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**Quei ragazzi dentro un vicolo cieco: torniamo a dare forza al pensiero.**I recenti fatti accaduti nelle piazze toscane...
27/02/2024

**Quei ragazzi dentro un vicolo cieco: torniamo a dare forza al pensiero.**

I recenti fatti accaduti nelle piazze toscane di Pisa e Firenze hanno sollecitato in alcuni psicologi analisti toscani una riflessione attorno alle immagini viste e sulla valenza simbolica di quanto accaduto.
Proponiamo due frammenti di pensiero, che vogliono costituire l’inizio di un percorso che possa stimolare una maggiore riflessione collettiva.

**QUEI RAGAZZI DENTRO UN ‘VICOLO CIECO’**
di Simona Massa Ope

Pisa, venerdì 23 febbraio 2024. Un gruppo di liceali, minorenni, sfila in corteo per una manifestazione pacifica pro-Palestina. Camminano verso l’imbocco di piazza dei Cavalieri. Sono attesi da un pattugliamento delle forze dell’ordine:

“Gli scudi che spingono, le manganellate che partono a casaccio sugli studenti pacifici, senza aste né caschi, senza nulla. … perfino dagli edifici accanto qualcuno si affaccia per urlare di fermarsi. Una carica disordinata contro gli studenti pro-Palestina a protezione della piazza dei Cavalieri dove c’è la sede centrale dell’ateneo di Pisa… ancora una volta negli ultimi tempi – solo venerdì è accaduto anche a Firenze e Catania – un corteo finisce con un blocco, questa volta per giunta in una via stretta…”. (di F.Q.)

Su questa immagine pongo la mia attenzione e il mio sguardo, sulla via stretta, presto trasformata in un vicolo cieco dalla carica della polizia.
J. Hillman, autore post-junghiano della teoria delle immagini, scrive: “L’immagine può sorgere da qualsiasi forma d’arte o da qualsiasi cosa accada” (in L’ultima immagine, 2021).
In ciò che è accaduto, e che è sulla cronaca di tutti i giornali e dei media, è sorta un’immagine evidente per la mia sensibilità analitica, un’immagine che parla dell’infuturazione impossibile dei giovani che si affacciano alla vita. L’immagine è quella di un ‘vicolo cieco’.
Il presente storico rende difficile, per una ragazza e un ragazzo, immaginarsi progressivamente autonomi, immaginare di uscire dalla casa dei genitori, non solo come studenti fuori-sede ma come persone che vogliono scoprire la propria soggettività, abitare un luogo non condiviso con altri, immaginare un’occupazione che emancipi dalle dipendenze adolescenziali, dalle insicurezze esistenziali, immaginare di non dover migrare in altri paesi per vivere con sufficiente dignità, immaginarsi non sottoposti a un eccesso insostenibile di pressioni performative, a quel divario disperante tra ciò che la realtà rende possibile o impossibile e il f***e ideale di affermazione sociale e di successo che scongiuri il pericolo di sentirsi dei falliti; immaginarsi adulti, immaginarsi a propria volta genitori, padri e madri con dei figli da accudire e crescere; immaginare di poter realizzare il sogno di diventare se stessi, intraprendere una formazione congeniale alla propria aspirazione naturale; immaginare di non avere paura di ciò che viene incontro, dell’aria che respiriamo, delle cose che mangiamo, delle stagioni che non riconosciamo, della temperatura che sale, della terra crepata dalla siccità, della pioggia, del sole, del vento, di tutto questo che era semplicemente parte di noi e dei nostri giorni, e che ora è diventato o un’incognita o un incubo.
Il presente storico rende difficile immaginare di vivere in un mondo sconvolto dalle guerre, da conflitti irriducibili, da disuguaglianze sociali sempre più grandi, dalle minacce costanti di distruzione e di autoannientamento che aleggiano sulle nostre esistenze ad ogni latitudine del mondo. Rende difficile immaginare di vivere senza la bellezza della creazione, senza l’ineffabile esperienza della meraviglia, senza poter “abitare poeticamente il mondo”, come direbbe Christian Bobin. Come si può vivere, con la mente senza pace, in un mondo così danneggiato?
Come può in tutto questo infuturarsi un giovane, una giovane, ovvero estendere la propria esistenza oltre l’orizzonte immediato del presente, apprendere con speranza e fiducia il già, in se stesso, difficile, arduo, mestiere di vivere? Per loro il futuro è un vicolo cieco, una strada stretta, un imbuto esistenziale, dove una realtà matrigna blocca gli slanci delle passioni, dei valori sacrosanti da difendere, dove i manganelli della repressione, della castrazione e dell’impossibilità stroncano la forza di credere in un senso, in un significato che giustifichi lo sforzo e la fatica di crescere, di diventare grandi e responsabili del proprio futuro e della vita di altri esseri umani. Non a caso aumentano i comportamenti autolesionisti, i suicidi in età giovanile, le fragilità psichiche, le dipendenze tossiche, gli isolamenti in mondi virtuali ed emozionalmente asettici, la paura di vivere e di amare. A chi possono ispirarsi, queste figlie e figli, se gli adulti che li guidano, se la classe dirigente che guida il Paese non sanno apprendere dall’esperienza (la pandemia è passata invano, senza creare cambiamento, solo terrore compensato da scissioni e maniacalità), ma sanno solo coattivamente ripetere gli orrori già vissuti in un’inarrestabile pulsione di morte; a chi e a cosa possono credere, queste figlie e figli, se gli adulti non sanno scegliere la vita e investire risorse nella verde linfa della natura, da cui dipende ogni creatura esistente; se non sanno resistere, fermi come pilastri, a testimoniare i valori fondamentali di un’etica incrollabile dell’alterità.
Guardo l’immagine, vedo quelle ragazze e quei ragazzi, che in un venerdì del loro presente sono usciti insieme dalla loro scuola dove si parla d’arte, il linguaggio dell’anima: si sono organizzati in una piccola comunità, per dire, camminando verso la più famosa piazza di Pisa, che non vogliono la guerra, le stragi, le ingiustizie, che non vogliono la morte fine a se stessa, che non vogliono costituirsi come vittime sacrificali della nostra adulta, irresponsabile incoscienza, che vogliono credere in un futuro dove sia possibile anche la gioia. E sono finiti in un vicolo cieco.
Come possiamo trasformare la sofferenza di questa immagine e le brutture del presente?

