03/10/2025
INTRECCI DI VITE: TUTTE LE STRADE PORTANO AL CENTRO
01/10/2025
Il 28 settembre 2025 in piazza duomo a , si è tenuta la Graffiti di fili - Meccanismi di interazione, dell’ artista toscana Gloria Campriani.
Sin dai primi momenti della preparazione, ho intuito fosse un’opportunità, per i cittadini presenti e per gli invitati (tra cui io), di mettersi alla prova in quella che ho ironicamente definito “sessione di psicodramma”.
Su invito dell'amica artista Carla Nicola, con la quale ho condiviso una collettiva d’arte in Versilia, mi son trovato a sperimentare questo progetto creativo on the street.
Un esercizio di improvvisazione che prevede di formare tutti insieme, con la fisica presenza e le nostre inter-azioni, una grande rete che l’artista ha definito un insieme di “fili colorati che diventano simbolo di tensioni, nodi, vuoti e connessioni”. Un’opera di graffitismo urbano nato da un messaggio ben chiaro: ricontattare quel “bisogno di comunità” che stiamo gradualmente perdendo.
Spiega Campriani: “Viviamo in un mondo frammentato, ma solo attraverso interazione e cooperazione possiamo ritrovare un senso di appartenenza. Con la partecipazione attiva del pubblico, il progetto diventa specchio della società contemporanea, fragile ma capace di generare nuove forme di convivenza”.
Ed è in questo frangente che si inseriscono le mie osservazioni di psicoterapeuta junghiano, che in linea con la visione dell’artista, posso constatare la reale e contingente frammentazione che caratterizza la società odierna, che tradotto in “psicologese”, riflette la scissione della psiche umana.
Detta in altri termini ancora, altro non è che una separazione interiore tra l’Io (la coscienza, al centro della quale c’è l’Ego) e il Sé (nucleo della personalità che in psicologia junghiana rappresenta la totalità: coscienza, inconscio e parte spirituale).
Se vogliamo vederla in un’ottica più cognitivo-comportamentale, la separazione è tra i nostri intenti e i nostri comportamenti.
Ma in definitiva, siamo scissi da cosa? Frammentati in quali parti? Beh, sarò diretto e schietto senza girarci intorno, proprio come lo sono stato con Gloria nel bel mezzo della performance.
L’essere umano è scisso da se stesso. C’è una spaccatura tra ciò che si è e ciò che si vuol mostrare o ancor peggio dimostrare, a causa delle pressioni sociali, le paure che ci instillano nella mente, il giudizio altrui, le forti componenti moralistiche provenienti dal sistema o dall’educazione ricevuta, che ha sintetizzato nell’istanza del Super-Io e ha identificato nell’archetipo Persona.
Ma per fortuna c’è l’ che smaschera, facendo crollare le finzioni ed emergere la vera natura umana senza filtri né sovrastrutture appunto, perché è di struttura che si tratta e di struttura abbiamo bisogno. Infatti l’opera collettiva che si è andata a creare in tale performance, assomiglia ad una grande ragnatela, struttura che simboleggia il risultato del “tessere trame”.
Ma ognuno ha la propria idea di “trama”, ha il proprio fine e modo di intrecciare fili, ovvero di connettersi ed entrare in contatto, ed è stata così un’occasione per analizzare uno spicchio di contesto sociale in cui viviamo, con le variegate diversità e peculiarità.
Le istruzioni erano chiare: andarsi a distribuire e collocare nello spazio per formare dei pilastri umani fissi, attorno ai quali altre persone, cosiddette “corpi mobili”, avrebbero dovuto creare una rete, avvolgendo attorno ai busti dei pilastri umani (ad altezza del petto) lunghi gomitoli di fili colorati. Lo scopo era creare una composizione di intrecci e legami tra i partecipanti, dando forma e vita a una grande rete collaborativa nella quale ogni pilastro rappresentava allo stesso tempo un nucleo a sé, dove poter essere parte attiva nella tessitura del proprio spazio vitale.
