02/05/2025
Oggi ero in una scuola media di Copertino.
Alla fine dell’incontro, nel classico momento delle domande, dopo i soliti bigliettini piegati e un po’ timidi, alza la mano lei.
Occhiali grandi, occhi azzurri fermi, colpi di sole rossi tra i capelli, maglietta nera con il nome di una band rock che non avevo mai sentito e che – puntuale – ho già dimenticato.
Niente foglietti, niente esitazioni.
Solo una domanda nata lì, sul momento, mentre mi ascoltava parlare.
“Mi scusi, ma perché dobbiamo per forza diventare qualcosa?”
“Come scusa?”
“Sì, sembra che per esistere dobbiamo per forza diventare, che ne so, un muratore, un falegname, un avvocato… qualsiasi cosa. Ma perché?”
La guardo meglio. Controllo. Sì, ha tredici anni.
Si chiama Alessia.
E in quell’istante, capisco che Alessia ha già colto qualcosa che a me sfugge ancora, ogni tanto.
Che viviamo in un mondo dove sei qualcuno solo se fai qualcosa.
Se produci, se ti definisci, se metti una targhetta davanti al tuo nome.
Ma se semplicemente sei, allora non basti mai.
Ci insegnano a chiederci “cosa vuoi diventare?”, mai “chi sei davvero?”.
Ci abituano a pensare che per meritare uno sguardo, un ascolto, un posto, dobbiamo dimostrare, salire, ottenere.
E così cresciamo convinti che, se non diventiamo “qualcosa”, rischiamo di restare invisibili.
Viviamo in un mondo che ci guarda solo se brilliamo, ci ascolta solo se urliamo, ci riconosce solo se facciamo.
Un mondo che ha fretta di definirci, di incasellarci, di darci un nome e archiviarci lì, per sempre.
Ma forse dovremmo imparare da Alessia.
A non starci.
A ribellarci quando ci vogliono chiudere in una definizione.
A difendere il diritto di non sapere ancora chi siamo.
Perché a volte, restare indefiniti è l’unico modo per restare - infiniti.