19/10/2025
𝗥𝗢𝗦𝗦𝗔𝗡𝗔 𝗙𝗔𝗟𝗖𝗜𝗔𝗧𝗢𝗥𝗜: “𝗠𝗜𝗢 𝗠𝗔𝗥𝗜𝗧𝗢 𝗠𝗜 𝗛𝗔 𝗙𝗔𝗧𝗧𝗢 𝗥𝗜𝗡𝗖𝗛𝗜𝗨𝗗𝗘𝗥𝗘, 𝗠𝗔 𝗜𝗢 𝗘𝗥𝗢 𝗦𝗔𝗡𝗔 𝗖𝗢𝗠𝗘 𝗨𝗡 𝗣𝗘𝗦𝗖𝗘. 𝗧𝗥𝗘𝗡𝗧’𝗔𝗡𝗡𝗜 𝗜𝗡 𝗠𝗔𝗡𝗜𝗖𝗢𝗠𝗜𝗢 𝗣𝗘𝗥𝗖𝗛𝗘́ 𝗡𝗢𝗡 𝗢𝗕𝗕𝗘𝗗𝗜𝗩𝗢”.
“Mi chiamo Rossana Falciatori, sono nata nella primavera del 1942.
Oggi vivo in una casa di riposo a Castel di Guido, passo il tempo con qualche partita a carte, una passeggiata lenta nel giardino e i pensieri che tornano, ostinati, a quei trent’anni che mi hanno rubato la vita.
Trent’anni trascorsi rinchiusa nel manicomio di Santa Maria della Pietà, a Roma.
Avevo 22 anni quando varcai per la prima volta quel cancello.
Il motivo? Litigavo con mio marito.
Non ero pazza.
Non ero instabile, né violenta, né pericolosa.
Semplicemente, non gli andavo più bene.
Lui si era stancato di me e voleva togliermi di torno. Così, con la scusa della mia “nervosità”, firmò le carte. E io finii dentro.
Lì, tra quelle mura alte e fredde, non c’erano persone “malate”.
C’erano donne.
Donne troppo libere, troppo loquaci, troppo curiose, troppo vive per il tempo in cui erano nate.
Ricordo ancora l’odore del disinfettante, le urla lontane, le porte di ferro che si chiudevano a chiave.
Eravamo legate ai letti, spesso imbottite di sedativi, trattate come colpevoli, non come esseri umani.
Dentro al Santa Maria della Pietà c’erano 35 padiglioni, ognuno pieno di vite sospese.
Era come una città parallela, nascosta a Roma da muri che separavano “la normalità” dalla vergogna.
Avevo un figlio, Roberto.
Quando entrai lì, aveva cinque anni.
Non ho più rivisto il suo viso per mesi, poi anni.
Lui è cresciuto con i nonni, io con le sbarre alle finestre.
Quando racconta di me, dice: “Mamma non era matta. Ma allora bastava poco”.
E aveva ragione.
Non ero pazza, ma a forza di stare lì, ci diventi.
Ti convincono che lo sei, che non vali, che non esisti.
Ti strappano l’identità, ti svuotano piano.
Eppure, nonostante tutto, non mi sono mai arresa.
Non ho mai smesso di pensare che un giorno sarei uscita, che avrei raccontato tutto.
Oggi ho più di ottant’anni.
La mia voce è ferma, ma il cuore, quando ripenso a quegli anni, trema ancora.
Voglio che la mia storia serva a ricordare che la libertà, per una donna, non è mai stata un dono. È sempre stata una conquista”.
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La storia di Rossana Falciatori è una ferita ancora aperta nella memoria collettiva italiana.
Una storia di abusi silenziosi e istituzionalizzati, di un Paese che per decenni ha rinchiuso donne perfettamente sane nei manicomi solo perché ribelli, troppo vive, troppo indipendenti.
Il suo nome si unisce a quello di centinaia di altre donne internate per motivi che oggi sembrano inimmaginabili: “loquace”, “indocile”, “civettuola”, “gelosa”, “capricciosa”.
Erano queste le “diagnosi” che bastavano, durante il Ventennio fascista e anche nel dopoguerra, per giustificare un internamento.
In realtà, bastava non obbedire.
Non essere moglie come la società voleva.
Il manicomio di Santa Maria della Pietà, a Roma, era un mondo parallelo: 35 padiglioni, 150 ettari di dolore, migliaia di anime dimenticate.
Era la “città dei matti”, come la chiamavano, ma spesso i veri folli erano quelli fuori, quelli che avevano deciso che la diversità andava rinchiusa.
Rossana aveva solo 22 anni quando venne portata lì.
Un marito che “voleva liberarsene”, un certificato medico compiacente, e la sua vita cambiò per sempre.
Trent’anni cancellati, trent’anni di silenzio, sedativi, letti di ferro e finestre chiuse.
Una donna sana, privata della sua dignità e del suo diritto di esistere.
È difficile, leggendo la sua storia, non pensare alla legge Basaglia del 1978, che finalmente abolì i manicomi e restituì umanità a migliaia di internati.
Ma Rossana era già dentro da tempo.
E anche dopo la chiusura dei cancelli, la sua libertà è arrivata tardi — alla soglia dei sessant’anni.
“Non ero pazza, ma a forza di stare lì ci diventi”, ha detto.
Una frase che pesa come una sentenza su un intero secolo di vergogna.
Oggi Rossana cammina lentamente in un giardino, sorride alle compagne di casa di riposo, e ogni tanto racconta.
Racconta per non dimenticare.
Perché dietro ogni muro, ogni camicia di forza, ogni diagnosi frettolosa, c’era una donna che chiedeva solo di essere ascoltata.
E in quelle parole — “io ero sana come un pesce” — c’è tutta la condanna di una società che, pur di non sentire, ha preferito chiudere la porta.