03/10/2025
Condivido tutto, parola per parola...
"Mi accorgo, come terapeuta, che sempre più spesso arrivano a me messaggi, richieste, frammenti di vita che sembrerebbero appartenere non tanto alla stanza di terapia, ma a quelle conversazioni che un tempo trovavano spazio con un amico fidato, con un familiare presente, con qualcuno capace di abitare davvero la sfera più intima e quotidiana.
E questo non può non aprire una riflessione importante e mi farebbe piacere sapere il vostro parere in proposito.
Perché è vero, ci sono cose che si possono dire solo al terapeuta. Ci sono vissuti che trovano senso solo dentro la cornice protetta della terapia. Ci sono parole che hanno bisogno di un lavoro lento, profondo, a volte doloroso, che solo lì può essere accolto, trasformato e compreso.
Eppure, è sempre più forte in me la sensazione che molte persone arrivino a bussare alla porta dello psicologo non solo per elaborare il proprio dolore, ma perché non hanno altri luoghi dove sentirsi viste, ascoltate e accolte. Non è soltanto la sofferenza a condurle in terapia, è la solitudine. Non quella fisica, ma quella emotiva.
La mancanza di riferimenti affettivi profondi. L’assenza di chi, nel momento del bisogno, sappia esserci davvero.
Persone che, nel momento dello sfogo e della condivisione, non sanno più a chi rivolgersi se non al terapeuta. E se lo psicologo diventa l’unico punto di appoggio affettivo, il rischio è enorme, che fuori dal setting terapeutico resti soltanto il vuoto, il silenzio, l’assenza di qualcuno con cui condividere davvero.
E allora mi chiedo: cosa ci dice questo del nostro tempo? Della qualità dei legami che costruiamo? Del bisogno crescente di relazioni autentiche, calde, nutrienti, capaci di reggere il peso della verità, della fragilità e della condivisione?
Come terapeuta accolgo tutto questo, ma come persona non posso non interrogarmi. Perché la terapia non dovrebbe diventare l’unico posto in cui sentirsi ascoltati. Non possiamo rassegnarci a un vuoto relazionale che lascia tutti più soli come una sorta di deserto affettivo o di palude malarica.
Forse la vera urgenza è tornare a cercarci, a riconoscerci, a tenerci stretti. A costruire relazioni che non sostituiscano la terapia, ma che le stiano accanto. Relazioni che permettano a ciascuno di sentirsi, finalmente, meno solo.
Perché la nostra umanità si misura qui, nel non lasciare chi ci è accanto da solo con il proprio dolore, ma nel saperci essere con uno sguardo, una voce, una presenza reale e affidabile". VS