Gianfranco Ricci - Psicologo

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LA FAMIGLIA DEL BOSCO E IL SENSO DEL LIMITEL’opinione pubblica in queste settimane è stata integralmente catturata dalla...
21/12/2025

LA FAMIGLIA DEL BOSCO E IL SENSO DEL LIMITE

L’opinione pubblica in queste settimane è stata integralmente catturata dalla vicenda della cosiddetta “famiglia del bosco”; molti si sono spesi in riflessioni sull’appropriatezza di metodi di vita ed educativi alternativi ma una questione resta centrale ma trascurata: dov’è il senso del limite?

Partiamo da una breve riepilogazione dei fatti.

A seguito di un accesso al pronto soccorso per una intossicazione alimentare, tre bambini di una coppia anglo australiana vengono allontanati dalla loro casa nel bosco. I bambini vengono affidati ad una casa famiglia, accessibile alla madre.

La relazione dei servizi sociali sottolinea l’inadeguatezza e la mancata agibilità della casa nel bosco, priva di servizi igienici, di elettricità e di acqua corrente. Inoltre si denuncia l’isolamento sociale al quale i minori sono costretti anche a causa del regime educativo di “home schooling” scelto dai genitori.

In questa faccenda, lo Stato interviene nell’ottica della tutela dei minori, attraverso l’intervento di istituzioni, come gli assistenti sociali e il tribunale, che tecnicamente tentano di dirimere la questione. Tuttavia, la situazione sfugge di mano.

Potremmo indicare nella grande attenzione mediatica e quindi nell’inevitabile svolta pubblica della faccenda il momento decisivo di questa storia per il ruolo dei media tradizionali e social. La politica, la stampa e i commentatori si sono azzuffati nel tentativo di attaccare, giustificare, offrire pareri sulla faccenda.

Al centro del dibattito, abbiamo il primato dei genitori sull’educazione dei figli, sulle scelte di vita e di crescita.

Si tratta di un tema secolare, con al centro il confine tra dimensione singolare e privata e il ruolo dello Stato.

Non voglio entrare nel merito della questione, proprio in virtù del senso di questo articolo; mi limito a sottolineare un punto: dov’è il senso del limite?

Come abbiamo visto, si tratta di una vicenda che mescola aspetti tecnici e legali con altri politici, filosofici e sociali. Per questo è necessario capire dove sia il confine tra questi, facendo riferimento al senso del limite.

Il nostro rapporto con il sapere con la realtà è di per sé insufficiente: non possiamo sapere tutto, non possiamo intervenire su tutto, non possiamo capire tutto.

A questa insufficienza spesso si risponde con la sindrome della “tuttologia”, cioè la convinzione difensiva di poter, invece, intervenire su qualsiasi ambito della realtà.

Ecco allora che i media tradizionale moderni diventano l’arena nella quale si combatte una battaglia politica e sociale che dimentica l’unica questione davvero importante.

Ovvero: qual è il bene dei bambini?

Chi deve intervenire? L’impossibilità emotiva di fare i conti con i limiti del sapere dell’azione si scontra con la distanza emotiva che la dimensione della tecnica porta con sé.

La vicinanza il calore familiare vincono su la fredda e dura dimensione della legge. La mobilitazione sociale a tutela della famiglia riguarda proprio questo aspetto;

l’idea stessa che la famiglia in quanto tale sia luogo di calore vince sul freddo sapere della legge e della scienza, condannata a rimanere emotivamente distante.

Accettare il limite implica uno sforzo mentale e una consapevolezza di sé che l’emotività spesso rifiuta. Intervenire riflette infatti una primitiva ma efficace strategia per tamponare l’angoscia che l’impotenza determina.

L’articolo completo è disponibile sul sito.

FREUD E IL “PADRE DELL’ORDA”Sigmund Freud ha più volte sottolineato come la psicoanalisi non sia solo un trattamento per...
18/12/2025

FREUD E IL “PADRE DELL’ORDA”

Sigmund Freud ha più volte sottolineato come la psicoanalisi non sia solo un trattamento per la sofferenza psichica. Il metodo analitico infatti può essere applicato in una molteplicità di contesti. Freud stesso ha scoperto delle singolari continuità tra i sintomi nevrotici e i fenomeni culturali.

Molte di queste osservazioni sono contenute in un saggio del 1913 intitolato “Totem e tabù”.

