Associazione Sabine

Associazione Sabine L'Associazione Sabine ha sede a Montignoso, in Via Carlo Sforza n. 58, nella ex casa del custode di fronte alla Casa della Salute. N.

telefono attivo h. 24 e whatsapp 329.1286257
Orario di apertura: lun/mart/ven. 8.30-11.30; merc/gio 15.30-18.30. Associazione Sabine è principalmente uno sportello d’ascolto e un punto di accoglienza per donne e minori vittime di soprusi e abusi. L’attività delle nostre volontarie avviene in stretta collaborazione con i servizi psico-socio-sanitari ed educativi del territorio che sono coordinati da psicologhe, professioniste, legali, assistenti sociali, una ginecologa e una nutrizionista. Offriamo consulenze psicologiche e legali, ascolto telefonico, colloqui su appuntamento, campagne di sensibilizzazione, formazione e aggiornamento, gruppi di aiuto, mediazione linguistica.

01/11/2025

Una ricerca dell’Università Sapienza di Roma ha analizzato i femminicidi in Italia dal 2006 al 2022, scoprendo che il rischio aumenta nelle aree dove le donne sono più emancipate. Un dato che richiama il cosiddetto “paradosso nordico”: più crescono libertà e autonomia femminile, più emerge una reazione violenta maschile.
Gli economisti autori dello studio hanno ricostruito manualmente ogni caso, mostrando che i femminicidi non dipendono da povertà o arretratezza ma dal “conflitto culturale” tra emancipazione e persistenza del patriarcato. È la cosiddetta “backlash hypothesis”: la violenza come risposta alla perdita di potere maschile.
Secondo il politologo Massimo Prearo, non si tratta di un vero paradosso ma di un segnale della complessità del fenomeno: la violenza di genere nasce da strutture culturali, storiche e sociali, non da cause semplici.
Per questo la prevenzione deve agire su più livelli: politiche, cultura, psicologia e soprattutto educazione sessuo-affettiva, che aiuta a riconoscere e decostruire la logica del dominio.

Per anni Gisèle Pelicot ha vissuto un incubo nascosto tra le mura di casa sua, il posto che avrebbe dovuto essere per le...
01/11/2025

Per anni Gisèle Pelicot ha vissuto un incubo nascosto tra le mura di casa sua, il posto che avrebbe dovuto essere per lei il più sicuro al mondo. Suo marito, Dominique, la drogava con sostanze somministrate di nascosto. Poi la lasciava inerme, consegnata a decine di uomini che la violentavano, filmandola.
Non ricordava nulla, finché un giorno ha trovato una chiavetta USB. Dentro, le prove di ciò che le avevano fatto.
In quel momento avrebbe potuto crollare o chiudersi nel silenzio. Invece ha deciso di restare in piedi.
Quando è iniziato il processo, in Francia, Gisèle ha chiesto che fosse pubblico. Ha voluto guardare in volto il marito e tutti quegli uomini. Non ha nascosto il proprio nome, non ha cercato protezione nell’anonimato.
È entrata in aula a testa alta e ha parlato. Ha raccontato con voce ferma ogni dettaglio, tutto ciò che le era stato tolto, tutto ciò che ricordava. E davanti ai giudici, ai giornalisti, al mondo, ha detto:
"La vergogna non dobbiamo provarla noi ma loro.”
Il marito è stato condannato a vent’anni di carcere, gli altri uomini a pene diverse ma la sua vittoria più grande non è nei numeri, è nella dignità che non le hanno potuto strappare.
Ha scelto di tenere il cognome del suo carnefice, Gisèle, non per appartenenza ma per memoria perché il nome che l’ha umiliata diventi anche quello che racconta la sua rinascita.
Ogni volta che qualcuno lo pronuncerà, sarà costretto a ricordare ciò che lei ha avuto il coraggio di denunciare.
Oggi Gisèle non è solo una sopravvissuta. È la prova vivente che la verità, anche quando è inimmaginabile, può riscattare, che raccontare non è riaprire una ferita, è impedirle di marcire nel buio..... e che nessuna donna deve sentirsi colpevole per ciò che ha subito.
A chi porta ancora addosso il peso del silenzio, il suo esempio grida che non c’è vergogna nel dolore, solo forza nel raccontarlo.
Alzare la testa non cancella il passato ma cambia il futuro.

