Feliciana Scarpa - Studio di Psicoterapia Milano

Feliciana Scarpa - Studio di Psicoterapia Milano Studio di Psicoterapia Milano

Sono una psicologa - psicoterapeuta impegnata in una cultura del benessere accessibile a tutti e che aiuti i cittadini a riconoscere l'importanza del prendersi cura di sé anche in termini preventivi.

Il corpo non reagisce in modo casuale.Quando lo stress diventa prolungato, il sistema nervoso attiva schemi di protezion...
09/12/2025

Il corpo non reagisce in modo casuale.
Quando lo stress diventa prolungato, il sistema nervoso attiva schemi di protezione che coinvolgono postura, tono muscolare e respiro. Non è simbolismo psicologico: è fisiologia. Le risposte di allarme del sistema nervoso autonomo si consolidano nella memoria implicita e creano tensioni che possono diventare croniche.

La mascella si attiva quando il carico cognitivo e di controllo è elevato. Il collo aumenta il tono nei periodi di ipervigilanza. Il diaframma si irrigidisce quando la respirazione resta alta e rapida. La zona lombare risente di condizioni in cui il corpo deve sostenere stabilità sotto pressione. Anche e ginocchia riflettono il livello di sicurezza percepita. Sono pattern adattivi, non difetti.

La psiconeuroimmunologia mostra che lo stress continuo modifica il tono muscolare, la postura, la regolazione ormonale e i processi infiammatori. Il corpo registra ciò che non ha ancora potuto elaborare.

La psicoterapia, soprattutto quando integra la regolazione del sistema nervoso e il lavoro sulle memorie implicite, non “scioglie” i muscoli dall’esterno. Riduce l’attivazione interna che li mantiene contratti.

La distensione arriva quando il corpo percepisce sicurezza, non quando la imponiamo.
La calma non è un atto di volontà: è la conseguenza di un sistema che non deve più difendersi.
stresscorpo

L’attacco di panico è una delle risposte più intense del corpo. Non nasce da fragilità, né da perdita di lucidità. È una...
02/12/2025

L’attacco di panico è una delle risposte più intense del corpo. Non nasce da fragilità, né da perdita di lucidità. È una reazione naturale al pericolo, anche quando il pericolo non c’è. Il sistema limbico, che decide se siamo al sicuro, può attivarsi in anticipo perché la soglia dell’allarme si è abbassata nel tempo. Basta un segnale minimo, un respiro diverso o un pensiero veloce, e viene interpretato come minaccia.

La domanda non è “perché succede”, ma “perché succede proprio ora”. Accade quando il corpo è già sotto pressione, quando si accumulano tensioni, sonno scarso, richieste continue, oppure quando una sensazione interna ricorda qualcosa che un tempo è stato pericoloso. Non è follia: è memoria corporea che reagisce troppo in fretta.

Ciò che spaventa di più è il modo in cui proviamo a fermarlo. Combatterlo, controllare ogni sensazione, trattenere il respiro, è come mettere benzina sul fuoco: il corpo legge la lotta come ulteriore minaccia.

Accogliere non significa arrendersi, significa riconoscere che è un’onda con un picco e una fine, che l’adrenalina non può restare alta a lungo, e che il sistema nervoso rientra spontaneamente se non viene alimentato dal terrore di non farcela. In terapia si lavora su questo: distinguere intensità da pericolo, insegnare al corpo a interrompere l’allarme e alla mente a non confondere attivazione e catastrofe.

