Dott.ssa Cristina Micieli Psicologa

Dott.ssa Cristina Micieli Psicologa Sono una psicologa e sessuologa, mi occupo di terapia individuale, di coppia e familiare.

James Hillman: "Sto morendo, ma non potrei essere più impegnato a vivere". La sua ultima intervista (di Silvia Ronchey)🥀...
27/10/2025

James Hillman: "Sto morendo, ma non potrei essere più impegnato a vivere". La sua ultima intervista (di Silvia Ronchey)

🥀14 anni fa ci lasciava lo psicologo James Hillman

«Sto morendo, ma non potrei essere più impegnato a vivere». Così aveva scritto, nella sua ultima mail. E così l’ho trovato, quando sono andata a salutarlo per l’ultima volta nella sua casa di Thompson, nel Connecticut, pochi giorni prima che morisse: il fantasma di se stesso, ma incredibilmente vitale; il corpo fisico ridotto al minimo, quasi mummificato, tutto testa, pura volontà pensante.

Restare pensante era la sua scommessa, la sua sfida. Per questo aveva ridotto al minimo la morfina, a prezzo di un’atroce sofferenza sopportata con quella che gli antichi stoici chiamavano apatheia: un apparente distacco dalla paura e dal dolore che traduceva in realtà un calarsi più profondo in quelle emozioni.

L’unica cosa che contava era analizzare istante dopo istante se stesso e quindi la morte come atto oltre che nella sua essenza. Se Steve Jobs, morendo, ha lasciato detto «stay hungry, stay foolish», l’ultimo insegnamento di James Hillman può riassumersi così: «Resta pensante» fino all’ultima soglia dell’essere

Il tempo qui sembra fermo, le lancette puntate sull’essenza ultima.

Com’è morire James?

«Uno svuotamento. Si comincia svuotandosi. Ma, si potrebbe chiedere, che cos’è o dov’è il vuoto? Il vuoto è nella perdita. E che cosa si perde? Io non ho “perso” nel senso comune di “perdere”. Non c’è perdita in quel senso. C’è la fine dell’ambizione. La fine di ciò che si chiede a se stessi. E’ molto importante. Non si chiede più niente a se stessi. Si comincia a svuotarsi degli obblighi e dei vincoli, delle necessità che si pensavano importanti. E quando queste cose cominciano a sparire, resta un’enorme quantità di tempo. E poi scivola via anche il tempo. E si vive senza tempo. Che ore sono? Le nove e mezza. Di mattina o di sera? Non lo so».

📝 QUI L' INTERVISTA COMPLETA ➡️
https://jungitalia.it/2015/10/29/anniversario-di-morte-di-james-hillman-27-ottobre-2011-la-sua-ultima-intervista/
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(di Emanuele Casale):

Hillman, ex direttore dello Jung Institute, ampliò e sviluppò in maniera originale come nessun altro la parte degli studi e dell’opera lasciata da Jung riguardo gli “Archetipi” e la psicologia comparata alla mitologia, ampliò l’epistemologia della clinica psicologica demitizzando e destrutturando le intere illusioni e unilateral-ismi dell’Io tipica della psicologia accademica. Un eretico Junghiano che ha dato molto a questo mondo, intuizioni e amplificazioni “immaginali” circa il ‘nostro’ “fare Anima”.

Nonostante anche lui non fosse immune dal complesso che io definisco “i-migliori-di-Jung” (ovvero quel complesso che possiede gli psicologi del profondo portandoli a dire cose false e non vere su Jung) è stato colui che più di tutti fino ad oggi si è avvicinato a quella complessità dell’Anima inaugurata da Jung, ma soprattutto lo ha fatto con Anima, con quel “La forza del carattere” (titolo di un suo fortunato saggio)!

Ha ampliato la psicologia rivivificando quel senso o sensibilità immaginale tanto imprescindibile, vitale e immanente nelle e per le nostre vite, quanto scarso e debole oggi .
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L' ultima intervista fatta prima di morire a James Hillman, l'ultimo dei più grandi psicologi dei nostri tempi. Di Silvia Ronchey

18/10/2025

Grazie al mio lavoro con i pazienti mi resi conto che le, idee ossessive e le allucinazioni contengono un nocciolo significativo. Nascondono una personalità, la storia di una vita, speranze e desideri. È solo colpa nostra se non riusciamo a capirne il significato. Mi fu chiaro allora per la prima volta che una psicologia generale della personalità è implicata nella psicosi, e che anche in questa si ritrovano i vecchi conflitti dell’umanità.”

