15/12/2025
L’autismo femminile non è una scoperta recente.
Non è comparso negli ultimi dieci anni.
Non è “una nuova moda diagnostica”.
L’autismo femminile è sempre esistito.
Quello che è cambiato, oggi, non è la realtà clinica, ma il nostro sguardo.
È la nostra capacità di riconoscere, nominare, dare dignità clinica e umana a ciò che per decenni è stato ignorato, ridotto, distorto o semplicemente non visto.
Gli studi sull’autismo femminile esistono da oltre dieci anni.
Alcuni strumenti diagnostici specifici per le donne sono stati sviluppati, validati, tradotti.
Eppure, per lungo tempo, queste conoscenze sono rimaste ai margini, poco diffuse, poco utilizzate, poco ascoltate.
Come spesso accade quando si parla di donne nella medicina e nella psicologia.
Il risultato è che intere generazioni di bambine, ragazze e donne sono cresciute senza una chiave di lettura per ciò che stavano vivendo.
Hanno attraversato l’infanzia sentendosi “strane”.
L’adolescenza sentendosi “sbagliate”.
L’età adulta sentendosi “rotte”, “inermi”, “inadatte”.
Mancava il linguaggio per dirlo.
Mancava lo sguardo clinico per vederlo.
Mancava il riconoscimento sociale per legittimarlo.
Oggi stiamo iniziando a comprendere che l’autismo non è solo quello che disturba, che grida, che rompe, che si vede subito.
Esiste anche un autismo che osserva in silenzio, si adatta, copia, studia, che impara a sembrare “come gli altri”
Ma questo adattamento non è gratuito.
Ha un costo enorme: energetico, identitario, emotivo, relazionale.
Riconoscere oggi l’autismo femminile non significa solo “fare diagnosi”.
Significa riparare simbolicamente una ferita collettiva.
Significa dire a milioni di donne:
“Non eri tu a essere sbagliata.
Era il mondo a non avere le lenti giuste.
*Estratto da Intervista di Patrizia Neri a Sara Calderoni e Antonio Narzisi, SALUTE MENTALE, QUADERNI ACP 6/2023 Disturbo dello spettro autistico: insight sul fenotipo femminile.