25/10/2025

Anche oggi nessuno parlerà di stupro.
Come se il silenzio potesse cancellarlo.
Eppure accade. Ogni giorno.
In Italia, quotidianamente, 18 donne denunciano una violenza sessuale. In un solo anno, più di 6500.
E quelle che non denunciano? Restano sommerse, intrappolate nella paura, nella vergogna, nel senso di colpa.
Paura di non essere credute, di sentirsi dire che “in fondo ci stava”, che “ci ha ripensato”, che “vuole vendicarsi”.
Paura che nemmeno la giustizia veda l’assenza di consenso per ciò che è: violenza.
Per questo è necessario ricordarlo, chiaramente, senza più zone grigie.
Ecco cosa stabilisce la Corte di Cassazione:

– Senza consenso è stupro. Sempre.
– Se dici basta e lui continua, è stupro.
– Anche il pianto o il silenzio possono dire no.
– Restare fermi, paralizzati, non significa acconsentire: è paura, non complicità.
– Se sei ubriaca, drogata o priva di coscienza, quel rapporto non è libero: è violenza aggravata.
– “Pensavo fosse d’accordo” non è una scusa.
– Chi organizza o assiste a una violenza di gruppo ne è responsabile, anche senza toccare.
– Denunciare tardi non cancella il reato. Mai.

Fermiamoci su queste parole.
Il consenso non è un dettaglio, è il confine.
Chi lo ignora commette un crimine.
La colpa non è mai della vittima.
Essere ubriaca non significa essere disponibile.
Trovare la forza di denunciare, anche dopo molto tempo, è un atto di coraggio, non un errore.

Che questo testo sia un promemoria.
Per ricordare che il silenzio non protegge nessuno.
E che la legge è dalla parte di chi dice no. Sempre.

CLT

16/10/2025

Quando una donna viene uccisa, non possiamo limitarci a commuoverci.
Dobbiamo trasformare quella impotenza collettiva in forza, in domande scomode, in responsabilità.
Pamela Genini, 29 anni, è stata uccisa a Milano con ventiquattro coltellate dal compagno, che aveva duplicato di nascosto le chiavi di casa.
Nelle cronache leggiamo le solite parole: “voleva lasciarlo”, “lui non accettava la fine”, “una lite finita in tragedia”.
Ma non è una tragedia privata. È un fatto politico.
Ogni volta che si parla di “raptus”, “gelosia” o “amore malato” si copre la verità: la violenza maschile nasce da un ordine sociale che ancora legittima il dominio, che insegna a molti uomini a vivere la libertà delle donne come una minaccia.
Le leggi oggi ci sono ma da sole non bastano.
Nel linguaggio delle istituzioni, sicurezza spesso significa controllo, protezione diventa paternalismo, prevenzione si trasforma in giudizio: “ha denunciato in tempo?”, “ha fatto abbastanza per salvarsi?”.
Così la responsabilità si sposta sulle vittime mentre la radice della violenza resta intatta. Nei centri antiviolenza sappiamo che la prevenzione vera nasce nelle relazioni tra donne, nella comunità che riconosce i segnali e agisce insieme.
Protezione non è chiudere le donne in una gabbia sicura ma aprire spazi di libertà, di parola, di rinascita.
Sicurezza significa poter vivere, amare, camminare senza paura.
Ogni volta che una donna viene uccisa come Pamela, la domanda non è solo “perché lui l’ha fatto”, ma “che società siamo diventati per renderlo possibile?”
Finché la libertà femminile continuerà a essere vista come una colpa da punire, nessuna sarà davvero al sicuro.
Solo rompendo questa asimmetria, nelle parole, nel diritto, nella vita di ogni giorno, potremo parlare di libertà vera.
Una libertà che nasce da una nuova cultura e che non uccide.