In quest’opera, Freud applica il metodo della psicoanalisi all’antropologia, all’archeologia e allo studio della religione.

Freud si chiede come possa essere nata la società e l’idea stessa di Dio. Come nasce la famiglia? Perché avvertiamo il senso di colpa? Come nasce il complesso di Edipo?

Per rispondere a queste domande, Freud cerca sostegno nelle ricerche di molti esperti del suo tempo, come James Frazer e Charles Darwin.

Scrive Darwin:
“se rivolgiamo lo sguardo sufficientemente addietro nel fiume del tempo, ... giudicando in base alle abitudini sociali dell'uomo che esiste attualmente… l'opinione più plausibile è che ogni uomo primitivo vivesse in origine in piccole comunità insieme a tante donne quante ne poteva mantenere e ottenere, e che egli le difendesse gelosamente contro tutti gli altri uomini. Oppure può darsi che vivesse con più donne per sé solo, come il gorilla; perché tutti gli indigeni concordano nel dire che in ogni gruppo si vede soltanto un maschio adulto; quando il giovane maschio è cresciuto, ha luogo un combattimento per il dominio, e il più forte, dopo aver ucciso e cacciato gli altri, s'impone come capo della comunità. I maschi più giovani, cacciati in tal
modo e vaganti di luogo in luogo, allorché saranno finalmente riusciti a trovare una compagna, impediranno unioni consanguinee troppo strette entro la cerchia di una stessa famiglia."

Su questa ipotesi darwiniana, Freud costruisce la sua teoria circa la nascita della civiltà basata sulla figura del “Padre dell’orda”: vi sarebbe stato un tempo nel quale l’orda sarebbe stata dominata da un solo uomo, l’unico che poteva liberamente accedere alle donne.

I suoi figli, unendo le loro forze, sarebbero stati capaci di ribaltare il suo potere, uccidendolo. Tutti insieme, accomunati dallo stesso crimine, avrebbero fondato un nuovo legame di comunità basato sul comune rifiuto della violenza e della reciproca sopraffazione. Allo stesso tempo, spinti dal senso di colpa, avrebbero elevato il padre ucciso a divinità, puro simbolo protettivo da adorare.

Così Freud immagina il passaggio dall’epoca prima della storia alla nascita della civiltà. Il padre dell’orda sarebbe, a livello logico, l’elemento esterno su cui si fonda l’uguaglianza tra gli uomini che appartengono all’orda.

L’unità dell’orda sarebbe garantita dal rifiuto di tutti di ripetere il crimine commesso insieme contro il padre.

Così, in ogni uomo, Freud coglie il conflitto tra il desiderio edipico di spodestare il padre e il senso di colpa legato al compiere un’azione proibita. Su questa stessa radice, Freud coglie la nascita del sentimento religioso come sublimazione dell’amore per il padre.
In questo consiste la dimensione più radicale della psicoanalisi: alla radice di tutte le vicende umane, tanto quelle culturali quanto la sofferenza nevrotica, vi sarebbero gli stessi processi, basati sul conflitto tra desideri, pulsioni e istanze psichiche.

L’articolo è completo disponibile sul sito.

Per approfondire:
-Sigmund Freud – “Totem e tabù”;
-James Frazer – “Il ramo d’oro”;
-Charles Darwin – “L’origine delle specie”.

Intervento ad Aversa, ISISS E. MatteiProgetto "Nelle parole degli adolescenti" con Jonas Napoli
15/12/2025

Intervento ad Aversa, ISISS E. Mattei

Progetto "Nelle parole degli adolescenti" con Jonas Napoli

LA SINDROME DEL PRINCIPE CARLOLe evoluzioni sociali, economiche e politiche degli ultimi decenni hanno trasformato profo...
15/12/2025

LA SINDROME DEL PRINCIPE CARLO

Le evoluzioni sociali, economiche e politiche degli ultimi decenni hanno trasformato profondamente gli equilibri e le dinamiche familiari. L’aumento significativo dell’aspettativa di vita ha fatto sì che i rapporti familiari coinvolgessero non più solo due generazioni, bensì almeno tre.

Nella prima metà del XX secolo, conoscere i propri nonni era un’esperienza ancora relativamente rara. Dopo la seconda guerra mondiale, con la grande crescita economica in Occidente, i nonni sono diventati una fondamentale risorsa nell’accudire i bambini piccoli.

