14/10/2025
C’è questa immagine — l’ha scritta bene Mario Visone — di Massimo Pelliccia che si aggira sul palco di un evento comunale. Non partecipa, non assiste: si aggira. Come uno spettro di sé stesso, un’eco istituzionale che non ha ancora realizzato di essere svanita. E la cosa più surreale è che nessuno lo ferma, nessuno gli dice: «Scusi, ma lei qui cosa fa?». Perché in fondo Casalnuovo è anche questo: una città dove la realtà è elastica, dove puoi decadere da sindaco e continuare a comportarti come se non fosse successo niente, come se la fascia tricolore fosse solo un accessorio dimenticato nel guardaroba del potere.
E mentre sorride, stringe mani, saluta il pubblico, ringrazia per “la partecipazione straordinaria”, il pubblico applaude davvero — non per convinzione, ma per abitudine. Come quando applaudiamo l’aereo che atterra. L’ex sindaco che si muove da sindaco, che parla da sindaco, che registra reel da sindaco, ma non è più sindaco. È il miracolo di un decaduto: un paradosso vivente, un uomo che continua a interpretare la parte anche dopo che il film è finito, come se il palco comunale fosse casa sua e il microfono un diritto acquisito.
Pelliccia oggi non governa, ma interpreta. Pubblicizza eventi comunali su TikTok — Calici e contone, o cotone, o content, dipende dal giorno e dal filtro — racconta di “grande successo” e “partecipazione straordinaria”, invita i cittadini a condividere, commentare, brindare. Solo che lo fa da privato cittadino. O almeno dovrebbe. Ma nei video non c’è traccia di questa differenza: stesso tono istituzionale, stessa postura da autorità, stesso lessico da comunicato stampa comunale. Un Truman Show a basso budget, con la differenza che qui nessuno ha ancora avuto il coraggio di dirgli che lo spettacolo è finito.
E poi c’è l’altra faccia del suo TikTok — maledetto Visone, mi hai fatto entrare in un loop che sfiora la perversione — quella più performativa, più satirica, diciamo così. Pelliccia che fa il verso a Berlusconi, con la stessa inflessione sorridente e paternalistica, che parla di “libertà” come se fosse un marchio registrato, e che si scaglia contro i “poveri comunisti” che lo criticano, accusandoli — con quel tono finto bonario, a metà tra l’offeso e il compiaciuto — di essere illiberali, invidiosi, rancorosi. E intanto, mentre gioca a essere l’uomo libero contro il sistema, fa esattamente l’opposto: abusa del ruolo che non ha più, lo mima, lo consuma, lo svuota e lo ripropone come contenuto. Come gag politica da social, dove la distinzione tra realtà e parodia non esiste più. È un potere che sopravvive alla carica, ma solo nella sua versione caricaturale.
E così, mentre parla della Circumvesuviana come di una “vicenda indecorosa”, sembra sceso da Marte. Dieci anni di governo alle spalle, ma l’indignazione è quella fresca e furiosa di un consigliere d’opposizione. Chiede conto. A chi, però? A sé stesso? Al sé politico che è stato fino a ieri? All’alter ego che ancora si aggira nei video istituzionali del Comune, come un ologramma mal calibrato che non capisce di essere spento? O forse lo chiede al presidente di Regione? All’EAV? All’universo?
Ma la domanda vera è un’altra: dov’era quando la linea è stata chiusa? Perché quella chiusura — ricordiamolo — non è stata un lampo, ma una lenta agonia, un cartello “servizio sospeso” appeso per mesi come una diagnosi terminale, con i pendolari stipati negli autobus sostitutivi come sardine in un esperimento sociologico sul limite della dignità umana. E in quel tempo sospeso, dov’era il sindaco Pelliccia? Aveva tutte le leve, i contatti, il peso politico per aprire un fronte, anche solo simbolico, anche solo un tavolo tecnico con il presidente dell’EAV o un comunicato stampa degno di una città di 50.000 abitanti.