Non è una questione di partiti… è una questione di diritti! Laura Boldrini propone una legge che non guarda a destra o a...
28/09/2025

Non è una questione di partiti… è una questione di diritti! Laura Boldrini propone una legge che non guarda a destra o a sinistra ma al principio fondamentale: il consenso esplicito al rapporto sessuale.
In molti Paesi europei questa norma è già realtà, non un’ipotesi astratta. Tra i Paesi che riconoscono legalmente che “sesso senza consenso è stupro” ci sono Belgio, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Germania, Grecia, Islanda, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito.  Anche la Norvegia ha recentemente rafforzato la legge per esplicitare che serve consenso, non basta l’assenza di violenza fisica o minaccia. 
Introdurre il consenso esplicito è necessario perché:
• Per definizione: la legge basata solo su violenza, minaccia o costrizione non tiene conto di situazioni più sottili ma altrettanto gravi come il silenzio, lo stupore, l’immobilità psicologica, la paura che paralizza. In certi contesti la persona non può opporre resistenza fisica o non ha gli strumenti per dire “no”. Il consenso esplicito protegge chi subisce questi abusi.
• Per cambiare la responsabilità: non è la vittima che deve provare di aver detto “no”, è chi intraprende l’atto che deve essere certo che ci sia un “sì” libero, chiaro, informato.
• Per prevenire molte forme di violenza sessuale non riconosciute: quelle che avvengono tra persone che si conoscono, all’interno di coppie o relazioni, in ambiti dove la coercizione non è palese, quelle in cui “il partner ha detto che bastava non dire niente”, quelle in cui l’abuso è meno visibile ma dolorosissimo.
• Per dare un segnale culturale: la normativa produce cultura. Quando il “solo sì è sì” è norma di legge, cambia il modo in cui la società pensa al desiderio, al rispetto, all’intimità. Aiuta a smantellare stereotipi: che se non hai urlato non è reato, che se eri ubriaco non conta, che se eri in coppia non è stupro.
• Per migliorare l’accesso alla giustizia: si riducono i requisiti che rendono quasi impossibile denunciare; molti processi falliscono perché la legge non riconosce come reato atti che non coinvolgono violenza ma ne violano la libertà personale.
Insomma, "solo sì significa sì" non è una forzatura ideologica ma un adeguamento necessario di fronte ai fatti. La legge deve proteggere la realtà delle persone, non ignorare ciò che succede perché non rientra nella definizione legale tradizionale. Sosteniamo questa proposta di legge!

Il 19 settembre 1940 la piazza di Oschatz, in Sassonia, non era solo il centro di un piccolo borgo tedesco. Quel giorno ...
20/09/2025

Il 19 settembre 1940 la piazza di Oschatz, in Sassonia, non era solo il centro di un piccolo borgo tedesco. Quel giorno si trasformò in un teatro di crudeltà. Dora von Nessen vi fu trascinata come un trofeo da esibire, rinchiusa nei ceppi davanti a una folla che rideva, insultava, lanciava parole come pietre. Sopra di lei un cartello recitava: “Donna disonorata”. Non aveva rubato né ucciso. Aveva amato un prigioniero di guerra polacco. Per il regime nazista non esisteva peccato più grande: tradire il sangue e la razza.
Il supplizio durò quattro ore, ma non nacque quel giorno. Dora era già stata colpita dal potere molto tempo prima. Nata nel 1900, fragile e timida, portava addosso la fatica di chi fatica a leggere e scrivere, in un’epoca che non perdonava la dislessia. Era bersaglio di scherni e di esclusioni. Poi, nel 1936, lo Stato si arrogò il diritto di entrare nel suo corpo: venne sterilizzata a forza nell’ospedale di Wurzen, in base alla “Legge per la prevenzione della prole affetta da malattie ereditarie”. Con una sola operazione, le tolsero non solo la possibilità di diventare madre, ma anche la dignità. Eppure, malgrado i colpi subiti, Dora seppe scegliere. Quando il marito partì soldato, lavorò nella tenuta di Calbitz-Kötitz, dove i prigionieri di guerra erano trattati come bestie. In quel luogo di violenza lei osò compiere il gesto più proibito e più umano: si innamorò. Lo fece senza proclami, senza rivendicazioni, con la naturalezza con cui il cuore resiste al gelo. Quell’amore era il suo modo di dire no a un sistema che voleva trasformarla in ingranaggio silenzioso.
Il prezzo fu alto: il divorzio, la gogna pubblica, l’umiliazione che i nazisti usarono come spettacolo pedagogico per incutere paura negli altri. Ma la loro strategia fallì, almeno in parte. Perché Dora non si spezzò. Tornò a Fuchshain, trovò un lavoro in fabbrica, visse accanto alla sua famiglia. Non ebbe figli, perché le era stato negato, ma non rinunciò a vivere. Continuò a respirare, a camminare, a resistere. E quando il Reich crollò sotto le macerie della guerra, lei era ancora lì.
Dora von Nessen morì nel 2003, a 103 anni. Più longeva del regime che l’aveva condannata, più tenace di chi aveva provato a cancellarla. La sua storia non è solo la cronaca di una sopravvissuta, ma una lezione: che la forza non sempre grida, a volte tace e attende. Che la dignità può sopravvivere all’umiliazione. E che l’amore, anche se vietato, anche se punito, rimane l’atto più radicale di libertà.
Per le donne di oggi Dora è un invito: non lasciare che qualcun altro definisca chi sei o cosa meriti. Lei, marchiata come “disonorata”, ha dimostrato che l’onore non appartiene alle leggi né alle f***e, ma solo a chi continua a vivere senza rinnegare se stessa.