Con gli strumenti giusti, dalla psicoeducazione all’EMDR quando ci sono memorie che mantengono alta la soglia, l’attacco di panico smette di sembrare una minaccia senza via d’uscita. Rimane una risposta forte, ma non un destino. E soprattutto non definisce chi sei.
stile:

Molti tradimenti non hanno a che vedere con il desiderio. Nascono piuttosto da una distanza emotiva che nella relazione ...
27/11/2025

Molti tradimenti non hanno a che vedere con il desiderio. Nascono piuttosto da una distanza emotiva che nella relazione è diventata troppo grande da sopportare. Non è ricerca di un corpo, ma ricerca di uno spazio in cui sentirsi di nuovo visti.
La solitudine emotiva non è l’assenza dell’altro, ma l’assenza di contatto. È la sensazione di non essere più raggiunti, compresi o considerati, anche quando la relazione continua a funzionare “in superficie”. Quando questo vuoto si amplia, una presenza esterna può diventare un appiglio più che una scelta.
In molti casi il tradimento è un sintomo, non un progetto. È la risposta disordinata a un bisogno rimasto troppo a lungo inascoltato: sentirsi riconosciuti, ascoltati, presenti. Non giustifica l’atto, ma permette di comprenderne la funzione emotiva e la storia che c’è dietro.
Il punto reale, spesso, non è “perché è successo”, ma “cosa era diventata la relazione perché accadesse”. È lì che si collocano le domande importanti: dove si è creata la distanza, quando ci si è smessi di vedere, come si è trasformato il modo di stare insieme. Ed è da lì che passa ogni possibilità di comprensione e cambiamento.

Ci sono persone che, in pubblico, sembrano impeccabili.Attenti, generosi, brillanti.Tutti li descrivono come disponibili...
20/11/2025

Ci sono persone che, in pubblico, sembrano impeccabili.
Attenti, generosi, brillanti.
Tutti li descrivono come disponibili, altruisti, empatici.
Eppure, quando la relazione diventa vicina, quando l’altro non è più il pubblico ma un legame, qualcosa cambia.
La presenza si ritira, l’empatia si spegne, l’ascolto diventa difesa.

È la distanza necessaria per mantenere la maschera.

Sul palcoscenico, l’identità è controllabile: si può scegliere cosa mostrare, quali lati esibire, quali nascondere.
Nell’intimità, invece, non c’è regia.
E il copione scritto per piacere, convincere o salvare gli altri non basta più.
Lì, dove servirebbe lasciarsi vedere, emerge la paura: quella di essere smascherati, di non essere abbastanza, di perdere il controllo sull’immagine costruita.

Spesso dietro la perfezione relazionale “pubblica” c’è una storia di carenza affettiva.
Chi ha imparato presto che l’amore si ottiene solo “funzionando bene”, tende a trasformare la relazione in performance.
L’altro non è un incontro, ma uno specchio che deve riflettere valore.
E quando lo specchio mostra vulnerabilità o bisogno, diventa intollerabile.

In terapia, questo copione si scioglie lentamente: si passa dal mostrarsi “come si deve” al permettersi di esserci “come si è”.
È lì che la maschera cade, e inizia qualcosa di più vero.
Non la perfezione, ma la presenza.
Non l’immagine, ma la reciprocità.
Solo lì, la relazione smette di essere una scena e diventa un incontro.

Ci sono ferite che non nascono da ciò che è accaduto, ma da ciò che non è mai arrivato.Il neglect è una di queste: una m...
13/11/2025