Nel corso dei decenni è invece divenuta sempre più frequente la possibilità di essere nipoti e figli fino alla tarda età.

Nel tempo sono cambiate le metafore che descrivono i rapporti familiari: il complesso di Edipo è prezioso per descrivere il conflitto tra genitori e figli e il passaggio di testimone tra le generazioni. Oggi invece sarebbe importante anche conoscere i nonni di Edipo!

Queste profonde trasformazioni hanno portato a inevitabili assestamenti all’interno delle dinamiche familiari. In particolare, l’aumento delle aspettativa di vita tocca il modo nel quale la società si trasforma e il concetto di eredità.

In quest’ottica appare molto utile la riflessione sociologica e filosofica di Chiar Saraceno.

Che influenza ha la coesistenza di più generazioni sull’evoluzione della società?
Ciascuna generazione infatti crea i propri costrutti e le pratiche che costituiscono tanto un vincolo quanto un’opportunità per coloro che verranno.
Da una parte la cultura costituisce una base di partenza per costruire il nuovo; dall’altra diviene una sorta di limite alla possibilità di concepire qualcosa di radicalmente diverso rispetto all’esistente.

Siamo di fronte ad un letto di Procuste, che vincola tutti ad una sola misura, o è possibile aprirsi al “nuovo”?

Nella pratica clinica si osserva sempre più spesso il fenomeno di genitori in difficoltà nel rapporto coi figli perché profondamente vincolati, nonostante un’età sempre più avanzata, al loro ruolo di “figli” dei propri genitori.
Per questo possiamo osservare come molte madri e padri siano intrappolati in una sorta di “sindrome del principe Carlo”: eterni eredi, destinati a non succedere simbolicamente mai ai loro genitori, con un inevitabile effetto di svilimento sul piano simbolico e dell’autorevolezza.

La successione tra le generazioni, una volta favorita dalla maggiore brevità della vita, è un processo insieme biologico e simbolico: da una parte chi scompare lascia concretamente spazio a chi rimane; dall’altra è in gioco un processo simbolico di occupazione di un certo ruolo.

I genitori di oggi non assomigliano al forte Enea, che prende sulle proprie spalle il debole Anchise e conduce per mano, lontano dalle rovine della Patria in fiamme, il piccolo Ascanio. Piuttosto assomigliano ad adulti screditati e in difficoltà nel far valere un’identità alternativa a quella di figli dei propri genitori.

Spesso incontriamo genitori completamente assorbiti dal lavoro e sostituiti dai nonni nella loro funzione educativa. Tutto questo si traduce spesso in un salto di generazione, che porta i nonni a screditare i propri figli e i nipoti a non vedere nei propri genitori dei punti di riferimento. Anzi, spesso i genitori di oggi assomigliano a dei “fratelli/sorelle” maggiori dei propri figli, con tutta l’autorità simbolica in capo ai nonni, “genitori di tutti”.

I genitori quindi diventano figure eternamente “in panchina”, in attesa di assumere pienamente quel ruolo per cui a lungo hanno aspettato. Un certo eccesso di accondiscendenza e un deferente rispetto delle consuetudini nascondono in realtà una fatica nel separarsi, accettando la fatica di divenire adulti sul piano simbolico e non solo su quello cronologico.

Sicuramente è in gioco la capacità delle generazioni precedenti di “saper tramontare”, riconoscendo le legittime ambizioni delle generazioni successive. Dall’altra per i genitori si tratta di saper far valere il proprio desiderio, assumendo quindi pienamente il proprio ruolo simbolico.

Quali sono le possibili vie per superare questo conflitto tra le generazioni?

Lo vediamo nell’articolo completo, disponibile al link nel primo commento.

Per approfondire:
- Björn Salomonsson – “Terapia psicoanalitica con bambini e genitori. Pratica, teoria e risultati”;
-Massimo Recalcati – “Il complesso di Telemaco”;
-Chiara Saraceno – “La famiglia naturale non esiste”.

DORIAN GRAY SUL LETTINO DI LACANOscar Wilde, geniale scrittore e poeta inglese, ha pubblicato un solo romanzo: il famoso...
11/12/2025

DORIAN GRAY SUL LETTINO DI LACAN

Oscar Wilde, geniale scrittore e poeta inglese, ha pubblicato un solo romanzo: il famoso “ritratto di Dorian Gray” (1891). Considerato un capolavoro della letteratura horror gotica, il racconto è costruito intorno al tema della responsabilità e del rapporto tra bellezza e virtù.