Lo sapevi che l’unica donna nella storia degli Stati Uniti ad aver ricevuto la Medaglia d’Onore, la più alta onorificenz...
04/09/2025

Lo sapevi che l’unica donna nella storia degli Stati Uniti ad aver ricevuto la Medaglia d’Onore, la più alta onorificenza militare americana, è stata… un chirurgo?
Si chiamava Mary Edwards Walker e no, non la troverai nei libri di scuola.
Nel pieno della Guerra Civile americana, mentre gli uomini combattevano e cadevano sul campo, lei rifiutò di restare a casa. Divenne medico chirurgo al fronte, un ruolo allora riservato esclusivamente agli uomini. Salvò centinaia di vite operando sotto il fuoco nemico, venne fatta prigioniera dagli Stati Confederati, trattata come una spia e non smise mai di battersi per i diritti delle donne.
La cosa che scandalizzava di più? Non il bisturi nelle sue mani, non il coraggio con cui affrontava le ferite e la morte ma il fatto che indossasse i pantaloni. Veniva accusata di “vestirsi da uomo”, come se fosse quello il vero reato e lei rispondeva che i pantaloni le permettevano di fare il suo lavoro meglio delle gonne. Mary si vestiva come voleva, al di la delle convenzioni che le erano imposte.
Non era scomoda solo per l’esercito ma anche per i politici e perfino per alcune suffragiste. Susan B. Anthony ed Elizabeth Cady Stanton la descrissero come una “she-man” e decisero di cancellarla dai documenti ufficiali del movimento per i diritti delle donne. I Confederati, nei rapporti militari, si lamentavano che “discuteva come un intero reggimento di uomini” e suggerirono persino che fosse internata in un manicomio.
Eppure Walker era avanti di decenni: mentre i chirurghi dell’epoca amputavano senza esitazione, lei cercava di salvare gli arti, convinta che molti soldati potessero conservare la vita e la dignità senza mutilazioni inutili. Definiva l’amputazione “pietosamente crudele” se non strettamente necessaria.
Ricevette la Medaglia d’Onore per “servizi eccezionali” ma anni dopo gliela tolsero, perché il Congresso decise che non aveva partecipato “direttamente” al combattimento. Mary non restituì mai la medaglia. La portò appuntata al petto con orgoglio fino all’ultimo giorno della sua vita.
Solo nel 1977, più di cinquant’anni dopo la sua morte, lo Stato americano le restituì ufficialmente l’onorificenza.
Mary Edwards Walker è la prova vivente che la storia non dimentica per caso. Dimentica per scelta. E ricordarla oggi significa ridare voce a tutte quelle donne che hanno cambiato il mondo mentre il mondo faceva finta di non vederle.