“[…] presi a considerare i malati in una luce diversa, poiché avevo finalmente capito la ricchezza e l’importanza della loro vita interiore […] Spesso mi vengono chiesti chiarimenti circa il mio metodo analitico o psicoterapeutico. Non posso rispondere in modo univoco: la terapia è diversa per ogni caso. Quando un medico mi dice che segue rigorosamente questo o quel metodo, ho i miei dubbi sull’efficacia della sua terapia. E stato scritto tanto sulla resistenza che oppone il malato, da far sembrare quasi che il medico voglia tentare di imporgli qualcosa, mentre la cura dovrebbe provenire spontaneamente dal malato stesso […] L’importante è che io mi ponga dinanzi al paziente come un essere umano di fronte a un altro essere umano”.

Jung, "Ricordi, sogni, riflessioni"

17/10/2025

JUNG E L’OMBRA

Il campo della psicologia è pieno di una miriade di teorie e modelli, ognuno dei quali offre prospettive diverse sulla psiche. Tra queste spicca la teoria dell'“ombra” di Carl Gustav Jung, un concetto affascinante e complesso che scava nelle profondità della mente. Jung, psichiatra svizzero e padre della psicologia analitica, sviluppò questa teoria per far luce sugli aspetti nascosti e spesso meno accettabili della nostra personalità.

La teoria dell'ombra di Jung è una componente essenziale del suo approccio più ampio alla comprensione della psiche umana. Jung credeva che ogni individuo possegga una personalità multiforme composta da vari elementi complessuali e archetipici; tra questi, l'“ombra” rappresenta le sfaccettature più oscure e nascoste della personalità. Sono aspetti che preferiamo non riconoscere, qualità che potremmo addirittura trovare scomode o inaccettabili. L'ombra è il “deposito” di tutto ciò che è soppresso, rifiutato o negato.

“La figura dell'Ombra personifica tutto ciò che il soggetto non riconosce e che pur tuttavia, in maniera diretta o indiretta, instancabilmente lo perseguita: per esempio tratti del carattere poco apprezzabili o altre tendenze incompatibili”
C.G. Jung, Coscienza, inconscio e individuazione, 1939

L'ombra contiene tratti come rabbia, invidia, avidità, egoismo e altre caratteristiche indesiderabili. Questi attributi sono generalmente nascosti alla nostra consapevolezza cosciente, poiché la società, la cultura e i valori personali incoraggiano la repressione di tali qualità negative. L'ombra non è intrinsecamente malevola; si tratta, invece, di una parte della struttura della psiche inconscia.
Jung credeva che riconoscere e integrare questi aspetti nel nostro sé cosciente fosse cruciale per raggiungere l’integrità psicologica e la crescita personale.

Il processo di confronto e integrazione dell'ombra è centrale nella teoria dell'“individuazione” di Jung, un viaggio che dura tutta la vita verso l'autorealizzazione. Ignorare la dimensione ombra l’ombra comporta il “ritorno”, sotto varie forme, dei contenuti rimossi; per esempio nei sintomi, nei sogni, nei lapsus e nelle relazioni. Affrontare l’ombra, d’altra parte, è un’impresa coraggiosa che può portare a una profonda consapevolezza di sé e alla crescita.

Per affrontare l'ombra, è necessario impegnarsi in un processo di analisi e introspezione. Ciò implica riconoscere e accettare i propri difetti e tratti negativi, che possono essere stimolanti ed emotivamente investiti. Potrebbe essere necessario affrontare verità scomode su se stessi, riconoscere gli errori del passato e accettare il potenziale di oscurità interiore. L’obiettivo non è indulgere in questi aspetti negativi, ma piuttosto comprenderli e integrarli in un’equilibrata consapevolezza di sé.