Poteva chiedere conto allora, non adesso che fa comodo indignarsi. Poteva pretendere un cronoprogramma, una data di riapertura, un servizio sostitutivo che non fosse un atto di umiliazione collettiva. Poteva sedersi al tavolo e dire: «Questa città non si ferma, se vi fermate voi». Poteva, in altre parole, fare politica.
E invece eccolo ora, pochi mesi dopo la sua decadenza, a scoprire la Circumvesuviana come se fosse un trauma fresco, un’injustice cosmica di cui nessuno lo aveva avvisato. C’è una parola tedesca — Nachträglichkeit — che indica il trauma che arriva dopo, quando ormai non serve più. Ecco, Pelliccia è l’incarnazione amministrativa di quella parola: l’indignazione postuma, la coscienza civile che si sveglia con un ritardo di un anno. Come una sveglia dimenticata in una stanza d’albergo.
E oggi chiede conto. Con tono grave, con lo sguardo di chi ha visto troppo. Ma la verità è che la linea, il servizio, la città stessa — tutto ciò di cui ora parla — erano già lì, chiusi, fermi, sospesi, mentre lui era ancora il sindaco. E quindi sì, la domanda resta: chiede conto a chi? Perché, a un certo punto, la responsabilità non è più un concetto politico. È solo una questione di memoria.
Pelliccia è riuscito in un’impresa teologica: essere contemporaneamente ex e attuale. È come se il tempo politico, a Casalnuovo, si fosse spezzato e lui fosse rimasto intrappolato in una fascia di realtà dove è ancora sindaco, ma solo per sé stesso. Parla del diritto al trasporto pubblico — e ha ragione. Però dimentica che nel diritto alla mobilità, quello che giustamente rivendica, c'è anche il diritto a non essere imbottigliato in un traffico che somiglia a un sequestro di persona. Il diritto a muoversi senza dover calcolare ogni spostamento come una spedizione punitiva. Il diritto a camminare nel proprio paese senza sentirsi un intruso. A stare in uno spazio collettivo che non sia solo la fila alla posta o la corsia del supermercato. Ma questi spazi, a Casalnuovo, non esistono. O meglio: esistono solo come concetto, come promessa elettorale ripetuta dieci anni di fila e poi dissolta nel nulla.
E allora l’immagine è questa: l’ex sindaco che cammina per la città che ha amministrato come se la vedesse per la prima volta. Che osserva la sua stessa opera con la meraviglia di chi non riconosce ciò che ha costruito. E a quel punto, prima di chiedere conto agli altri, forse potrebbe cominciare rispondendo alla propria domanda.
E quando, nei video e nei post, dice che “la famiglia è al centro di tutto”, sarebbe utile precisare quale famiglia. Non per malizia, ma per trasparenza semantica. Perché in una città come Casalnuovo la parola “famiglia” è un contenitore grande: ci sta dentro il nucleo affettivo, ma anche quello elettorale, economico, imprenditoriale. Forse, per evitare fraintendimenti, basterebbe aggiungere un asterisco.
Intanto la Ramoil è ancora lì. La Comasa pure. Le due ferite aperte, i due promemoria tossici che ci ricordano che sull’ambiente e sulla salute non è stato fatto niente di sostanziale. I fumi, le puzze, i terreni contaminati: restano. Così come restano il traffico ingestibile, le piazze spente, le strade dove non si cammina ma si sopravvive, l’assenza di qualsiasi forma di vita sociale dopo le otto di sera.
Forse, tra una diretta e un brindisi, Pelliccia potrebbe anche sedersi a parlare con l’attuale sindaco. O con quello precedente. Che, per una coincidenza da racconto borgesiano, porta lo stesso nome. E magari capire, una volta per tutte, che la vera indecenza è continuare a recitare la parte del sindaco quando il sipario è già calato e le luci in sala si sono accese da un pezzo.
Fabio D' Angelo