFONDIRE:

📚 Kurade, M., Bobba-Alves, N., Kelly, C., Conklin, Q., Trumpff, C., Behnke, A., Juster, R.P., Hirano, M., & Picard, M. (2025). Mitochondrial and psychosocial stress-related regulation of FGF21 in humans. *Nature Metabolism*.

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