Il protagonista, Dorian, è un giovane di straordinaria bellezza. Il pittore Basil Hallward, stregato dalla bellezza di Dorian, decide di realizzare un ritratto che renda immortale la bellezza del giovane.

Dorian si trova a confrontato con la propria immagine, elevata ad ideale eterno. Preso dal panico per l’inevitabile declino del proprio corpo e della propria bellezza, si dice pronto a sacrificare la persino l’anima pur di non invecchiare.

Da quel momento, il passare del tempo e i delitti compiuti da Dorian non lasceranno più traccia sul suo viso ma sull’immagine ritratta nel quadro. Nel corso del tempo la figura dipinta sul ritratto diviene sempre più vecchia e deforme.

Dorian tiene nascosto il ritratto nella soffitta: l’immagine un tempo ideale è ora invecchiata e imbruttita e diventa oggetto di ironia e scherno da parte di Dorian, rimasto giovane e incorrotto nell’aspetto.

Alla fine, divorato dai rimorsi e dal senso di colpa, Dorian decide di distruggere la tela ma, nell’atto di lacerarla con un coltello, finisce con l’annullare la maledizione A questo punto, il ritratto recupera le proprie fattezze originarie e Dorian, divenuto un vecchio orribile e deforme, giace a terra morto, trafitto dallo stesso coltello utilizzato per fendere la tela.

Il romanzo di Oscar Wilde metti al centro il complesso rapporto del soggetto con la propria immagine. Per lo psicoanalista francese Jacques Lacan, l’immagine che il soggetto costruisce di sé ha una funzione decisiva.

Una delle prime teorie elaborate da Lacan è la “fase dello specchio”. Il bambino nasce senza conoscere la propria immagine e la incontra per la prima volta allo specchio. Questo incontro è fonte di gioia per il bambino, perché l’immagine offre un senso di unità; su questo elemento si fonda il narcisismo del soggetto, che altro non è che l’amore per la propria immagine.

Tuttavia, nel romanzo di Wilde, l’incontro con l’immagine scatena in Dorian un vissuto ben diverso: prima il panico, poi l’odio. L’odio per l’immagine, sottolinea Lacan, è l’odio per l’ideale.

Il soggetto infatti sperimenta di essere insufficiente rispetto all’immagine, di non poter mai coincidere con l’ideale che l’immagine rappresenta. Come sottolinea lo psicoanalista Massimo Recalcati: “l’immagine è odiata proprio in quanto è amata e sottratta”.

L’immagine ideale è irraggiungibile come l’orizzonte; è fonte di dolore perché non ha rapporto con la realtà: nulla permette di trasformare l’ideale in reale.

Nel romanzo, Dorian sembra riuscire in un miracolo: coincidere con l’ideale e rifiutare le conseguenze delle proprie azioni, delle sue colpe, persino l’invecchiamento. Il ritratto occupa il posto del reale, subendo tutti gli effetti delle malefatte di Dorian e le offese del tempo che passa.

Nel romanzo è in gioco un vero e proprio ribaltamento del rapporto tra immagine e soggetto descritto dalla psicoanalisi.

Tutto questo però non permette di superare la divisione tra soggetto e immagine: Dorian resta separato dall’immagine del ritratto che gli rimanda volta per volta l’inevitabile conto da pagare con la vita.

Distruggere la tela rappresenta quindi il disperato tentativo di annullare questa separazione strutturale, di far coincidere ideale e reale. Cercando di distruggere la tela, Dorian subisce il destino di Narciso, finendo per uccidere se stesso.

L’articolo completo è disponibile sul sito.

Per approfondire:
-Oscar Wilde - “Il ritratto di Dorian Gray”;
-Massimo Recalcati – “La pratica del colloquio clinico”;
-Jacques Lacan – “Lo stadio dello specchio nella formazione dell’individuo”.

IL MITO DI ECOIl mito della ninfa Eco è uno dei più affascinanti della mitologia greca. Ovidio racconta la storia della ...
08/12/2025

IL MITO DI ECO

Il mito della ninfa Eco è uno dei più affascinanti della mitologia greca. Ovidio racconta la storia della sfortunata ninfa nella sua opera intitolata “Metamorfosi”.
Eco è nota per la sua grande abilità nell’uso della parola e per il tono soave della sua voce.

