03/11/2025
L’ultimo libro di Lidia Ravera, Volevo essere un uomo, nel raccontare delle battaglie vinte e quelle ancora da vincere del femminismo, porta nell’ultima parte, il riflettore di Sontag nel presente e lo piazza all’altezza degli zigomi: il doppio standard dell’invecchiamento resta appiccicato alla pelle come una targhetta. Non è un atto d’accusa contro gli uomini; è un processo al dispositivo culturale che li promuove d’ufficio e, insieme, una carezza ruvida alle donne costrette a pagare ancora il dazio dell’apparire. Ravera riprende la diagnosi di Sontag e la aggiorna con una formula chirurgica: il “nuovo vecchio”. La Ravera narra della sua esistenza e di quanto la sottaciuta fantasia di voler essere un uomo, sia presente anche nella terza età. Ennesimo momento della vita in cui le donne sono costrette ad essere la definizione fornita dal genere dominante.
Il “nuovo vecchio” è un’invenzione sociale con timbro dorato: il corpo maschile è dato “forte” per presupposto, non per prova. La cultura gli consegna una patente preventiva di adeguatezza, valida per il terzo e quarto tempo della vita. La coetanea, invece, deve obliterare il biglietto a ogni tornello: allo sportello dell’accesso sociale, l’addetta controlla la scadenza del viso. Qui entra in scena Simone de Beauvoir, ricordandoci che «donna non si nasce, lo si diventa» (1949): se il femminile è prodotto storico, allora anche la sua vecchiaia è un copione, non un destino. E il copione, spesso, assegna ruoli diseguali: «l’uomo è il Soggetto; la donna è l’Altro». Nella grammatica dell’età, a lui resta la prima persona singolare; a lei la dipendenza dallo sguardo.
Ravera smonta l’economia degli sguardi: lui che continua a “scegliere”; lei che viene scelta dentro un mercato a offerta decrescente. Judith Butler ci offre la chiave del meccanismo: «il genere è la ripetuta stilizzazione del corpo» (1990). Se il genere è performance regolata, l’auto-sorveglianza estetica non è vanità ma addestramento: interiorizzi il metro che ti misura e te lo applichi da sola. Il risultato è un diritto di parola maschile senza scadenza — pure quando il corpo scricchiola — e una parte muta consegnata alla coetanea, spesso confinata alla mansione fantasma della “bella presenza”.
Il lessico è rivelatore. “Uomo di panza” suona come onorificenza; “ganzo” come lasciapassare. La vecchiaia maschile si presta alla commedia (brontolone, vedovo consolabile, eterno sciupafemmine); quella femminile scivola nella tragedia dell’apparenza: crolla la scenografia appena la maschera molla. Naomi Wolf ha chiamato tutto questo con nome e cognome: «Il mito della bellezza non parla di bellezza: detta comportamenti» — e ancora, tagliente come una lametta — «la dieta è il sedativo politico più potente nella storia delle donne» (1990). Non estetica, dunque, ma governo dei corpi.
Poi c’è la scena privata in cui le donne sono sottoposte al barometro domestico del valore: conto se sono vista; non conto se sono sola. Così il doppio standard trapassa le generazioni non come editto, ma come cadenza affettiva. Ravera, qui, non rassegna i conti: scuce le cuciture. Se il “nuovo vecchio” è stato fabbricato da media, mercati del benessere e mitologie del leader eterno, può essere anche disassemblato. Non per invertire i privilegi, ma per riequilibrare frizione e libertà. Invecchiare torna ad essere un tempo aggiuntivo, non un esame d’ammissione.
Sotto la prosa scintillante c’è una tesi semplice e radicale: la maturità femminile non è un problema biologico, è una cornice culturale. E le cornici si cambiano senza perdere il quadro; spesso lo salvano. Lavoro da fare? Sì, ma con strumenti già in casa: un linguaggio che valorizzi l’essere, platee che redistribuiscano l’attenzione, sguardi che smettano di chiedere giovinezza come documento d’identità.
Quattro mosse operative:
1. Diritto alla faccia vissuta. Non “accettarsi” come impresa eroica, ma smettere di chiedere scusa al proprio volto. Le rughe non sono “se”; sono “e”.
2. Redistribuire i complimenti. Sposta il focus: da “stai benissimo” a “parli benissimo”, da “sei uguale a vent’anni fa” a “sei più interessante di vent’anni fa”. Il linguaggio costruisce biologia sociale.
3. Rallentare lo specchio. Prima di uscire: una pagina letta, cinque righe di diario, una telefonata a chi allarga il mondo. L’io che esce vive di senso, non solo di lucido.
4. Ecologia delle platee. In panel, cene, riunioni: chi parla? chi ascolta? chi fa da scenografia? Non è galateo: è politica dell’attenzione.