Ed è qui che si è potuto assistere a delle dinamiche psico-sociali interessanti. Non appena è stato suggerito di prendere spazio, l’energia creativa spinta dal nobile e significativo atto artistico, ha automaticamente caricato la piazza di una particolare simbologia che rimanda al , luogo che in antichità ai tempi dei greci, era pertinente ad un santuario e la sua recinzione, dedicato al culto di rituali sacri. Infatti i legami tra le persone (e tra gli esseri viventi in generale) dovrebbero essere sacri proprio perché oltre a un corpo c’è un’anima che ci vive dentro, e quest’anima trascende il corpo fisico.
La maggior parte delle persone che ha deciso di cimentarsi nel pilastro umano si è collocata ai margini, pochissimi verso l’interno e solamente il sottoscritto al centro, che trovandomi in quel punto ho scelto di rimanervi, ingenuamente ignaro delle eventuali conseguenze logistiche. Nell’atto , si sa, il tempo è dilatato, relativo, sospeso, e non ci si rende totalmente conto, razionalmente, di ciò che si fa, perché a comandare sono gli agiti inconsci. È risaputo sia agli artisti che agli psicologi dell’arte, nonché agli neuro scienziati che studiano la neuro-estetica, come nel flusso creativo sia la parte destra del cervello ad esprimersi, ovvero quella irrazionale e inconscia, mentre l’emisfero sinistro ha poco controllo in confronto (essa entra in gioco solo dopo, nella fase di elaborazione). In questo intenso e movimentato intreccio di fili e trame, tutti tendevano a passare dal centro più e più volte per sciogliere e avvolgere i loro gomitoli (per sciogliere una tensione è necessario crearne un’altra, secondo il primo principio della termodinamica, detto conservazione dell’energia), stringere un saldo contatto col centro e ripartire verso nuove mète della periferia.
Come può essere letto questo aspetto?
Se passiamo in rassegna l’intera letteratura psicologica, comprese le applicazioni pratiche di arte terapia, il centro rappresenta il ̀, ovvero la totalità come pocanzi accennato.
Una delle composizione artistiche più emblematiche del movimento dal centro al fuori è il , microcosmo costellato di simboli che nel loro insieme armonico e sinergico rappresentano l’ordine cosmico, il cui senso compiuto è l’unione e la completezza. Fa parte di alcune pratiche meditative il cui scopo è trovare ordine, pace e completezza nel movimento centripeto, scandito, continuativo e rilassante che la mano trova lavorando a partire dal centro, per poi chiudere il cerchio come meta finale della meditazione.
Stando al centro ho potuto assistere a 360 gradi al lavorio dei corpi mobili che, chi più e chi meno, come api danzanti intorno ai fiori, si appoggiava ai punti cardinali della struttura umana che faceva da supporto per la costruzione della rete. È come se ogni nucleo fosse una fonte di energia come il fiore lo è per l’ape, risucchiandone il polline per poter continuare a diffondere e seminare ciò che và diffuso, espanso, trasportato e in fine trasformato.
Nutrimento per le api, forse amore per gli esseri umani? Bisogno di condivisione? Per parafrasare un’azione molto di moda nel mondo dei social network, che per l’appunto significa rete sociale.
Il bisogno di stringere legami è una delle molteplici metafore di tale performance, ma come la psicologia osserva, ognuno li stringe a proprio modo: c’è chi è delicato, rispettoso, empatico e chi è più invadente e insensibile, palesando una aggressività inconscia non riconosciuta e non canalizzata.
Dall’altra parte abbiamo poi chi è più accogliente, accondiscendente, e chi è più passivo, remissivo. Trovandomi al centro, ho potuto sperimentare quel ruolo che fa da punto di riferimento, e confrontarmi altresì coi miei confini.
Dopo una lunga serie di fili avvolti attorno al mio addome, la difficoltà a respirare pienamente mi ha portato a mettere dei limiti, e il mantra ricorrente che recitavo a tutti da lì in poi è stato: “Mi raccomando, avvolgete con leggerezza, in modo morbido”.
Perché per molti, il “compito di legare”, anziché essere rilassante, sembrava esser diventato un lavoro ossessivo, meccanico, privo di delicatezza e armonia. Come se il periodo del Covid avesse lasciato una fame bulimica dove il vuoto debba essere forzatamente riempito anziché esplorato entrandoci in contatto.
