11/11/2025
Supercazzole dei tempi moderni
La supercazzola non è soltanto un gioco linguistico comico o un vezzo culturale: è una metafora della distanza che separa il linguaggio dalla verità di esperienza. In un’epoca in cui l’apparire sostituisce l’essere, come psicoterapeuta mi sento di suggerire una «cura del linguaggio», non una retorica, non un altro slogan, ma una pratica quotidiana: usare parole che pesano, che risuonano, che si fanno carico di qualcosa che abbia senso.
Il linguaggio è l’habitat dell’anima. Quando la forma prende il sopravvento sulla sostanza, quando le frasi suonano bene ma non risvegliano, allora ci troviamo in un giardino pieno di ornamenti ma senza radici.
In questo senso, nella mia pratica clinica e nella riflessione culturale, la sfida non è semplicemente «evitare la supercazzola», ma coltivare la parola che ha radici, la frase che ha peso, l’atto verbale che è testimonianza di presenza e non di parvenza.
Oggi la supercazzola è ovunque: nei discorsi istituzionali, nei post motivazionali, nelle riunioni aziendali dove si “co-creano sinergie”. Il suo potere non sta nel contenuto, ma nella fiducia che suscita chi la pronuncia. Più le parole sono opache, più sembrano autorevoli. È una strategia di difesa collettiva: proteggersi dall’incertezza con il rumore della sicurezza verbale.
Non serve cercarla lontano: spesso la pratichiamo da soli. Diciamo frasi belle, copiabili, condivisibili, ma senza più contatto con ciò che proviamo. È la banalità che si traveste da profondità. Lì dove non vogliamo sentire la vulnerabilità, mettiamo una formula. È il linguaggio che “fa scena” ma non lascia traccia dentro. Contro la supercazzola non serve più linguaggio, serve presenza. Ascoltare prima di parlare, accettare il silenzio, scegliere parole precise invece di parole grandi.
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