Ci sono ferite che non nascono da ciò che è accaduto, ma da ciò che non è mai arrivato.
Il neglect è una di queste: una mancanza silenziosa, che cresce dove i bisogni non trovano risposta e che spesso si riconosce solo molto più tardi, quando l’età adulta chiede alla persona di funzionare in modi che non ha mai potuto imparare.
Nella clinica lo vedo in chi racconta un’infanzia “normale”, senza eventi traumatici evidenti, eppure attraversata da un senso di solitudine difficile da definire.
Il neglect non riguarda l’amore: riguarda la cura.
E la cura, per un bambino, è tutto.
A volte è fisico: poca protezione, poca attenzione.
A volte è educativo: nessuno che accompagna, che guida.
Molto spesso è emotivo: nessuno che aiuta a nominare quello che succede dentro, nessuno che regola, contiene, traduce.
È crescere sentendo che “si deve fare da soli”, anche quando non sarebbe possibile.
Non si tratta di colpe.
Molti caregiver non hanno fatto male: non hanno saputo fare altro.
Il loro stesso mondo interno era troppo ingombro per potersi accorgere del resto.
Ma per il bambino questo non cambia: imparerà a non chiedere, a non disturbare, a non aspettarsi che un bisogno possa essere accolto.
Le conseguenze non si vedono subito.
Si vedono più tardi: nell’attaccamento insicuro, nella difficoltà a sentire di valere, nella tendenza a minimizzare il dolore, nella fatica a fidarsi davvero.
Molti adulti cresciuti nel neglect diventano competenti fuori e fragili dentro.
Abili a cavarsela, incapaci di affidarsi.
Abituati a sopravvivere, meno ad essere.
Il lavoro terapeutico parte proprio da qui: dare nome a ciò che non c’è stato.
Perché il neglect non lascia cicatrici, lascia vuoti.
E per riempirli serve prima riconoscerli, poi costruire un’esperienza nuova in cui i bisogni non siano un intralcio, ma qualcosa che finalmente può esistere.

Il neglect non definisce la persona, ma spiega molto di ciò che ha imparato a fare per non perdersi.
E quando questa storia viene vista con chiarezza, qualcosa può davvero cambiare direzione.

A volte non è la curiosità a spingerci a controllare tutto.È la paura.La paura che, mentre noi stiamo fermi, gli altri v...
10/11/2025

A volte non è la curiosità a spingerci a controllare tutto.
È la paura.

La paura che, mentre noi stiamo fermi, gli altri vadano avanti.
Che qualcosa accada e noi restiamo esclusi.
Che la vita scorra altrove, mentre la nostra sembra in pausa.

La FOMO (fear of missing out) non è solo un effetto dei social: è un riflesso antico del cervello, lo stesso che si attiva quando rischiamo l’esclusione dal gruppo.
Per la mente, essere “fuori” significa essere in pericolo.
Ecco perché basta vedere una storia, un messaggio o una notizia per sentire quella scarica sottile, quell’urgenza a esserci, a non mancare, a “sapere tutto”.

È una forma moderna di ipervigilanza relazionale.
Un modo con cui il cervello tenta di proteggersi dal sentirsi irrilevante.
Ma così facendo, finisce per alimentare la stessa ferita che teme: quella del non sentirsi mai abbastanza.

Il paradosso della FOMO è che nasce dal bisogno di connessione, ma genera distanza.
Più cerchiamo di esserci ovunque, meno siamo presenti davvero.
La mente si frammenta, il corpo resta teso, la calma diventa un’esperienza rara.

Imparare a tollerare di “non esserci” è un passo di maturità emotiva.
Significa fidarsi che la propria vita non si misura da ciò che si perde, ma da ciò che si sceglie di abitare.
Che il valore non si costruisce nell’esserci sempre, ma nel saper restare dove ha senso stare.

Essere fuori da qualcosa non è sempre una perdita.
A volte è il segno che si sta imparando a esserci, finalmente, per sé.

La deformazione della comunicazione di tipo gaslighting è una forma di manipolazione psicologica sottile ma molto potent...
05/11/2025

La deformazione della comunicazione di tipo gaslighting è una forma di manipolazione psicologica sottile ma molto potente.
Consiste nel mettere in discussione la percezione, la memoria o la lucidità dell’altro, fino a farlo dubitare di sé stesso.

Definizione
Il gaslighting è una strategia comunicativa manipolatoria in cui una persona nega, distorce o falsifica i fatti per indebolire la fiducia dell’altro nella propria realtà interna.
Il termine deriva dal film Gaslight (1944), in cui un marito altera piccoli elementi dell’ambiente domestico per far credere alla moglie di stare impazzendo.

