05/11/2025
Ho spiegato con questa storia la legge Basaglia ai miei alunni, e credo che la ricorderanno tutta la vita.
❤️❤️❤️❤️❤️❤️❤️❤️❤️❤️❤️❤️❤️❤️❤️❤️❤️Quando Franco Basaglia varcò per la prima volta la soglia di un manicomio, ebbe la sensazione di entrare in un luogo fuori dal mondo.
L’aria sapeva di disinfettante e di resa.
Le finestre erano sbarrate, le voci spente, gli sguardi assenti.
Dietro le grate, centinaia di uomini e donne sedevano immobili, sedati, dimenticati.
Non c’era cura. C’era solo custodia.
Era l’Italia degli anni Cinquanta, un Paese che nascondeva la follia come una vergogna.
Nei manicomi finivano i malati mentali, ma anche i poveri, le donne ribelli, gli alcolisti, chi non aveva famiglia o voce.
Entrare era facile.
Uscire, quasi impossibile.
Basaglia, giovane psichiatra veneziano, formato alla rigida scuola della medicina, capì subito che nulla di ciò che aveva studiato serviva lì dentro.
«Non si può curare chi è privato della libertà», disse.
Da quel giorno iniziò la sua battaglia.
Una battaglia contro le catene, ma soprattutto contro l’indifferenza.
Nel 1961, quando fu nominato direttore del manicomio di Gorizia, trovò un inferno istituzionale: uomini legati ai letti, donne rinchiuse in stanze vuote, corpi trattati come oggetti.
E fece ciò che nessuno aveva mai osato fare: aprì le porte.
Tolse i lucchetti. Abolì le camicie di forza.
Eliminò le punizioni.
Fece togliere i numeri dalle celle e li sostituì con i nomi.
Permise ai pazienti di parlare, di votare, di scegliere.
Non erano più “internati”: tornavano a essere persone.
Molti lo considerarono un visionario pericoloso.
La stampa lo derise, i colleghi lo isolarono.
Ma lentamente, Gorizia cambiò volto.
I malati ricominciarono a ridere, a lavorare, a riconoscersi.
Il manicomio diventò una comunità aperta, un esperimento che cominciava a somigliare alla libertà.
Poi arrivò Trieste.
Nel vecchio ospedale psichiatrico di San Giovanni, Basaglia portò la sua rivoluzione alle estreme conseguenze.
Le sbarre sparirono, nacquero laboratori, teatri, caffè.
Gli ex internati diventavano cittadini attivi, lavoravano, dipingevano, cucinavano, suonavano.
Era la prova che la malattia mentale non distruggeva la dignità, ma solo la solitudine la rendeva insopportabile.
Da quell’esperienza nacque la Legge 180 del 1978, la Legge Basaglia, che chiuse per sempre i manicomi e istituì i servizi di salute mentale pubblici.
Un atto di civiltà senza precedenti: l’Italia fu il primo Paese al mondo a riconoscere che la malattia non annulla i diritti.
Basaglia non lavorava da solo: accanto a lui c’erano medici, psicologi, infermieri, artisti, filosofi.
Ma fu lui a tenere accesa la fiamma, a ricordare che curare non significa solo guarire, ma restituire umanità.
Morì nel 1980, a soli 56 anni.
Poco dopo che la sua legge divenne realtà.
Non vide i frutti della sua rivoluzione, ma ciò che lasciò continua ancora oggi in ogni centro di salute mentale, in ogni casa-famiglia, in ogni medico che sceglie di ascoltare prima di giudicare.
Basaglia ripeteva una frase semplice, disarmante, che racchiudeva tutta la sua visione:
“La libertà è terapeutica.”
Non era uno slogan. Era una diagnosi.
Perché nulla guarisce più della fiducia, e nulla distrugge più dell’abbandono.
Da un uomo che osò guardare dentro la follia senza paura, l’Italia imparò a guardare dentro se stessa.
E a capire che la vera malattia non è nella mente di chi soffre,
ma nel cuore di una società che preferisce rinchiudere invece di comprendere.
𝗩𝗶𝗮𝗴𝗴𝗶𝗼 𝗻𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗦𝘁𝗼𝗿𝗶𝗮