11/11/2025
LA LUCE DELLE STELLE MORTE — MASSIMO RECALCATI E IL LAVORO INFINITO DEL LUTTO
E se il lutto, diversamente da ciò che pensava Freud, non potesse mai dirsi compiuto del tutto?
Se ogni lutto, anche quello più elaborato, più “accettato”, conservasse sempre un resto, una scheggia, un punto dolente che continua a pulsare dentro di noi?
Ho sempre pensato che esista qualcosa di irriducibile nel dolore della perdita, una ferita che non guarisce mai del tutto.
Possiamo provare a rimarginarla, a darle un senso, ma resta sempre lì: come una cicatrice che, al cambiare del tempo o delle stagioni, torna a farsi sentire.
Freud chiamava lavoro del lutto quel processo psichico che ci consente di sciogliere l’investimento affettivo verso ciò che abbiamo perduto per poterci aprire di nuovo alla vita.
Ma se questo lavoro non potesse mai arrivare alla fine?
Se fosse, piuttosto, un cammino senza approdo, un gesto interminabile, come respirare o amare?
Forse dovremmo accettare che il lutto non è qualcosa che si supera, ma qualcosa che si trasforma.
Che dentro di noi non muore mai davvero ciò che abbiamo amato: cambia forma, si riconfigura, diventa un’altra presenza.
È un’operazione di metamorfosi, un’opera interiore di trasformazione del dolore in significato, della perdita in creazione.
Il lutto, se resta senza lavoro, ci incatena al passato, ci condanna alla paralisi della malinconia.
Ma se trova una via, se riesce a generare senso, allora può aprirci di nuovo alla vita.
È qui che nasce una nuova forma di nostalgia — non quella sterile del rimpianto, ma quella grata, viva, che illumina come la luce delle stelle morte:
una luce che ci raggiunge da un corpo che non esiste più, ma che continua a splendere.
La nostalgia delle stelle morte è questo: la memoria che non spegne, ma accende;
il dolore che non distrugge, ma trasforma;
il passato che non ci trattiene, ma ci invita ad andare avanti.
Il lutto, allora, non è mai solo perdita.
È anche promessa.
È un ritorno di luce — quella che proviene da ciò che abbiamo amato, e che, anche se non c’è più, continua a mostrarci la via.
⸻
In queste righe straordinarie, Massimo Recalcati compie un atto di filosofia poetica e di psicologia umana: ridefinisce il lutto non come un compito da portare a termine, ma come un movimento eterno dell’anima.
L’idea freudiana del “lavoro del lutto” — un processo di separazione e di superamento — qui si rovescia in una prospettiva più profonda, quasi spirituale: il lutto non finisce, continua a vivere dentro di noi.
Non come peso, ma come energia trasformativa.
La perdita, dice Recalcati, non si cancella mai davvero.
Ma può essere trasfigurata.
Può generare valore, riconfigurare la nostra visione del mondo, persino accendere nuova vita.
La sua metafora della luce delle stelle morte è un’immagine potentissima: ciò che non c’è più continua a brillare, a parlarci, a orientare il nostro cammino.
Non è più un ritorno nostalgico verso ciò che è stato, ma un modo per vivere più intensamente ciò che ancora ci resta.
In tempi in cui la società sembra chiedere di “riprendersi in fretta”, di “voltare pagina”, Recalcati ci invita invece a rimanere — ad abitare il dolore, ad ascoltarlo, a farlo diventare parola, opera, gesto, creazione.
Perché il vero lavoro del lutto non è dimenticare,
ma riconoscere la luce che ancora brilla —
anche quando la stella è già spenta.