02/12/2025
Lino Inqui e l’infinita battaglia: viaggio nella mente querulomane
Ci sono persone che vivono come se ogni giorno fosse il preludio di un processo. Non perché abbiano qualcosa da nascondere, ma perché sentono in modo profondo, insistente, dolorosamente lucido che qualcuno da qualche parte sta tramando contro di loro.
Lino Inqui o se si preferisce Inqui Lino è uno di loro.
Lo si incontra spesso in condominio, al bar, nella sala di aspetto del medico: la fronte corrugata, lo sguardo vigile, una pila di documenti sotto il braccio. Ogni carta, ogni e-mail, ogni foto scattata con il cellulare, ogni ritardo burocratico potrebbe rappresentare l’ennesima prova. Una minaccia. Un torto. La sua vita si è trasformata in un’inchiesta permanente, in un’arringa.
Nella mente di Lino Inqui, i fatti non sono mai solo fatti. Sono indizi. Tasselli di un mosaico complesso che, se osservato attentamente, rivela per lui una verità inequivocabile: “ce l’hanno con me”. È così che una bolletta errata diventa un attacco personale, un collega silenzioso un antagonista.
La querulomania non è un vezzo caratteriale e non è nemmeno un’attitudine. È una configurazione psicopatologica riconosciuta da decenni e tuttora attuale, spesso collocata nell’ambito dei disturbi deliranti a tema persecutorio o nelle organizzazioni di personalità a matrice paranoide.
La caratteristica centrale non è la rabbia, ma la rigidità interpretativa. Watzlawick l’avrebbe definita “incapacità di considerare altre cornici”. Stanghellini descriverebbe quel tipo di coscienza iper-riferita, che non tollera l’ambiguità e trasforma ogni evento neutro in qualcosa di intenzionalmente diretto al Sé.
Per il querulomane, la realtà perde i suoi margini morbidi e diventa un setaccio che trattiene solo gli elementi minacciosi. Alla base c’è un funzionamento che distorce tre dimensioni psicologiche fondamentali: l’ipervigilanza (il mondo non è un luogo da esplorare, ma un territorio ostile); l’intenzionalità ostile (ciò che per altri è un imprevisto, per Lino Inqui è un attacco). La mente colma i vuoti di senso attribuendo intenzioni maligne anche quando gli indizi sono inconsistenti.
Il dolore interno genera un bisogno incessante di identificarne la “fonte”. In questa logica, la colpa non è mai del fato, della complessità dei sistemi, o della casualità. È sempre di qualcuno e soprattutto non è mai sua. Lino non sopporta l’idea dell’indeterminazione: per vivere deve sapere da chi guardarsi.
In questo quadro, l’accesso ripetuto a denunce, esposti, reclami e diffide assume un valore profondamente simbolico. Non si tratta solo di “difendere i propri diritti”, è un tentativo di ristabilire un senso di controllo.
Se la colpa viene riconosciuta dall’esterno da un’autorità superiore, da una lettera protocollata, da un timbro allora, forse, la minaccia interna può attenuarsi. Paradossalmente, ogni risposta istituzionale funge da “benzina” per il sistema persecutorio. Il querulomane non cerca solo giustizia: cerca conferme, e il sistema, rispondendo, fornisce involontariamente ulteriori appigli interpretativi.
Nessuno nasce querulomane. Ci si arriva lentamente, in punta di piedi, passando attraverso piccole e grandi incrinature biografiche: ambienti incoerenti o svalutanti, esperienze ripetute di ingiustizia reale mai elaborate, scarsa capacità metacognitiva nel distinguere pensieri da fatti, temperamenti molto sensibili alla minaccia, modelli di attaccamento basati sull’inaffidabilità