Come si manifesta
Non sempre è plateale: spesso è fatta di micro–negazioni e reinterpretazioni del reale.
Esempi tipici:
“Non ho mai detto quella cosa.”
“Ti stai inventando tutto, sei troppo sensibile.”
“Sei tu che ricordi male.”
“Non è successo così, te lo sei immaginato.”

Il messaggio implicito è: la tua percezione è sbagliata, la mia è quella giusta.

Effetto sulla vittima
Nel tempo produce confusione, auto–dubbio, riduzione dell’autostima e una crescente dipendenza dal punto di vista dell’altro.
Può generare una dissociazione sottile: lo scollamento tra ciò che si sente e ciò che si pensa di “dover sentire”.
È una forma di violenza psicologica che mina la capacità di fidarsi dei propri sensi, delle proprie emozioni e della propria mente.

Differenza rispetto ad altri tipi di comunicazione disfunzionale
Non è un semplice malinteso o una discussione.
Nel gaslighting c’è una intenzionalità, anche inconscia, nel mantenere l’altro in una posizione di dubbio e sottomissione, così da preservare un controllo relazionale.

gaslighting

Alcuni bambini crescono con addosso un compito che non è il loro.Diventano grandi troppo in fretta, perché qualcuno deve...
30/10/2025

Alcuni bambini crescono con addosso un compito che non è il loro.
Diventano grandi troppo in fretta, perché qualcuno deve prendersi cura della famiglia.

Questo fenomeno si chiama parentificazione.
Il figlio assume ruoli da adulto: gestisce la casa, i fratelli, o diventa il sostegno emotivo del genitore. È un’inversione dei compiti, che lo abitua a mettere i bisogni altrui sempre davanti ai propri.
Da adulto, chi è stato parentificato spesso diventa affidabile, capace, instancabile. Ma dentro porta un vuoto: fatica a riconoscere i propri limiti, sente colpa se si mette al centro, vive la cura di sé come un lusso che non merita.

C’è però una forma ancora più profonda: l’inversione dei ruoli di attaccamento.
Qui non si tratta solo di responsabilità pratiche o emotive, ma del cuore stesso del legame. Il bambino diventa la “base sicura” del genitore: è lui a rassicurare, proteggere, calmare. In questo rovesciamento, il bisogno più naturale, essere accudito, rimane senza risposta.
Da adulto, chi ha vissuto questa esperienza sviluppa spesso una sensibilità estrema verso l’altro, ma anche una ferita sottile: la paura di essere un peso, la tendenza a “salvare” chi ama, la difficoltà a fidarsi davvero di qualcuno che possa prendersi cura di lui.

Sono due facce diverse dello stesso dolore: crescere senza aver potuto essere figli.
Il corpo registra presto questa inversione e la mente costruisce schemi che sembrano forza, ma che nascono dal bisogno di sopravvivere.

In terapia, il lavoro è distinguere:
dove finisce la forza conquistata e dove comincia la ferita rimasta aperta.
E restituire al bambino, finalmente, il diritto di ricevere cura senza doverla guadagnare.

23/10/2025

22/10/2025
Ci sono storie che non cominciano con la violenza ma con l’illusione di essere amate: attenzioni che diventano abitudini...
18/10/2025

Ci sono storie che non cominciano con la violenza ma con l’illusione di essere amate: attenzioni che diventano abitudini e gesti premurosi che si trasformano in controllo.

Molte donne non vedono il confine che si sposta: prima giustificano, poi si adattano, poi tacciono, finché non distinguono più il timore dall’affetto; lì nasce una prigione invisibile, saldata nella mente.

La violenza psicologica non esplode, corrode: scava, erode l’autostima e la percezione della realtà; quando la paura diventa normale il cervello non riconosce più il pericolo e cerca equilibrio dove c’è distruzione; è il punto in cui la dipendenza prende il posto della libertà.

Non denunciare non significa non voler reagire: è l’esito di un addestramento alla sottomissione, una manipolazione che alterna punizioni e false tregue finché la calma viene scambiata per amore.

