04/09/2025
La piazza vuota e l’anima inquieta: l’agorafobia in chiave psicodinamica
L’agorafobia, spesso descritta come la “paura degli spazi aperti” o dei luoghi affollati, è molto più di un semplice timore fisico. È una condizione complessa che affonda le sue radici nelle profondità della psiche umana, un sintomo che ci parla di un conflitto interiore. Vederla solo come una reazione a un luogo specifico è come guardare la punta di un iceberg. Per capirla veramente, dobbiamo immergerci nelle acque della psicodinamica.
La paura di perdere il controllo: un conflitto tra io e mondo esterno
La prospettiva psicodinamica, erede della tradizione freudiana, vede l’agorafobia come l’espressione di un’ansia profonda legata alla separazione e alla perdita di controllo. Non è il luogo a essere spaventoso in sé, ma la sensazione che in quel luogo, lontano da un ambiente protetto e sicuro, la persona possa perdere il controllo su se stessa.
Secondo Melanie Klein, l’ansia che si manifesta nell’agorafobia potrebbe essere collegata a un conflitto inconscio tra impulsi aggressivi e difese. L’individuo, temendo di non riuscire a contenere le proprie pulsioni distruttive, proietta questa paura all’esterno, sui luoghi. La sicurezza della casa o di una persona fidata (la “base sicura”) diventa l’unica barriera contro questa minaccia interna.
Un altro autore fondamentale è Donald Winnicott. La sua teoria del “falso sé” e dell’importanza di un ambiente di holding (un ambiente che “contiene” e supporta) ci offre una chiave di lettura preziosa. L’agorafobico potrebbe aver sviluppato un falso sé, ovvero una maschera che usa per adattarsi alle aspettative altrui, non avendo avuto la possibilità di sviluppare un vero sé autentico. La crisi agorafobica può scoppiare quando questo falso sé, debole e fragile, è messo alla prova in un ambiente dove non si sente “contenuto”. Il mondo esterno diventa un luogo insostenibile, percepito come un ambiente non sufficientemente accogliente o “holding”.
Il sintomo come linguaggio: cosa ci vuole dire l’agorafobia?
Il sintomo, in psicodinamica, non è mai fine a se stesso. È un linguaggio, un segnale che il nostro inconscio ci invia. L’agorafobia ci parla di:
Conflitto tra dipendenza e autonomia: L’agorafobico può avere un forte bisogno di dipendenza, ma allo stesso tempo teme di essere abbandonato o di non essere in grado di funzionare in modo indipendente. L’ansia legata agli spazi aperti è la cristallizzazione di questo conflitto.
Paura dell’abbandono: La sensazione di essere in un luogo vasto e indifferenziato può evocare una profonda angoscia di abbandono, riflettendo magari esperienze infantili di insicurezza o di mancato accudimento.
Regressione: In momenti di forte stress, la persona può regredire a stati più primitivi dell’Io, dove l’ansia di separazione è predominante. Il rifugio nella propria casa è un modo per ricreare un utero simbolico, un luogo in cui ci si sente completamente protetti.
Il lavoro terapeutico, in quest’ottica, non si concentra sulla “cura” del sintomo in sé, ma sulla sua comprensione. L’obiettivo è esplorare le radici profonde dell’ansia, dando voce a ciò che non può essere detto apertamente. Attraverso l’analisi della relazione transferale (la relazione che si instaura tra paziente e terapeuta), l’individuo può rielaborare i conflitti irrisolti, ricostruendo un senso di sé più solido e meno dipendente da un ambiente esterno che “protegge”.
L’agorafobia è un grido silenzioso dell’anima, un invito a guardare al di là del sintomo per scoprire ciò che si nasconde nel profondo. Non è la paura di una piazza, ma la paura di ciò che quella piazza ci costringe a sentire di noi stessi: l’essere soli, vulnerabili e, in qualche modo, irrisolti. Riconoscerlo è il primo passo verso la liberazione.