Alleata di Zeus, la ninfa aiutava il sovrano degli dei a nascondere i suoi tradimenti nei confronti di Era, la sovrana dell’Olimpo. Eco infatti distraeva la dea, dando a Zeus il tempo di non essere scoperto insieme alle sue amanti.

Una volta scoperto il trucco, Era decise di punire la ninfa: “dell’uso della lingua, dalla quale sono stata ingannata, ti sarà data una capacità limitata e un uso ancor più limitato della tua voce!”

La ninfa venne condannata a ripetere le ultime parole appena ascoltate dai suoi interlocutori.

Tuttavia, una sorte ancora peggiore aspettava la povera Eco; la ninfa infatti incontrò il bellissimo Narciso e si innamorò perdutamente del giovane. Eco cercò di avvicinare il suo amato ma ad ogni parola rispondeva senza ripetere altro che quanto le veniva detto. Così facendo, scatenò l’ira di Narciso che decise di ignorarla, perché si sentiva vittima di uno scherzo.

Il dolore per il rifiuto subìto fu tanto atroce da far sì che Eco si consumasse con le sue stesse lacrime. Di lei non sarebbe rimasta che la voce, persa nelle valli e sulle montagne.

Dalla ninfa Eco prende il nome l’“ecolalia”, un disturbo di linguaggio tipico della psicosi; chi ne soffre tende a ripetere, proprio come in un eco, le ultime parole o frasi pronunciate da altre persone.

Lo struggente mito di Eco offre l’occasione di studiare più da vicino anche il funzionamento del linguaggio in generale e il suo uso in psicoanalisi.

L’ascolto dell’analista mette al centro il “testo del paziente”. Cosa significa?
Ce lo spiega lo psicoanalista, Massimo Recalcati:
“non serve congetturare su quello che il paziente vorrebbe dire secondo i nostri modelli teorici di riferimento, ma occorre ascoltare ciò che dice effettivamente”.

È per questo che Freud invitava gli analisti a sottoporsi ad un’analisi personale prima di dedicarsi alla pratica clinica: per imparare a non pensare mentre si ascolta. Si tratta infatti di non dare spazio alle proprie suggestioni soggettive, ma di “ascoltare alla lettera ciò che il paziente dice”.

In secondo luogo, un aspetto centrale della funzione della parola è legata alla risposta dell’altro. Il senso di ciò che diciamo infatti non è semplicemente contenuto all’interno delle parole, ma si determina per un effetto di “retroazione”, cioè di risposta.

Per rendere chiaro questo aspetto centrale del funzionamento della parola, Lacan utilizza la metafora del “grido” del bambino: immaginiamo un bambino nella culla, che piange disperato; se nessuno lo ascolta, se nessuno risponde, il suo grido cade nel vuoto, privo di significato. È l’ascolto dell’altro e l’interpretazione del grido a dotare di senso il pianto del bambino.

Continua Recalcati:
“il ruolo dell’analista si gioca quindi nella funzione della risposta la parola del soggetto come ciò che conferisce retroattivamente un senso nuovo a quella parola per il solo fatto che essa venga riconosciuta, cioè ascoltata… questo significa che il messaggio non è già costituito nella parola del soggetto, ma si costituisce solo secondo la logica dell’après-coup, retroattivamente, a partire dalla risposta dell’altro.”

Per questo l’atto proprio dell’analista è l’“interpunzione”, un vero e proprio effetto di punteggiatura nel discorso del paziente.

L’atto dell’analista che ripete con una torsione inedita, una “felice interpunzione”, la parola detta dal paziente permette l’emergere di un senso nascosto, producendo un “effetto di significazione”. Questo permette, senza scavalcare il testo del paziente, di fare emergere quanto di inconscio c’è nella sua parola.

Come vediamo, Eco è condannata solo a ripetere, in modo uguale, quanto le viene detto; l’analista invece con la sua ripetizione, non fa semplice “eco”, ma apre alla domanda che si nasconde nella parola del paziente.

L’articolo completo disponibile sul sito.

Per approfondire:
-Ovidio – “Metamorfosi”;
-Massimo Recalcati – “La pratica del colloquio clinico”;
- Christopher Bollas – “Tre caratteri. Narcisista, borderline, maniaco-depressivo”.

