27/10/2025
La Medicina dell'incertezza e del buon senso del medico.
È appena uscito su Stroke, la rivista ufficiale dell'AHA/ASA (American Heart Association/American Stroke Association) dedicata alle malattie cerebrovascolari, uno studio che dovrebbe farci riflettere profondamente sul modo in cui pratichiamo la Medicina oggi.
Il fatto che sia pubblicato sulla rivista dell'AHA/ASA rende questa ricerca ancora più significativa: non si tratta di critiche esterne o di voci dissidenti, ma di un'analisi rigorosa pubblicata dalla stessa organizzazione che produce le linee guida esaminate. È la Medicina ufficiale che guarda sé stessa allo specchio.
I ricercatori hanno esaminato sistematicamente tutte le linee guida sull'ictus pubblicate negli ultimi trent'anni dalle due principali società scientifiche mondiali: l'AHA/ASA e la ESO (European Stroke Organisation), le stesse organizzazioni che definiscono gli standard di cura seguiti in tutto il mondo.
In altre parole, questo rappresenta il massimo livello di autorevolezza scientifica "ufficiale": non opinioni di un gruppo di contestatori.
L'obiettivo era semplice: capire su quali fondamenta poggiano le raccomandazioni che ogni giorno orientano le decisioni cliniche dei medici.
"Quanto di quello che facciamo è davvero sostenuto da prove scientifiche solide, quegli studi randomizzati controllati che consideriamo il “gold standard” della Medicina basata sull'evidenza?"
Il risultato sorprenderà solo chi vive lontano dalla realtà della pratica clinica.
Meno del 15% delle raccomandazioni si basa su evidenze di livello "A", cioè su studi multipli, ampi, rigorosi.
La maggior parte – circa la metà – si fonda su evidenze di livello intermedio, provenienti da studi osservazionali o singoli trial (aggiungo io, spesso finanziati da case farmaceutiche).
Un terzo abbondante deriva da discussioni tra accademici o da dati limitati.
In Europa il quadro è ancora più eloquente: solo il 7% delle raccomandazioni ESO poggia su prove di alta qualità. Per un terzo delle questioni cliniche affrontate, non esistono nemmeno dati sufficienti per formulare una raccomandazione. E anche quando le società scientifiche esprimono raccomandazioni "forti" – quelle del tipo "dovreste assolutamente fare così" – solo nel 20% dei casi queste sono sostenute da evidenze di alto livello.
C'è di più: nel tempo, mentre il numero totale di raccomandazioni è aumentato (segno della crescente complessità della medicina moderna), la proporzione di quelle sostenute da prove solide è paradossalmente diminuita.
Questi dati ci invitano a recuperare un'umiltà profonda nel nostro essere medici. A riconoscere che molto di quello che facciamo si basa su un sapere provvisorio, su ipotesi ragionevoli più che su certezze granitiche. E questo non è un limite da nascondere, ma una realtà da accettare e comunicare onestamente.
Attenzione però: questo non significa che le linee guida siano tutte sbagliate o inutili. Il vero significato di questi dati è che troppo spesso si dimentica che la Medicina non è una scienza esatta che può offrire sempre risposte certe. È piuttosto un'arte complessa che naviga costantemente tra evidenze parziali, esperienza clinica e - soprattutto - l'unicità del singolo paziente.
Questa consapevolezza dovrebbe spingerci a ripensare radicalmente il nostro approccio. Invece di nascondersi dietro parametri e protocolli, è urgente ritornare ad una vera ricerca delle cause. Troppe volte la Medicina moderna si riduce a una rincorsa ossessiva ai "normali" – la pressione sotto “X”, il colesterolo LDL sotto “Y”, l'emoglobina glicata sotto il “Z”, dimenticando che questi numeri sono solo la superficie visibile di processi molto più profondi e complessi.
Dietro un'ipertensione c'è una storia: di stress cronico, di alimentazione squilibrata, di sonno disturbato, di sedentarietà, talvolta di traumi emotivi mai elaborati. Dietro una dislipidemia c'è un metabolismo che parla di infiammazione, di stress ossidativo, di resistenza insulinica, di disbiosi intestinale.
Concentrarsi solo sui numeri significa diventare esasperatamente focalizzati solo sui sintomi ignorando completamente la radice degli stessi. È come spegnere continuamente l'allarme antincendio senza mai cercare dove sia il fuoco.
Non si tratta di essere "contro" le linee guida: si tratta di riconoscerne i limiti e di integrarle in una visione più ampia e umana della cura. Le linee guida sono mappe, non territori. Sono punti di partenza, non di arrivo.
Quello che invece serve è una nuova alleanza tra medico e paziente.
Un'alleanza in cui il medico non sia il depositario di verità assolute (che non esistono) da applicare meccanicamente, ma un compagno di viaggio che aiuta il paziente a comprendere non solo il "cosa" della sua condizione, ma soprattutto il "perché".
Significa passare da "Lei ha la pressione alta, deve prendere questa pastiglia" o "Lei ha il colesterolo alto, prenda le statine" all'esercitare la vera arte della cura: "Vediamo insieme cosa nella sua vita potrebbe contribuire a migliorare la sua salute e come possiamo affrontarlo su più fronti".
Significa trasformare il paziente da oggetto passivo di protocolli standardizzati a soggetto attivo del proprio percorso di salute.
In questa prospettiva, l'incertezza non è una debolezza da nascondere ma una risorsa da valorizzare. Dire "non sappiamo tutto" non mina l'autorevolezza del medico, la rafforza. Perché solo riconoscendo i limiti del nostro sapere possiamo aprirci a un ascolto autentico, a una personalizzazione vera della cura, a una collaborazione genuina con chi abbiamo di fronte.
Le linee guida continueranno a evolversi, nuovi studi colmeranno alcune lacune (anche se probabilmente ne apriranno altre). Nel frattempo, il nostro compito è usare con saggezza quello che abbiamo, senza dimenticare che ogni paziente è unico, ogni storia è diversa, ogni percorso di cura deve essere costruito su misura.
Questo studio su Stroke non è solo un'analisi statistica delle evidenze scientifiche. È un invito alla riflessione profonda su cosa significhi davvero curare nell'era della medicina moderna. Ci ricorda che la Scienza, quando è onesta, sa riconoscere i propri limiti. E proprio da questa consapevolezza può nascere una medicina più umana, più vera, più efficace.
Non abbiamo bisogno di più sensazionalismo o di false certezze. Abbiamo bisogno di più umiltà, più ascolto, più tempo per comprendere le vere cause del malessere. Abbiamo bisogno di medici che sappiano essere guide consapevoli e di pazienti che si sentano protagonisti informati del proprio percorso di salute.
Ma c'è un passaggio fondamentale che dobbiamo affrontare con onestà: anche i pazienti devono fare un salto di qualità. Non possono limitarsi a pretendere una prescrizione che risolva magicamente tutto. Devono prendere sul serio il cambiamento dello stile di vita, in modo radicale, anche quando questo significa abbandonare comode abitudini consolidate negli anni.
La vera salute richiede impegno da entrambe le parti: un medico che sappia ascoltare e guidare, un paziente che sia disposto a mettersi davvero in gioco.
La strada è ancora lunga, ma almeno ora sappiamo meglio dove siamo. E da qui possiamo ripartire, insieme, con maggiore consapevolezza e responsabilità reciproca.