15/02/2021
Si sente spesso dire che viviamo in un’epoca in cui la funzione genitoriale paterna è in crisi. A detta di molti, all’interno delle nostre famiglie, manca la capacità di dare dei limiti e delle regole e non avere paura che i nostri figli possano andare incontro a delle rinunce. Si aggiunge che per tali motivi i nostri ragazzi si scoprono disorientati, incapaci di affrontare le inevitabili frustrazioni e privi dei necessari punti di riferimento, prima esterni e poi da interiorizzare. Sappiamo bene inoltre quanto importante sia il senso del limite, come esso sia una prerogativa essenziale dell’essere umano, prerogativa senza la quale non può esistere né il pensiero, né il desiderio, né il senso di sé.
Senza il senso del limite le richieste e i desideri diventano iperbolici e i rifiuti a tali richieste impossibili da tollerare.
E’ altresì importante che i nostri bambini possano sperimentare frustrazioni, dolori e lutti, per prepararsi a ciò che vivranno nel loro futuro e per poter maturare il senso di sicurezza, autonomia e responsabilità. E’ diffusa inoltre una tendenza genitoriale a sostituirsi ai figli negli sforzi, nelle difficoltà e si vogliono annullare gli inevitabili momenti o prove di passaggio.
Nel mito, Fetonte, ancora troppo giovane, chiede al padre Helios di poter prendere il suo posto e di poter guidare lui il carro del sole. Il genitore non riesce a rifiutare tale richiesta causando perciò conseguenze drammatiche. L’inesperto Fetonte, portando il sole nel carro, si avvicinerà troppo alla terra provocando disastri irrimediabili e quindi, per essere fermato, verrà colpito e ucciso da un fulmine scagliato da Zeus.
Credo si possa convenire in parte con tali osservazioni, sull’evaporazione della funzione paterna, non del padre, su cui si esercitano ormai tutti i professionisti delle discipline umanistiche. Però queste rischiano di essere parziali perché mutilate delle considerazioni su ciò che accadeva in passato.
Qualunque terapeuta, con un po’ di esperienza, ha probabilmente avuto l’occasione di incontrare nel proprio studio genitori adulti, perlopiù padri, che chiedevano aiuto per l’incapacità, spesso lamentata dai figli, di non riuscire ad avere un rapporto intimo ed affettivo con i propri cari in famiglia. E’ evidente in tali casi un’incapacità ad avere un contatto con i propri affetti e le proprie pulsioni, per sentirsi liberi nel poterli esprimere con le persone vicine.
Quindi sembra che il passato non sia del tutto positivo. Quei genitori, non tutti ovviamente, avevano spesso tale limite. Riuscivano ad essere autoritari, ascoltati, ad indurre all’obbedienza, ma mancavano della dimensione affettiva.
Quando talvolta nelle famiglie era comunque presente la dimensione di affetto e accoglimento, questa spesso era di pertinenza esclusiva della madre. Non posso in questa relazione approfondire tale questione, ma anche una scissione così netta della funzione paterna e materna in figure genitoriali specifiche, comportava comunque alcune conseguenze negative.
Possiamo pensare che la messa in crisi di quel modello educativo autoritario, che forse durava da secoli, ha generato molta confusione e disorientamento nelle vecchie e nuove generazioni, incapaci adesso di trovare una nuova via.
Nel bel film ‘Il nastro bianco’, il regista austriaco Michael Haneche sembra comunicarci come i metodi educativi rigidi e autoritari, all’interno delle famiglie di un piccolo villaggio tedesco nei primi anni del ‘900, causarono l’esacerbazione delle relazioni personali nel paese, dando luogo ad alcuni atti sadici e violenti anonimi tra i suoi abitanti. Ma soprattutto, tali metodi educativi, sembra voler suggerire il regista, appaiono propedeutici all’avvento dell’ideologia nazionalsocialista.
Dall’esempio della famiglia in consultazione e da altri spunti di questo scritto, possiamo chiederci se sia possibile migliorare i rapporti tra gli uomini migliorando le relazioni tra genitori e figli, evitando i due estremi di rigido autoritarismo o mancanza di limiti.
Sappiamo infatti che nelle persone con tendenze antisociali sono presenti alcune propensioni interne che favoriscono gli atti delinquenziali. Tali atti sono favoriti da una mancanza di identificazione con la vittima, dalla scarsa capacità di contenere un impulso o desiderio e di accettare la frustrazione di una rinuncia. Possiamo notare invece la tendenza a passare all’aggressione, per confermare il proprio sentimento di onnipotenza.
Inoltre si ritiene che l’appropriazione del denaro abbia a che fare con il conseguimento del potere sugli altri, con la fantasia in tal modo di appartenere ad un’elite. Vi è in ogni delinquente la scarsa accettazione della inevitabile maturazione e dello sviluppo per conseguire degli obiettivi, invece è presente la volontà di acquisire potenza e prestigio mediante un atto violento e immediato di appropriazione. Tutto si deve ottenere subito saltando i passaggi maturativi, senza fatica e senza sforzo. Il criminale si comporta come un tossicodipendente: non è capace di aspettare.
A tal proposito tutti noi sappiamo come possa essere nocivo un mito diffusissimo: il mito del bambino prodigio. Può essere veramente pericoloso credere vero che ci sia un bambino che sia bravo a scuola senza dover studiare duramente.
Infine, le persone con tendenze antisociali non sono capaci di instaurare relazioni di scambio e disinteressate con gli altri, cercano invece nel rapporto con l’Altro il proprio tornaconto, provano insistentemente a manipolare il prossimo, spesso in modo subdolo e inconscio, per ottenerne un vantaggio personale.
Credo, a tal proposito, che la migliore cura per la personalità antisociale sia lo sviluppo della capacità d instaurare relazioni affettive autentiche e disinteressate.