LUDWIG BINSWANGER E L’AMOREChe cos’è l’amore? Da millenni filosofi, poeti e artisti si interrogano su questa esperienza ...
04/12/2025

LUDWIG BINSWANGER E L’AMORE

Che cos’è l’amore?

Da millenni filosofi, poeti e artisti si interrogano su questa esperienza centrale della vita umana. Anche la fenomenologia, nelle sue varie diramazioni tra filosofia e clinica, ha tentato di dare una risposta all’enigma dell’amore.

Ludwig Binswanger è stato filosofo e psichiatra, uno dei padri dell’analisi esistenziale e della psichiatria fenomenologica. La sua concezione della follia si basa inizialmente sulle idee di Husserl ed Heidegger, per poi maturare una propria concezione originale, sempre riferimento al modo di “essere-nel-mondo” di ciascun soggetto.

Secondo lo psichiatra, l’uomo non è mai in un rapporto disinteressato rispetto agli altri e alle cose. Il soggetto si trova sempre infatti catturato in una dimensione spaziale e temporale che lo orienta e allo stesso tempo lo vincola.
Che idea aveva Ludwig Binswanger dell'amore?
Per Binswanger l’amore costituisce un’esperienza alternativa a tutte le altre; in particolare, per il filosofo l’esperienza dell’amore sarebbe l’esatto opposto dell’alienazione: nella sua analisi dell’amore, Binswanger sottolinea la necessità di distinguere l’amore vero e proprio da rapporti basati sulla manipolazione o la sottomissione dell’altro. Piuttosto, l’amore sarebbe una manifestazione della pienezza dell’essere del soggetto.

In questo senso, l’amore porterebbe il soggetto a superare i propri vincoli di spazio e di tempo. Il legame tra due soggetti innamorati allora non sarebbe più condizionato dalle coordinate classiche della soggettività, per dare vita a un’esperienza inedita.

In “Forme fondamentali e conoscenza dell’esserci umano” (1942), Binswanger introduce la formula della “forma attuale dell’amore”, altrimenti detta “dualità amante”. Secondo il filosofo, chiama fa l’esperienza di “essere-nel-mondo-oltre-il-mondo”.

Binswanger giunge a parlare di una spazialità inedita, che chiama “patria dell’amore”; come sottolinea Arianna Merola San Severino:

“Non è la “mia patria” ma la “nostra patria”, la patria del nostro incontro e del nostro accoglierci reciproco. Chi si costituisce in essa vive l’esperienza di essere pervenuto a luogo che più di ogni altro gli è proprio, di aver ritrovato il luogo della propria origine, verso cui tendeva, era sempre in cui può rivelare se stesso pienamente. Si può essere se stessi solo costituendosi nel Noi, essendo insieme-con-un-altro.”

Per lo psichiatra è quindi la dimensione del “Noi” a fondare l’esperienza autentica dell’amore.

La concezione fenomenologica quindi si pone in aperta contrapposizione con quella freudiana, che vede invece nell’amore la ricerca del mitico oggetto perduto del primo soddisfacimento pulsionale. In altri termini, per Freud nell’amore faremo l’esperienza di ricercare quanto abbiamo perduto.

Che posto occupa l’altro nell’amore per Freud? Secondo la teoria della psicoanalisi, tra chi ama e chi è amato vi è una profonda asimmetria: da una parte chi ricerca l’oggetto perduto e dall’altra chi invece è considerato, tramite l’inganno della pulsione, possessore dell’oggetto stesso.
L’amore freudiano sarebbe quindi frutto di un’illusione, di un fraintendimento fondamentale tra presente e passato.

La concezione fenomenologica fa invece della nozione di incontro il punto di inizio di un’esperienza soggettiva inedita, che apre scenari nuovi: dalla progettualità del singolo e dal suo modo di essere-nel-mondo si giunge quindi alla dualità, al “Noi” sul quale si fonda la “patria dell’amore”.

Tanto Freud quanto Binswanger fanno dell’esperienza dell’amore una leva fondamentale della terapia; se per il padre della psicoanalisi la cura è “essenzialmente tramite l’amore”, cioè tramite la leva del transfert, per Binswanger è invece necessario creare nella terapia un due tramite l’“aver cura”.

