05/11/2025
Mi chiamo Enrico, ho 68 anni e sono cresciuto nel liceo più rigido (e duro) di Torino.
Negli anni ’70 la scuola era una caserma: giacche chiuse, compiti infiniti, preside che girava con il registro come un ispettore. Non volava una mosca e ci alzavamo in piedi quando un prof entrava il classe.
Poi un giorno arrivò lui: il professore di filosofia.
Capelli lunghi, niente cravatta, giubbotto di velluto e un sorriso ironico. Il primo giorno si sedette sulla cattedra, non dietro. Disse solo:
“Io non interrogo, io parlo. Se non vi interessa, potete dormire.”
Non dormì nessuno.
Ci parlava di Marx, di Pasolini, di libertà. Portava dischi di De André, li ascoltavamo perché lui dentro ci vedeva la vera filosofia e tanta, tanta poesia. Leggevamo Gramsci, che diceva che "istruirsi è difficile, ma non istruirsi è ancora più difficile". Brecht, che insegnava a diffidare di chi parla sempre di destino. Don Milani, con la sua scuola ribelle di Barbiana.
Il preside lo odiava, i colleghi lo temevano, noi lo adoravamo.
Una mattina non venne. Poi non venne nemmeno la settimana dopo.
Dissero che era stato “trasferito d’ufficio” per comportamento non conforme al decoro dell’istituto.
Il giorno in cui ricevemmo la notizia, qualcuno scrisse sulla lavagna:
“La libertà non si firma sul registro.”
Nessuno la cancellò per mesi.
Oggi insegno anch’io, e non metto mai la cravatta.
Forse per rispetto verso quell’uomo che mi fece capire che "pensare" era una forma di disobbedienza gentile.