Come se la pandemia avesse portato a disimparare il modo sano di relazionarsi, e fosse rimasto un bisogno smorzato, frustrato, da soddisfare senza anima né feeling, bensì con paura e rigidità. Un po’ lo specchio dei rapporti umani da qualche anno a questa parte, dove per molti, purtroppo, pare lo scopo sia rimanere iper-connessi per non perdersi opportunità che invece, proprio per quest’ansia, svaniscono e cadono nel nulla, o si fanno più ostici e conflittuali.
A discapito di una autentica connessione, che seppur lenta, coi tempi adeguati, porta a salde e arricchenti conoscenze. Invece questa è l’epoca in cui spesso le persone son diventate stampelle delle proprie mancanze, o riempitivi per colmare dei vuoti intollerabili, invece di essere compagni di viaggio che ci completano.
Credo che Gloria abbia individuato un focus centrale attraverso quest’opera collettiva: il bisogno di collaborazione e la necessità di cooperazione, dove siamo parti di un tutto e soprattutto, cosa che molti han dimenticato, in ognuno è presente la totalità, se si rimane connessi all’universo in modo empatico.
Riporto di seguito uno stralcio dalla descrizione del progetto dell’ : “Nella performance, i fili colorati che formano la grande rete diventano metafora delle relazioni umane: nodi, intrecci, tensioni e vuoti. La loro costruzione è affidata ai partecipanti, che attraverso i propri gesti plasmano un microcosmo sociale. Siamo una società frammentata e diffidente, che fatica a collaborare. La rete diventa cosi specchio di questo stato: a volte troppo rada, altre caotica e soffocante.
La lettura analitica di questa espressione, e rappresentazione dei comportamenti, sottolinea lo spiccato individualismo della società contemporanea, che porta la comunità stessa a scomporsi in atomi rivali, in solitudini minacciose perché minacciate (Bauman). Solo attraverso la vita sociale e il riconoscimento dell’altro possiamo costruire nuove forme di comunità.
Il filo diventa cosi metafora del cammino della vita: lunghezze diverse, percorsi differenti, connessioni più o meno forti.
L’azione è sostenuta da persone che rimangono ferme, chiamate colonne portanti, simbolicamente rappresentanti i punti fermi della vita di ciascuno (persone, affetti, valori, istituzioni, enti, città, nazioni, ecc.)”.
Ma perché la maggior parte sentiva il bisogno di affidarsi al centro per continuare il proprio percorso? La risposta che trovo nei miei studi è che tutti, seppur razionalmente è difficile ammetterlo, per paura, vergogna o resistenza, ricercano il centro come fonte di sicurezza e stabilità. L’architettura ci insegna come siano molte le strutture a nucleo centrale portante, e non a caso nel gergo popolare, un individuo equilibrato viene definito “centrato”.
La rete, come Gloria ha giustamente teorizzato, rappresenta un microcosmo esemplificativo della società. Chiunque ha bisogno di giungere al centro di se stesso, andare in profondità, al nucleo, e credo che anche questa performance artistica lo abbia dimostrato. Tendere al centro, passare dal centro è un atto doveroso, è come attingere da una fonte sacra, da un pozzo magico posto là nel mezzo. Se immaginiamo le forme primigenie del cerchio, quadrato, triangolo e così via, il punto centrale è equidistante da ogni altro punto periferico; da lì si ha la visione completa del tutto, dell’intero panorama circostante.
Per questo motivo è così importante passare in quello che si annovera come il punto nevralgico dove converge ogni retta. Ricordate la teoria di geometria euclidea secondo la quale “da un centro fisso passano infinite rette”? È come se fosse lo scopo principale, il primo e l’ultimo contemporaneamente, il giusto finale, come “andare al centro della questione”. Molto attraente come obiettivo, ma altrettanto difficile. Infatti molti poi non reggono concretamente rimanere al centro, è faticoso, impegnativo, scomodo perché troppo denso di significato, c’è troppa essenza.
Il centro è denso, perché lì si conserva il concentrato, il miele, frutto di una quantità esorbitante di polline e nettare che milioni di api hanno elaborato. Ma a parte il miele, che rappresenta un gradevole elisir, è risaputo come più una cosa è concentrata è meno è digeribile.
Come il sociologo Fabio Berti ha diligentemente sottolineato nella sua analisi in seguito alla performance: “nessuno si è preso la responsabilità di stare al centro ma tutti ci volevano andare”.