I contenuti dell’“ombra” si manifestano spesso in fenomeni proiettivi, che si verificano quando trasferiamo le contenuti, complessi e immagini inconsce e negative sugli altri. Quando non siamo disposti a riconoscere e ad accettare i nostri difetti, possiamo proiettarli sulle persone con cui interagiamo, percependo in loro proprio le caratteristiche che ci rifiutiamo di vedere in noi stessi. Questa proiezione può portare a conflitti e incomprensioni.

Come afferma Jung:
“L'incontro con sé stessi è una delle esperienze più sgradevoli, alle quali si sfugge proiettando tutto ciò che è negativo sul mondo circostante. Chi è in condizione di vedere la propria Ombra e di sopportarne la conoscenza ha già assolto una piccola parte del compito.”
(Gli archetipi dell'inconscio collettivo, 1934/1954)

La consapevolezza di quanto della psiche è rifiutato e rimosso, di quanto è “ombra”, può aiutarci a diventare individui più compassionevoli e comprensivi. Riconoscendo le nostre proiezioni e comprendendone la fonte, possiamo lavorare sulle barriere che ostacolano la crescita personale e le relazioni. Affrontare l'ombra e abbracciare i nostri aspetti più oscuri apre anche la porta alla trasformazione personale, poiché diventiamo più consapevoli delle nostre azioni e motivazioni.

Per approfondire:
Carl Gustav Jung - Psicologia dell’inconscio;
Carl Gustav Jung - Tipi psicologici.

19/09/2025

L’abbandono non si manifesta soltanto quando un bambino viene lasciato fisicamente solo, esiste una forma altrettanto devastante: l’abbandono emotivo e psicologico. È quella condizione in cui il bambino cresce accanto a una madre che, pur essendo fisicamente presente, non riconosce i suoi bisogni affettivi, non gli offre uno sguardo, un gesto di tenerezza, un riconoscimento autentico.
Secondo la prospettiva di Gabor Maté, medico che ha esplorato le radici psicologiche e relazionali del trauma, il bisogno primario di ogni essere umano è la connessione. Senza connessione, il bambino non può sviluppare un senso di sicurezza interiore, né la convinzione di essere degno d’amore. La mancanza di attaccamento non è solo una ferita affettiva, è un trauma che modella la mente e impatta sul corpo, che influenza lo sviluppo neurologico e psichico.
Il bambino che cresce accanto a una madre emotivamente indisponibile impara molto presto a leggere i suoi segnali, a percepirsi come peso e causa del suo malessere. Invece di sentirsi accolto, si percepisce colpevole della sofferenza materna. Come osserva Maté, il bambino non smette di amare il genitore che lo rifiuta; smette, piuttosto, di amare se stesso, convincendosi di non meritare affetto. Questa dinamica interiore è profondamente distruttiva, perché radica un senso di vergogna e inadeguatezza che può accompagnare l’individuo per tutta la vita.
Da adulto, chi ha conosciuto l’abbandono emotivo continua a portare dentro di sé domande laceranti come “Sono stato davvero amato?”
L’assenza di tenerezza non lascia solo un vuoto emotivo ma si manifesta in difficoltà relazionali, in ansia, in dipendenze di vario tipo o in un costante bisogno di approvazione esterna. Maté sottolinea come molte forme di sofferenza psichica e di disagio, anche fisico, abbiano origine proprio in queste ferite precoci, invisibili ma profondamente radicate.
L’abbandono affettivo è più doloroso dell’indifferenza perché non si limita a negare la presenza, ma comunica disprezzo, rabbia, disgusto. Il bambino, incapace di distinguere i confini tra sé e la madre, interiorizza questi sentimenti e li rivolge contro di sé. Così si forma un circolo vizioso in cui l’autostima viene minata alle fondamenta e il mondo viene percepito come un luogo ostile.
Le madri emotivamente assenti non lo diventano per scelta, ma spesso perché a loro volta hanno sperimentato lo stesso abbandono emotivo, portandone i segni irrisolti. La comprensione di queste dinamiche non giustifica il dolore del bambino, ma permette di rompere la catena della trasmissione transgenerazionale del trauma.
Il cammino di guarigione passa dunque dal riconoscimento: dare un nome alla ferita, legittimare il dolore, accogliere il bambino interiore che è stato privato di amore. Solo così diventa possibile, da adulti, costruire relazioni fondate non sulla paura di essere rifiutati, ma sulla fiducia che la connessione autentica è possibile.

