28/11/2025
𝐄𝐍𝐃𝐄𝐌𝐈𝐂𝐇𝐄 𝐒𝐎𝐋𝐈𝐓𝐔𝐃𝐈𝐍𝐈
Viviamo in quella che il sociologo Zygmunt Bauman ha definito “modernità liquida”, un'epoca in cui anche i legami affettivi sembrano sciogliersi tra le dita come acqua. In questa cultura del provvisorio e della sostituibilità, la solitudine non è più una condizione eccezionale: è diventata una scelta difensiva, una norma non scritta.
E in questo fluire continuo abbiamo imparato una strategia di sopravvivenza: il distacco. Lo chiamiamo indipendenza, maturità, equilibrio. Ma se ci guardiamo dentro con onestà, spesso è semplicemente paura travestita da saggezza.
Perché amare significa aprirsi, e aprirsi significa poter essere 𝐟𝐞𝐫𝐢𝐭𝐞. Ancora. Di nuovo.
Dopo troppi addii, troppe promesse disattese, troppi silenzi dove speravamo parole, il nostro sistema emotivo ha fatto ciò che sa fare meglio: ha innalzato barriere. Muri invisibili ma solidissimi, costruiti mattone dopo mattone con ogni delusione, ogni tradimento, ogni volta che abbiamo pensato: “Non mi succederà più”.
Così riduciamo il volume del cuore. Comprimiamo i desideri fino a farli diventare sussurri. Restiamo in superficie nelle relazioni: è l'unico luogo in cui, almeno, non si affoga.
Temiamo il peso della responsabilità affettiva, nostra quanto altrui. E per evitare ciò che è scomodo, siamo veloci ad attribuire l’aggettivo “tossico” a tutto ciò che richiederebbe un vero sforzo di comprensione e di presenza.
Eppure, i bisogni non scompaiono perché li ignoriamo. Continuano a muoversi sotterranei, emergendo come pretese non dette, aspettative silenti, risentimenti inspiegabili.
Li proiettiamo sull’altro senza nominarli, aspettandoci che intuisca ciò che noi stesse non abbiamo il coraggio di riconoscere. E quando l’altro inevitabilmente fallisce nel soddisfare bisogni che non ha mai conosciuto, la distanza cresce, confermando la convinzione che sia più sicuro non chiedere nulla a nessuno.
Evitiamo conversazioni che smuoverebbero qualcosa di profondo. Rifiutiamo abbracci che potrebbero sciogliere le nostre difese.
Perché è stata proprio la vicinanza, vissuta in passato senza centratura, che ci ha ferite così profondamente.
👁️🗨️ La fame di vicinanza, però, non scompare: si sposta.
Nelle vite degli altri entriamo attraverso gli schermi, dove tutto è controllabile, modificabile, silenziabile. Osserviamo voracemente persone che piangono, si raccontano, espongono la loro vulnerabilità in forma digitale. Saziamo così un bisogno voyeuristico di intimità senza correre il rischio di esporci a nostra volta.
Ma nella vita reale i nostri sguardi diventano sfuggenti, come se guardarsi davvero negli occhi fosse un pericolo.
È così che consolidiamo la distanza: scegliendo la sicurezza del muro, invitiamo l’altro a fare lo stesso. L’isolamento si autoalimenta, diventando la nostra realtà endemica.
Eppure, in questa solitudine che chiamiamo stabilità, qualcosa continua a bussare.
È quel senso di vuoto che non si riempie con nessuna distrazione. È la nostalgia di un’intimità che non abbiamo più il coraggio di cercare. È il corpo che si irrigidisce quando qualcuno si avvicina troppo, emotivamente o fisicamente. Sono segnali preziosi: il nostro sistema emotivo comunica attraverso il respiro bloccato, la tensione nella mandibola, il nodo nella pancia.
Le ferite non sono nemiche da nascondere: sono maestre. Mostrano esattamente dove dobbiamo tornare, e lavorare con compassione e cura. Ogni difesa che abbiamo costruito nasconde un bisogno ancora vivo, pulsante, degno di essere onorato.
𝐋’𝐨𝐛𝐢𝐞𝐭𝐭𝐢𝐯𝐨 𝐧𝐨𝐧 è 𝐚𝐧𝐞𝐬𝐭𝐞𝐭𝐢𝐳𝐳𝐚𝐫𝐞, 𝐦𝐚 𝐫𝐚𝐝𝐢𝐜𝐚𝐫𝐞 𝐥𝐚 𝐟𝐨𝐫𝐳𝐚.
Quando lavoriamo alla connessione con noi stesse, quando trasformiamo le ferite, sviluppiamo una forza interna capace di sostenere qualsiasi cosa arrivi.
È solo da questa centratura e consapevolezza che possiamo permetterci la vera vicinanza. Non saremo più costrette a vivere in solitudini difensive, perché avremo il coraggio di vivere appieno, accogliendo esperienze intense, che siano di gioia, amore o dolore, con la certezza che, se arriverà sofferenza, non ci distruggerà.
📌 Inizia da qui: porta attenzione a dove senti chiusura. Nota quando eviti, quando ti ritiri, quando scegli il controllo invece della presenza. Non per giudicarti, ma per comprendere.
Ogni volta che percepisci una difesa attiva, fermati. Metti una mano sul cuore o sulla pancia — il luogo in cui senti la chiusura — e pronuncia, anche solo nella mente:
“Ti vedo. Ti accolgo. Sei al sicuro anche qui.”
Stai dando alla ferita, alla parte spaventata, il permesso di esistere senza dover combattere.
Poi, con gentilezza, prova a rimanere. Anche solo un respiro in più dentro quella sensazione difficile: è un atto d’amore verso te stessa, un gesto di ricongiungimento con la tua Bambina Interiore ferita e adattata. Piccoli atti di coraggio e di presenza, uno dopo l’altro, ci restituiscono alla pienezza della vita, capaci di autoregolarci.
❓Perché la domanda da farti non è “come posso evitare di soffrire ancora?”, ma:
“Come posso smettere di temere l’intensità della vita e tornare a sentirmi viva?”
La risposta è già dentro di te. Vive nelle tue difese, nei tuoi desideri compressi. Aspetta solo che tu abbia il coraggio di ascoltarla.
Scoprirai che l’indipendenza affettiva non significa chiudersi, ma sapersi incontrare senza perdersi.
Non è erigere muri, ma imparare a non fonderti nell’altro.
Non è rinunciare alla vicinanza, ma renderla possibile senza la paura di scomparire assorbita.
È così che la solitudine protettiva smette di essere l’unica strada.
Perché, quando torni a te stessa, quando lavori al tuo radicamento interiore, puoi finalmente aprirti al mondo senza sentirti in pericolo né elemosinare sicurezze.
Un abbraccio,
Claudia F, Life & Emotional Coach, Holistic Operator in Action per una vita Drama Free 🦋
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