29/11/2025
Quando una famiglia è attraversata da un lutto, e ancor più da un lutto traumatico, il trauma psichico apre una ferita che ha bisogno di essere custodita, non esibita. L’apparizione della notizia sui social – spesso accompagnata da foto, dettagli, commenti – produce quello che potremmo chiamare un feticismo collettivo del dolore: l’evento traumatico viene “consumato” dagli altri come oggetto visibile, quasi come un frammento strappato all’intimità dei familiari.
Questo sguardo pubblico funziona come un feticcio: dissocia l’immagine dal significato, separa il fatto dalla tragedia psichica, permettendo agli spettatori di guardare senza sentire. Ma per la famiglia è l’opposto: l’immagine li invade, li violenta, li espone. Ciò che dovrebbe essere custodito nel segreto del cordoglio viene trasformato in una scena aperta, che aumenta l’impotenza, la colpa, lo smarrimento.
Il lutto richiede contenimento; la rete offre eccitazione, circolazione.
Il lutto richiede silenzio; la rete produce rumore.
Il lutto richiede riguardo; il feticismo digitale produce violazione.
Per questo l’esposizione della notizia del lutto sui social è traumatica due volte:
prima colpisce chi muore, poi strappa ai vivi il diritto di elaborare.
In termini psichici, è come se la comunità proiettasse sull’immagine del defunto la propria angoscia di morte, la propria curiosità morbosa, lasciando alla famiglia il peso insostenibile di dover contenere anche l’angoscia degli altri, oltre alla propria.