12/08/2025

L’INCONTRO, LA SOLITUDINE E L'AMORE.

Nel passaggio dall’innamoramento, in cui tutto è dato, all’amore, in cui tutto è da creare, si presenta subito il pericolo che i reciproci fantasmi, dopo aver colluso nell’attirare e unire i due, possono iniziare a collidere. È qui che ciascuno, se non educato al rispetto dell’altro cui chiama l’etica del desiderio, per paura di annullarsi a fronte di ciò che lo trascende, può facilmente ricadere nel dominio dell’io, che si crede illusoriamente di essere il detentore della soggettività, dove “non c’è altro d-io fuori di me”. Anche se questo “dio” può svolgere indifferentemente la parte di incubo o di succubo.
Le conseguenze dell’amore, quello possessivo, di padronanza, sono devastanti: secondo un’ottica post junghiana (Montefoschi) ciascuno espropria l’altro della propria universalità; secondo un’ottica post freudiana (Lacan) ciascuno espropria l’altro della sua specifica singolarità.
L’altro, però, in quanto diverso, non è solo esterno come altro da sé, individuale o sociale, ma anche “interno” come totalmente Altro (“je est un autre”, Rimbaud). È esattamente questo punto di intima estimità, immaginato come dato ontologico, immanente-trascendente, o come centro archetipico non rappresentabile, il luogo estremo della verità dell’essere, l’ombelico del mondo. Così le conseguenze dell’amore possessivo sono ancora più tragiche, perché mirano a minare il fondamento dell’intero universo, brulicante di vita e vibrante d’amore.
C’è un passaggio molto bello nel film Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders del 1987, un’icona assoluta nella cinematografia del novecento, in cui l’angelo nostalgico della natura umana, dopo aver stabilito un ponte tra il sovrasensibile, in cui si dà come pensiero dell’Altro, e l’intrasensibile animico-spirituale della bella trapezista, in cui si dà come desiderio dell’Altro, si presenta a lei in carne e ossa al banco bar di un locale. Stranieri al mondo e l’uno all’altro, i due si guardano, ed è subito incontro. Lui si avvicina a lei con estrema delicatezza, forse l’ha riconosciuta, dopotutto è per lei che si è incarnato, ed anche lei sembra riconoscerlo, come fosse l’improvvisa materializzazione del suo interlocutore interno di cui si era fatta un’immagine, e così gli parla:
“Non sono mai stata solitaria, né da sola, ma mi sarebbe piaciuto in fondo essere solitaria, solitudine significa: finalmente sono tutto, ma adesso posso dirlo, perché oggi finalmente sono davvero sola. Bisognerà finirla prima o poi con il caso, non lo so se ci sia un fine, ma so che ci dev’essere una decisione. È necessario che tu ti decida, deciditi, ora il tempo siamo noi, e noi siamo più che due solamente, noi incarniamo qualcosa, è il mondo intero che prende parte alla nostra decisione. Ed eccoci sulla piazza del popolo, siamo qui noi due e l’intera piazza è piena di gente che si augura la stessa cosa che ci auguriamo noi, decidiamo noi il gioco per tutti. Non c’è storia più grande della nostra, quella mia e tua, dell’uomo e della donna. Sarà una storia di giganti, invisibili, riproducibili, sarà una storia di nuovi progenitori. Guarda i miei occhi, sono l’immagine della necessità, del futuro di tutti sulla piazza. La notte scorsa ho sognato qualcuno, uno sconosciuto, il mio uomo. Soltanto con lui potevo essere sola e aprirmi a lui, aprirmi tutta, avvolgerlo con il labirinto della comune beatitudine. Io lo so, sei tu quello.”