**TORNIAMO A DARE FORZA AL PENSIERO**
di Andrea Cadoni

I fatti recentemente accaduti nelle piazze di Pisa e Firenze non possono non chiamarci a riflettere.
Viviamo un’epoca profondamente segnata da un processo dissociativo collettivo.
Assistiamo all’esplosione di nuovi conflitti militari, ad una crisi climatica sempre più grave e di natura antropica, all’oltraggio dei diritti umani, all’emergere di vecchi estremismi antidemocratici che pensavamo appartenere al passato. Tutto questo sembra avvenire nell’indifferenza diffusa, come se la coscienza collettiva continuasse a voltarsi dalla parte opposta per non prendere consapevolezza di quanto sta avvenendo. Esattamente quello che avviene nella dissociazione psicopatologica, quando l’attenzione e l’intelletto si scollegano da un contenuto non tollerabile.

In questo scenario accade che alcuni giovani trovano la forza e l’energia per reagire, per volgere lo sguardo verso il problema e scendere in piazza. Sono giovani che mettono in campo una responsabilità e una capacità di iniziativa che molti adulti sembrano aver dimenticato.
Eppure, proprio gli adulti dovrebbero aver chiaro che le tragedie del secolo scorso sono state possibili proprio perché in troppi sono rimasti a guardare, perché lo spirito collettivo si è assuefatto all’escalation barbarica, proprio come sta avvenendo oggi.
Ragazzi che urlano che un altro modo deve essere possibile, che chiedono un’alternativa al processo autodistruttivo che l’umanità sta compiendo infierendo sul pianeta e su sé stessa.
Si scende in piazza per esprimere il dissenso, si scende in piazza per urlare il disaccordo con la visione dei governanti, si scende in piazza quando smettiamo di guardare dall’altra parte. E il conflitto si accende.
Benedetto sia il conflitto, se pone fine alla dissociazione, se diviene strumento di confronto e crescita. Tuttavia, gestire il conflitto richiede responsabilità, capacità di ascolto e, piccolo particolare, richiede la dialettica della ragione e dell’intelletto.
Capita spesso che il dissenso non piaccia ai governanti, soprattutto quando chi governa preferisce l’arroganza all’ascolto, preferisce mascherare con la forza agita, la debolezza di un pensiero, l’incapacità di aprirsi e di entrare in contatto con l’altro. È un copione già visto, è successo a Genova nel 2001 e la storia si ripete oggi ventitré anni dopo.

Quello che è accaduto nelle piazze toscane lo potremmo definire un acting-out, da parte degli adulti che avevano il compito di rappresentare lo Stato. Un passaggio che ferma il pensiero e passa all’agito, che avviene quando la mente non è in grado di sostenere il conflitto, una forza che entra in scena per mascherare una debolezza. Quale forza si può infatti immaginare dietro il volto, nella mente di un uomo che, forte di un manganello alla mano, manda in ospedale una giovane ragazza inerme, che protesta con le mani alzate.
In un’epoca dominata dall’indifferenza, questi ragazzi rappresentano la miglior gioventù, per il fatto di prendere posizione ed esprimere pacificamente un pensiero, condivisibile o meno. Sono stati trattati come la peggior feccia. Difficile pensare che in una circostanza come quella vista nelle immagini divenute virali, non sia stato possibile garantire l’ordine pubblico in maniera diversa.

Occorre ascoltare la voce degli studenti che scendono pacificamente in piazza, occorre che la forza del pensiero torni a valere sull’esibizione muscolare.

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25/02/2024

Per quelli che “gli studenti di Pisa si stavano dirigendo verso la sinagoga”: puntino rosso la sinagoga, freccia blu la direzione del corteo…

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