Stare ai margini è rassicurante perché fa sentire al sicuro, come se si avessero le spalle appoggiate al muro, protetti senza il rischio che qualcuno ci sorprenda da dietro. Può essere letta come diffidenza, evitamento del rischio di esporsi, di stare al centro della attenzione e di conseguenza influenzato o vulnerabile al controllo altrui. Stare al centro equivale esporsi al mondo, aprirsi all’inaspettato, mettersi in gioco, prendersi il rischio di sottoporsi alle azioni degli altri e il peso di reggere gli imprevedibili comportamenti di chi vuole interagire col focus del sistema.
Fate caso a come i centri urbani vengono presi d’assalto dalle masse, creando caos, ingorghi, da parte di gente che poi torna sempre nelle calme periferie.
Essere al centro è farsi carico anche di chi vuole interagire col centro, e questo scambio si gioca tra l’accogliere e il dare limiti, perché non tutti hanno tatto, sensibilità, rispetto, accortezza. A molti piace il centro ma pochi hanno il coraggio di viverci, di starci, proprio perché viene preso d’assalto per le numerose opportunità (di intrecci mi vien da dire) che offre. Ma cosa rappresenta il centro? Come già brevemente accennato, Jung lo ha descritto come il Sé, la totalità nella quale converge la sintesi di ogni diramazione. Andare verso il centro del Sé equivale a raggiungere la parte più profonda e autentica di se stessi, là dove non ci sono maschere né contaminazioni, ma solo integrazione dei contrari, degli opposti, dei diversi.
Quando l’artista Gloria parla della possibilità che la rete diventi soffocante anziché collaborativa, mi viene in mente l’estrema diversità che le diverse culture e personalità hanno di vivere i rapporti. L’arte è una cartina tornasole, svela, ed essendo una espressione inconscia dei comportamenti e delle emozioni umane, fa emergere aspetti di sé di cui difficilmente si è consapevoli, proprio perché usa il gioco, la creatività, i colori e i gesti spontanei come promotori delle proprie intenzioni profonde e spesso nascoste a chi non svolge un lavoro costante su di sé.
Questa performance ha reso possibile la consapevolezza di uno spaccato di realtà sociale e collettiva, nella quale ognuno si avvicina al prossimo con le modalità che gli appartengono naturalmente, ma che forse, tende a nascondere nella quotidianità per il quieto vivere, per conformità sociale o moralismo.
In questa esperienza pratica, ognuno di noi, nel suo piccolo, è stato un “uomo ragno”, e a seconda del tipo di connessione che si andava a creare man mano, o del tipo di percezione soggettiva che scaturiva nelle interazioni, la rete si trasformava in corso d’opera, metafora di una relazione che cambia a seconda di come gli attori interagiscono. La rete, in quanto e , ha una doppia valenza: può far sentire in trappola così come può far sentire connessi al prossimo e meno soli.
La parte finale del lavoro artistico ha previsto che ognuno si togliesse la matassa di fili avvolti e intrecciati attorno a sé, ed una volta stesa a terra, si è potuta ammirare la texture segnata dai diversi nodi e nuclei che si sono creati. Inutile dire che il centro è apparso come la più densa costellazione di anelli, un grande neurone dal quale si dipanavano i dendriti e gli assoni che andavano a connettersi agli altri neuroni del sistema.
L’esperimento ha fatto emergere come in ogni relazione, ci sono fili che legano dolcemente e altri fili che stringono troppo forte. Talvolta è stato necessario strappare o addirittura tagliare alcuni fili. Proprio come nella vita, alcuni legami risultano opprimenti, soffocanti, a volte inutili se non nocivi, e si deve “dare un taglio”. Altre volte, quando si impara a tessere relazioni quindi a rapportarci al prossimo, i fili che ci legano diventano forti ma flessibili, indistruttibili e addirittura si tramutano in ponti da attraversare per esplorare nuovi orizzonti e tramandare i propri valori.
Ma anche comode strade per tornare nel luogo sicuro da cui il viaggio è partito, o per citare lo psicologo J. Bowlby, alla base sicura.
Di Matteo Marino.
Psicoterapeuta, artista e psicologo dell’arte
Un grazie anche alla brava fotografa Daniela Ferrante Bernasconi per gli scatti