Posto a conclusione di tutto il film, questo discorso stupefacente, in cui è la parola all’altro che parla di sé attraverso la donna, racchiude una ricchezza di contenuti mistico-erotico-spirituali che meriterebbero un intero volume. Qui mi limito a toccare brevemente il tema della solitudine nella relazione d’amore. Che può sembrare una contraddizione, ma non lo è se la intendiamo con l’intelligenza del cuore. Come ha fatto Wenders, che si è ispirato a Rilke per comprendere gli angeli in chiave moderna; come ho fatto io nel 2010 con diversi altri autori in Angelicamente. Il senso dell’angelo nel nostro tempo; e come hanno fatto due grandi interpreti della psicoanalisi contemporanea: Hillman e Recalcati. Per Hillman, la solitudine non è soltanto una condizione negativa o un segno di isolamento, ma un'esperienza esistenziale profonda, di abbandono fiducioso, di religio, potenzialmente creativa. Anche per Recalcati la solitudine è una deep experience, perché legata al vuoto costitutivo dell’essere umano, che può manifestarsi come mancanza dolorosa o come risorsa preziosa, capace di aprire alla crescita, al desiderio e alla connessione autentica. È questa seconda modalità di vivere il vuoto interiore che predispone all’incontro.
L’incontro, per lo psicoanalista italiano, è sempre qualcosa di straordinario che dà forma alla vita, la trasforma e le dà senso. Per questo si presenta come uno spartiacque tra un prima e un poi, che non può avvenire con il simile, ma solo con il diverso. “L’incontro - dice l’autore - è nell’ordine dell’evento e l’evento è nell’ordine dell’imprevisto, dell’impossibile che diventa miracolosamente possibile”. Condivido pienamente questa visione, ma aggiungo un elemento che ritengo importante, anche per averne fatto esperienza con gli incontri che hanno cambiato la mia vita. Richiamandomi a Jung, l’incontro autentico è sempre un caso che non viene a caso, perché rientra nelle trame delle corrispondenze sincronistiche di nessi acausali, a forti valenze affettive, che costellano l’esistenza umana di coincidenze cariche di significato.
Da questa prospettiva discende un’immagine della solitudine molto diversa da quella radicata nella sua più comune modalità di esperirla, che comunque non va negata, né evitata. Si tratta di collocare il dolore della perdita e della separazione non nell’esserne oggetto passivo, ma soggetto consapevole: soggetto della propria ferita e della propria solitudine. In questo caso può accadere qualcosa di sorprendente: salta il sigillo che teneva chiuso lo scrigno dell’identificazione monadica, e l’uno scopre di essere due. Non solo perché diviso, ma perché porta in sé la memoria del suo contrario gettato insieme (symballein): “Che cosa simboleggia la ferita se non la condizione di alterità con se stesso che mantiene l’uomo perennemente aperto a quell’altro da sé che è a lui consustanziale?” (Montefoschi).
Aprendosi maggiormente, il taglio diventa beanza e ferita che guarisce l'anima. È In questa accezione che va compreso il “labirinto della comune beatitudine” evocato dalla protagonista del film all’ex angelo. Beatitudine e beanza sono correlate dalla stessa radice etimologica, ma con sfumature diverse riguardo alla felicità, più spirituale la prima, più terrena la seconda. Lacan l’ha chiamata jouissance e l’ha rubricata nel Reale, in quanto eccesso di godimento mai completamente appagabile, né simbolizzabile. Anche Hillman ha percepito la potenza travolgente della jouissance, ma l’ha attribuita a Venere come pienezza estetico-immaginale, che non può che essere di natura erotica, potenzialmente patologica solo se viene letteralizzata.
Come raccoglimento devoto intorno alla propria mancanza, la solitudine non è solo l’unico bene che abbiamo, fatto di "assenza", sostanza divina di prim’ordine, ma è il fondamento del desiderio dell’Altro che ci trascende e ci differenzia, e quindi dell’amore nella sua interezza. D’accordo che il desiderio dell’Altro, come ci ricorda Lacan, è anche desiderio del suo desiderio, cioè di essere desiderati, che è considerato il piacere più grande, ma bisogna stare attenti a non restare fissati a questo piacere, altrimenti si vanifica il progetto rivoluzionario, erotico-conoscitivo e destinale, insito nella freccia di Eros: quello del cambiamento radicale di vita. L’amore non sta nell’essere amati, per quanto piacere ci possa procurare, ma nell’amare. Come ci ricorda ancora Silvia Montefoschi: “L’amore è l’amare infinito del soggetto amante”.

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