05/11/2025
Il cibo, a volte, diventa linguaggio del dolore.
Non sempre mangiare troppo, troppo poco o in modo caotico parla davvero di “cibo”.
Spesso parla di sopravvivenza.
Di un corpo che, un tempo, ha dovuto trovare da solo il modo per calmarsi, per sentirsi al sicuro, per non sentire troppo.
Chi ha vissuto esperienze di trascuratezza o di trauma sa quanto possa essere difficile fidarsi delle proprie sensazioni corporee.
Il corpo diventa un luogo confuso: manda segnali, ma non si sa più come interpretarli.
E allora si cercano strategie per regolare ciò che dentro è ingestibile.
Il cibo, in questo senso, può diventare una forma di “cura di emergenza”: qualcosa che calma, che distrae, che riempie.
Un modo — l’unico possibile in certi momenti — per mettere ordine nel caos interno.
Ma col tempo, quella stessa strategia può iniziare a funzionare sempre meno, lasciando la persona intrappolata tra bisogno e controllo, fame e colpa.
Il lavoro terapeutico serve proprio a restituire un linguaggio al corpo,
a imparare di nuovo a sentire senza esserne travolti.
Il vero cambiamento non passa dal controllo del cibo, ma dalla possibilità di riconoscere e accogliere ciò che il cibo, silenziosamente, sta cercando di dire.