Il gruppo Facebook “Mia moglie” è stato chiuso da Meta dopo un’ondata di segnalazioni di persone indignate dai suoi cont...
23/08/2025

Il gruppo Facebook “Mia moglie” è stato chiuso da Meta dopo un’ondata di segnalazioni di persone indignate dai suoi contenuti. Non si trattava di materiale pornografico ma di immagini rubate: donne fotografate in momenti intimi e quotidiani, sul divano, in cucina, in bagno, inconsapevoli di essere esposte al giudizio e agli insulti del web.
Queste non sono goliardate né scherzi innocenti: è violenza. Una violenza che trova riconoscimento nella normativa del Codice Rosso e che può portare a gravi conseguenze penali. Pubblicare senza consenso la foto della propria moglie o di qualsiasi donna significa esporla a umiliazioni e fantasie altrui. È un reato.
Lo stabilisce chiaramente anche l’articolo 613-ter del codice penale, che punisce con la reclusione da 1 a 6 anni e con una multa fino a 15.000 euro chi diffonde o condivide contenuti intimi altrui senza autorizzazione.
Non lasciamo che queste violenze vengano minimizzate. Segnalare, denunciare, “fare la spia” in questi casi non è un atto di debolezza ma di coraggio e responsabilità. È così che si difende la dignità delle donne e si contribuisce a spezzare il ciclo della violenza.

Ci sono donne che, nonostante i secoli e le regole scritte per ridurle al silenzio, hanno saputo incrinare il muro del t...
15/08/2025

Ci sono donne che, nonostante i secoli e le regole scritte per ridurle al silenzio, hanno saputo incrinare il muro del tempo. Non erano celebrate, non era loro riconosciuto il valore, eppure hanno lasciato tracce tanto vive da attraversare i secoli e arrivare fino a noi. Ricordarle oggi è come restituire loro giustizia: un riconoscimento tardivo ma necessario, un atto di ammirazione che le riporta nel posto che spetta loro nella storia.
Tra queste figure c’è Kassia, vissuta nel IX secolo a Costantinopoli, città sospesa tra Oriente e Occidente, cuore dell’Impero bizantino e crocevia di potere, fede e cultura. Poetessa, musicista, monaca. Colta, fiera, bella e soprattutto libera. È considerata la prima compositrice della storia di cui conosciamo il nome e le opere: un primato che non è solo una curiosità ma un segno indelebile della sua resistenza in un tempo che cancellava le firme femminili.
Kassia non ci giunge come un nome scolpito nei manuali ma come una melodia che ha saputo sfidare l’oblio. La leggenda racconta di un giorno in cui l’imperatore Teofilo, durante la cerimonia per scegliere la sposa tra le giovani aristocratiche, le si avvicinò porgendole una mela d’oro e disse: «Attraverso una donna il male è entrato nel mondo». In quell’istante il cortile trattenne il respiro. Ci si aspettava un sorriso compiacente e uno sguardo basso ma Kassia non era lì per compiacere nessuno. Con voce ferma e occhi fissi nei suoi rispose: «E attraverso una donna è venuto il Bene più grande». Non fu una semplice frase ma una lama affilata di sfida che recise ogni possibilità di sottomissione. Così, insieme al sorriso dell’imperatore svanì anche la sua occasione di diventare imperatrice.
Questa occasione per molti preziosa svanita nel nulla, per lei non fu un arretrare ma un avanzare verso sé stessa. Kassia scelse la vita che nessuno aveva scritto per lei. Fondò un monastero, si immerse nello studio, compose poesie e musiche che ancora oggi vengono cantate nella liturgia ortodossa. In piena epoca iconoclasta, quando le immagini sacre venivano abbattute e chi le difendeva rischiava la persecuzione, si schierò apertamente dalla parte della bellezza e della memoria. Nei suoi inni cantò la Madre di Dio, le sante, le donne del Vangelo, con parole preziose e di rara bellezza.
Ricordare Kassia significa restituire voce a chi è stata spinta nell’ombra, è affermare che la voce delle donne, quando sceglie di farsi sentire, può attraversare i secoli senza spegnersi. Kassia ci insegna che la libertà è una conquista che va onorata, che la bellezza più grande nasce dal coraggio di restare fedeli a sé stesse e che, anche quando ci viene imposto il silenzio, si può avere la forza di trasformarlo in canto.

