03/07/2025
MEDICINA, FILOSOFIA E L’ARTE DEL RAGIONAMENTO CLINICO
N.B. : La comprensione profonda e la messa in pratica dei contenuti di questo post può salvare la vita a voi o ai vostri cari!
Viviamo nell’epoca della tecnologia idolatrata. In medicina questo si traduce in una fede cieca nelle apparecchiature diagnostiche: risonanze, TAC, ecografie, esami del sangue sofisticatissimi, screening genetici… Eppure, la diagnosi sbagliata è sempre dietro l’angolo. Perché?
Perché un’immagine non è mai la verità. È solo una rappresentazione parziale, un'ombra nel senso platonico, che deve essere letta, compresa, interpretata. E chi la interpreta non è la macchina, ma il medico. O, per essere più precisi, la sua capacità di ragionamento, di discernimento, di cogliere i nessi tra quadro clinico, storia del paziente, contesto personale, sintomi sfuggenti.
Una risonanza può mostrare un’ernia discale. Ma quante persone camminano felici con una risonanza "catastrofica", mentre altre hanno dolori lancinanti con esami pressoché normali?
Un esame del sangue può mostrare un valore fuori norma. Ma quel valore è una malattia? O è solo una compensazione, una reazione dell’organismo a qualcosa di più profondo?
Oppure: una PET può segnalare un “focale ipermetabolismo” e il paziente viene terrorizzato dalla parola tumore, mentre si tratta di un focolaio infiammatorio temporaneo legato magari a un dente devitalizzato malamente.
E allora cosa si fa? Biopsie inutili, operazioni preventive, stress emotivo devastante… tutto per un’immagine mal interpretata.
In altre parole: senza filosofia, senza logica, senza reale discernimento, anche la scienza più sofisticata diventa superstizione.
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Il secondo grande problema – ancora più trascurato – è che la medicina moderna non ama più il ragionamento differenziale.
Una volta che un caso “sembra” rientrare nel quadro più frequente, ci si ferma. Nessuno più si chiede: e se fosse tra quel 5% che somiglia, ma non è?
Oggi si ragiona per statistiche, non per persone. L’eccezione viene trattata come un errore anziché come un’occasione per affinare la diagnosi.
Ma l’intelligenza clinica non è l’applicazione cieca del protocollo più comune, bensì la capacità di porsi domande, di notare le discrepanze, di rimettere tutto in discussione quando qualcosa non torna.
E questo succede sempre meno.
Il problema più grave: la diagnosi standardizzata come dogma
C’è però un livello più profondo e più inquietante: non si sbagliano solo le diagnosi. Si sbaglia il modo stesso di diagnosticarle.
La medicina ufficiale ha creato griglie di lettura prefabbricate, in cui una certa serie di segni e sintomi devono portare a una diagnosi specifica, quasi fosse un’equazione.
Ma la realtà è ben più fluida. Una flogosi cronica viene scambiata per una patologia degenerativa grave. Un’anomalia di laboratorio viene “promossa” a malattia sistemica. E da lì parte il protocollo, spesso devastante.
Non è solo superficialità. In molti casi, queste “diagnosi comode” sono alimentate da interessi enormi: economici, assicurativi, gestionali.
Una diagnosi grave giustifica più visite, più farmaci, più prestazioni specialistiche.
È triste dirlo, ma curare bene un paziente costa meno del mantenerlo malato a lungo sotto protocollo.
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Chi pensa che tutto questo derivi solo da superficialità o pigrizia intellettuale non ha ancora compreso la radice più profonda del problema.
Il vero killer del pensiero clinico è il sistema stesso.
Il medico ospedaliero non ha tempo di pensare. È schiacciato da turni, reparti affollati, protocolli imposti dall’alto, numeri da raggiungere, richiami sulla produttività. L’ospedale è diventato un’azienda e il paziente un “caso da chiudere”.
In questo tritacarne non c’è spazio per:
fermarsi e chiedersi se la diagnosi è davvero corretta;
ordinare un esame in più per escludere un’ipotesi minore;
esplorare vie alternative meno aggressive.
Ogni deviazione dal protocollo è vista come una perdita di tempo e denaro. E così si chiude la mente prima ancora di aprirla.
In pratica questo tritacarne si alimenta da sé: non solo nessuno saprà mai delle diagnosi sbagliate anche dal punto di vista della medicina convenzionale, e tantomeno di come un problema poteva essere facilmente risolto, senza farlo divenire grave, ma anzi, proprio il peggioramento progressivo del paziente finisce per giustificare retroattivamente le scelte iniziali, rafforzando il sistema che ha generato l’errore, e impedendo ogni riflessione critica.
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Una medicina senza pensiero è pericolosa
La medicina, se vuole restare umana, deve tornare a essere un’arte del giudizio, non un algoritmo di esecuzione.
Non basta sapere cosa c’è scritto nel referto, occorre chiedersi cosa significa per quella persona, in quel corpo, in quella storia.
Una malattia è spesso un’espressione di squilibrio, non un nemico esterno da abbattere a colpi di farmaco.
Un sintomo è un linguaggio, non un errore da zittire.
Un paziente è un individuo, non un contenitore di linee guida.
Alla fine, il punto è semplice: senza discernimento, anche gli apparecchi più avanzati finiscono per essere strumenti ciechi.
Ecco perché – con ironia, ma anche con consapevolezza – dico sempre che le mie attitudini, la mia preparazione filosofica e la mia esperienza clinica, unite a uno strumento potente come ChatGPT valgono più di un Primario, e, dopo una breve pausa aggiungo, anche più di un Primario che usa ChatGPT!!!
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