16/10/2025
Prima o poi — e temo sarà già troppo tardi — dovremo trovare il coraggio di guardare in faccia una verità scomoda: la salute mentale collettiva è a pezzi.
Non è un’esagerazione né un paradosso retorico, è un dato clinico che si manifesta ogni giorno sotto i nostri occhi, travestito da “opinione”, “contenuto”, “sfogo” o “satira”.
Basta accendere i social per accorgersene: è lì, nella bacheca di ognuno, il più accurato termometro del disagio psichico contemporaneo.
I social sono diventati un enorme laboratorio psichiatrico a cielo aperto, dove la follia non è più confinata nei reparti, ma celebrata, monetizzata e alimentata da un pubblico complice.
È un Far West della mente, dove non esistono filtri, dove l’aggressività, la paranoia, la proiezione patologica e la frustrazione si travestono da libertà di parola. E il risultato è devastante.
Gli haters, in questo scenario, rappresentano la forma più pura e disperata dell’autodisprezzo umano: persone che non riescono a tollerare la propria esistenza e allora cercano di demolire quella degli altri.
Odiano sé stessi con tale intensità da non potersi permettere neanche il lusso dell’identità: si nascondono dietro pseudonimi, profili falsi, maschere digitali.
E nel farlo, si illudono di essere liberi mentre sono prigionieri della loro stessa patologia.
La verità è che stiamo assistendo a una deriva psichiatrica di massa, e nessuno sembra volerla nominare.
Il disagio mentale è ormai la norma, non l’eccezione. L’empatia è evaporata, la frustrazione ha preso il posto della riflessione, e la rabbia è diventata la lingua madre della rete.
Siamo una società che ha smesso di pensare e ha cominciato a reagire, un click alla volta, un insulto alla volta.
E mentre ci illudiamo di comunicare, in realtà ci stiamo solo disintegrando, lentamente ma inesorabilmente.
Prima o poi qualcuno dovrà avere il coraggio di dirlo ad alta voce: non siamo più solo una società fragile. Siamo una società malata. E non abbiamo ancora deciso se curarci o affondare insieme.