06/08/2025

"Il giorno in cui Giulia fu uccisa è morto qualcosa anche in noi… in me… ma io sono rimasta e da quel momento ho dovuto scegliere: soccombere o resistere"

Mi chiamavo Hedy Lamarr.Prima ancora Hedwig Eva Maria Kiesler.Sono nata a Vienna, nel 1914, figlia di un direttore di ba...
04/08/2025

Mi chiamavo Hedy Lamarr.
Prima ancora Hedwig Eva Maria Kiesler.
Sono nata a Vienna, nel 1914, figlia di un direttore di banca e di una pianista.
Da mio padre ho ereditato il rigore, da mia madre il ritmo. E da entrambi l’idea che la mente fosse il bene più prezioso.
Ero bella. Troppo bella, dicevano.
Una bellezza talmente accecante da cancellare tutto il resto.
Come se un volto potesse contenere, e allo stesso tempo imprigionare, un’intera vita.
Ma io avevo un’arma invisibile: un’intelligenza che tagliava come un bisturi.
E questo, il mondo, non me lo perdonò mai.
Avevo studiato ingegneria, prima che il cinema mi rubasse il nome e mi regalasse la fama.
A vent’anni scandalizzai il mondo: nel film Estasi apparvi nuda. Era il 1933.
Mio marito, un mercante d’armi che brindava con Mussolini e pranzava con Hi**er, voleva cancellare quelle immagini.
Io invece volevo cancellare lui, e quella gabbia dorata in cui mi aveva chiusa.
Scappai. Dal regime, dalla guerra. E da quella pelle che tutti credevano fosse la mia unica identità.
Sbarcai in America nel 1937.
Mi diedero un nuovo nome: Hedy Lamarr.
Sul grande schermo diventai “la donna più bella del mondo”.
Ma mentre il mondo fissava il mio viso, io guardavo altrove.
Pensavo a come fermare le bombe prima che colpissero.
A come rendere sicure le comunicazioni in un mondo che si stava divorando da solo.
Con George Antheil, un compositore, inventai un sistema a spettro espanso.
Una danza di frequenze, come i tasti di un pianoforte, capace di rendere indecifrabili i messaggi radio.
Lo brevettammo nel 1942.
La Marina rise.
Ma oggi quella mia invenzione è nel cuore del Wi-Fi, del Bluetooth, del GPS e di ogni comunicazione cellulare.
Non ho mai vinto un Oscar.
Ho vinto qualcosa di più raro: la Kaplan Medal, i riconoscimenti della Lockheed, della Electronic Frontier Foundation, dell’Inventors Club of America.
E nel 2014, a quattordici anni dalla mia morte, sono entrata nella National Inventors Hall of Fame.
Il giorno della mia nascita, il 9 novembre, oggi è il Giorno dell’Inventore.
Non ero una contraddizione.
Ero una rivoluzione silenziosa.
Ero genio e bellezza fuse nello stesso corpo.
Ed è per questo che il mondo non seppe dove mettermi.
Io ero pronta. Loro no.

Ricordate sempre: non c’è frattura tra la bellezza e l’ingegno.
C’è solo paura in chi non riesce a contenerli entrambi.

04/08/2025

"La donna, se vuole, riesce a far stare
Tanti mobili in una stanza minuscola,
Marmellate di tutti i colori in barattoli piccolissimi,
Il mare dentro un bicchiere da acqua
Una farmacia, una bigotteria, le foto di famiglia dentro una borsa da polso…
Fa stare la notte dentro la sua anima,
Un ricordo nel suo vestito, i suoi singhiozzi dentro una canzone,
La lussuria in uno sguardo, la compassione in un tocco…
L’indifferenza nei suoi passi, l’irresistibilità nelle curve delle labbra, la memorabilità in un sorriso…
La sua mestizia in una sigaretta, i suoi segreti dentro un caffè, le sue grida in un silenzio…
Un uomo nel suo cuore e nel suo letto per tutta una vita, un figlio nel grembo e nella sua vita…
La donna, se vuole, riesce a fare spazio a tutto
Ma chissà perché non riesce a far spazio a se stessa,
Non si riesce farla stare in questo enorme mondo".

Ferzan Özpetek

Indirizzo

Via Carlo Sforza N. 58
Montignoso
54038

Orario di apertura

Lunedì 08:30 - 11:30
Martedì 08:30 - 11:30
Mercoledì 15:30 - 18:30
Giovedì 15:30 - 18:30
Venerdì 08:30 - 11:30

Telefono

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