28/11/2025
*Streaming e disabilità cognitiva: moderni, sì… ma non per tutti*
In un mondo che cambia alla velocità con cui Netflix cancella una serie dopo la prima stagione, ci piace pensare che la tecnologia sia “per tutti”. Una specie di promessa democratica: apri l’app, scegli cosa guardare, premi play e… magia. Ma quando si parla di disabilità cognitiva, questa magia si inceppa. E le grandi piattaforme — Netflix, Prime Video, Disney+ — mostrano tutti i loro limiti dietro al luccichio del marketing inclusivo.
Partiamo da una verità semplice: l’accessibilità non è un optional, è un dovere. Eppure la maggior parte dei servizi streaming la tratta come un’aggiunta cosmetica, buona giusto per mettere una spunta nel comunicato aziendale. Sottotitoli? Ci sono. Audiodescrizioni? Ottimo. Interfacce compatibili con screen reader? Anche.
Ma attenzione: tutto questo funziona soprattutto per chi ha difficoltà sensoriali.
La disabilità cognitiva è un altro pianeta.
E queste piattaforme, quel pianeta, ancora non lo conoscono.
Navigare su Netflix o Prime con un deficit cognitivo può somigliare a un labirinto dall’illuminazione pessima. Ti ritrovi davanti a un carico eccessivo di contenuti, trailer che partono da soli, categorie che cambiano in base a un algoritmo che sembra avere la personalità di un gatto lunatico, descrizioni non sempre chiare, trame complesse, informazioni sparse e zero strumenti di semplificazione.
Insomma, non proprio il massimo per chi ha difficoltà di memoria, attenzione, comprensione del linguaggio o elaborazione delle informazioni.
E qui sta il problema vero: le piattaforme trattano l’“accessibilità” come qualcosa di tecnico, non cognitivo.
Come se bastasse leggere lo schermo per capire la storia. Spoiler: non basta.
La fruizione dei contenuti richiederebbe altro:
linguaggio semplificato;
interfacce pulite e prevedibili;
percorsi guidati;
possibilità di “modalità facile” sul contenuto, non solo sul player.
E invece? Nulla.
Abbiamo interfacce brillanti, ultradinamiche, piene di animazioni — insomma, tutto ciò che a una persona con difficoltà cognitive può creare più confusione che aiuto.
La verità è che le piattaforme non hanno ancora capito che l’accessibilità cognitiva non è un dettaglio, è il prossimo grande passo.
Perché quando una tecnologia è davvero inclusiva, funziona anche meglio per tutti: più semplice, più chiara, più umana.
Nel frattempo, chi ha una disabilità cognitiva si arrangia come può: scegliendo contenuti più semplici, usando la pausa come scialuppa di salvataggio, affidandosi a familiari o operatori, o ricorrendo — quando va bene — a contenuti pensati per ragazzi.
Un rattoppo, non una soluzione.
Il futuro?
Dovrà per forza passare per interfacce più intelligenti, adattive, capaci di riconoscere bisogni diversi. Dovrà includere categorie di contenuti più accessibili, strumenti di semplificazione e percorsi visivi più chiari.
Non perché sia “carino farlo”, ma perché è giusto. E perché un servizio davvero moderno non può permettersi di lasciare indietro nessuno.
Perché alla fine l’inclusione non è un bonus: è l’unico modo in cui la tecnologia può dirsi davvero civile.