La clinica lo chiama legame traumatico: un meccanismo simile a una dipendenza in cui il sollievo momentaneo rinforza l’attaccamento a chi fa del male, un cortocircuito neurobiologico che mantiene vivo il vincolo anche di fronte all’evidenza.

Chi opera nella salute o nella sicurezza conosce questi schemi: non sono dettagli ma indicatori di rischio; eppure troppe donne arrivano in pronto soccorso o centri antiviolenza e vengono liquidate come “poco chiare”, “ambigue”, “confuse”, come se la confusione non fosse parte della violenza stessa.

Il Codice Rosso non è una formalità: è la linea che separa la prevenzione dal rimpianto; quando non scatta non è un errore tecnico ma un fallimento culturale; significa che la paura non è stata riconosciuta, che la voce di una donna è stata filtrata da scetticismo, stanchezza o indifferenza; significa che lo Stato è arrivato tardi, ancora una volta.

Ogni volta che una segnalazione resta sospesa, che una richiesta d’aiuto non genera una rete di protezione, si costruisce un pezzo di quella violenza che poi ci si limita a commemorare.
E non basta più indignarsi a posteriori.
Serve competenza, responsabilità, tempestività.
Perché il Codice Rosso deve scattare prima del sangue, non dopo.
Altrimenti, più che un protocollo, resta una promessa mancata.

Ci sono storie che non cominciano con la violenza ma con l’illusione di essere amate: attenzioni che diventano abitudini...
18/10/2025

Ci sono storie che non cominciano con la violenza ma con l’illusione di essere amate: attenzioni che diventano abitudini e gesti premurosi che si trasformano in controllo.

Molte donne non vedono il confine che si sposta: prima giustificano, poi si adattano, poi tacciono, finché non distinguono più il timore dall’affetto; lì nasce una prigione invisibile, saldata nella mente.

La violenza psicologica non esplode, corrode: scava, erode l’autostima e la percezione della realtà; quando la paura diventa normale il cervello non riconosce più il pericolo e cerca equilibrio dove c’è distruzione; è il punto in cui la dipendenza prende il posto della libertà.

Non denunciare non significa non voler reagire: è l’esito di un addestramento alla sottomissione, una manipolazione che alterna punizioni e false tregue finché la calma viene scambiata per amore.

La clinica lo chiama legame traumatico: un meccanismo simile a una dipendenza in cui il sollievo momentaneo rinforza l’attaccamento a chi fa del male, un cortocircuito neurobiologico che mantiene vivo il vincolo anche di fronte all’evidenza.

Chi opera nella salute o nella sicurezza conosce questi schemi: non sono dettagli ma indicatori di rischio; eppure troppe donne arrivano in pronto soccorso o centri antiviolenza e vengono liquidate come “poco chiare”, “ambigue”, “confuse”, come se la confusione non fosse parte della violenza stessa.

Il Codice Rosso non è una formalità: è la linea che separa la prevenzione dal rimpianto; quando non scatta non è un errore tecnico ma un fallimento culturale; significa che la paura non è stata riconosciuta, che la voce di una donna è stata filtrata da scetticismo, stanchezza o indifferenza; significa che lo Stato è arrivato tardi, ancora una volta.

Ogni volta che una segnalazione resta sospesa, che una richiesta d’aiuto non genera una rete di protezione, si costruisce un pezzo di quella violenza che poi ci si limita a commemorare.
E non basta più indignarsi a posteriori.
Serve competenza, responsabilità, tempestività.
Perché il Codice Rosso deve scattare prima del sangue, non dopo.
Altrimenti, più che un protocollo, resta una promessa mancata.

Indirizzo

Via Moscova 60
Milan
20121

Orario di apertura

Lunedì 09:30 - 21:00
Martedì 09:30 - 21:00
Mercoledì 09:30 - 21:00
Giovedì 09:30 - 21:00

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