Il passaggio attraverso il “due dell’amore” sarebbe la fase preliminare di una successiva emancipazione che possa riportare il soggetto a fare i conti con il proprio progetto personale nel mondo.

L’articolo completo è disponibile sul sito.

Per approfondire:
-Ludwig Binswanger -“Forme fondamentali e conoscenza dell’esserci umano”;
-Umberto Galimberti – “Psichiatria e fenomenologia”;
-Arianna Merola San Severino – “Follia a due”.

TARZAN SUL LETTINO DI FREUDTarzan è un personaggio immaginario, nato dalla fervida fantasia dello scrittore Edgar Rice B...
01/12/2025

TARZAN SUL LETTINO DI FREUD

Tarzan è un personaggio immaginario, nato dalla fervida fantasia dello scrittore Edgar Rice Burroughs. Il primo romanzo che lo vede protagonista, intitolato “Tarzan delle scimmie” è stato pubblicato nel 1912 ed è rapidamente divenuto un grande successo.

Tarzan prende forma nel pieno della cosiddetta “Belle Époque”, gli anni prima della g
Grande Guerra, durante i quali la cultura europea occidentale si impose sul resto del mondo.

Le esplorazioni dei continenti meno conosciuti, come l’Africa, portarono le potenze europee a scoprire e sottomettere culture considerate inferiori.

L’arrivo di manufatti esotici costituiva uno stimolo importante per l’arte europea, come le opere di Picasso e Modigliani dimostrano.

Pensiamo, ad esempio, all’opera “Les demoiselles d’Avignon” di Picasso del 1912: l’artista rappresenta delle donne con maschere africane. Non a caso quest’opera costituisce il dipinto più conosciuto del cosiddetto “periodo africano” di Picasso.

In questo vibrante e vivace contesto culturale, Tarzan rappresenta l’archetipo dell’uomo primitivo che torna in contatto con la civiltà. Non si tratta semplicemente di un simbolo che rappresenta la difficile coesistenza tra mondi culturali diversi; piuttosto, è in gioco il lutto collettivo dell’umanità per la perdita dello "stato di natura".

Il mito del “buon selvaggio” ha molteplici esempi nel passato: i filosofi Thomas Hobbes, John Locke e Jean-Jacques Rousseau immaginavano come potesse essere un’umanità prima della legge e dell’emergere della cultura.

Ad esempio, per Hobbes, lo stato di natura sarebbe stato caratterizzato da una violenta conflittualità senza limiti; per Rousseau invece lo stato di natura sarebbe stato l’unico nel quale trovare libertà, salute e felicità.

Anche la psicoanalisi si interroga sul rapporto tra natura e civiltà. Per Freud la civiltà era un male necessario, utile a vincolare la spinta dell’aggressività; accettare le regole e i limiti della civiltà significa rendere possibile la vita "umana", al prezzo della rinuncia ad una piena soddisfazione della pulsione.

Lo psicoanalista Jacques Lacan sottolinea invece la strutturale condizione di "alienazione" dell’uomo rispetto allo "stato di natura"; secondo Lacan non vi sarebbe stato di natura per effetto del linguaggio. In altre parole, l’esistenza stessa del linguaggio costituirebbe la condizione di separazione permanente e strutturale dell’uomo dal resto degli esseri viventi.

Secondo questa concezione, il concetto stesso di stato di natura sarebbe un vero e proprio mito; non sarebbe quindi possibile distinguere tra un tempo nel quale l’uomo era una creatura tra le altre e invece l’inizio della storia e della civiltà.

Tarzan allora rappresenterebbe l’ennesimo tentativo di sublimare questo "lutto collettivo", attraverso l’incontro reale con un’umanità non corrotta, non influenzata dalla cultura e dalla legge.

Tarzan comunica con gli animali, in una profonda connessione con loro.
L’uomo civilizzato è invece esiliato, escluso e alienato: distante dal proprio desiderio, è per così dire “traumatizzato” e “negativizzato” dall’effetto del linguaggio sulla psiche e sul corpo. Per questo, alla luce della psicoanalisi, nell’uomo non si parla di istinto bensì di “pulsione”.

Da un altro punto di vista, alcuni psicoanalisti della scuola chiamata “psicologia dell’Io” considerano possibile rintracciare la dimensione primitiva dell’umanità nell’inconscio; secondo questa concezione, l’inconscio sarebbe la parte animale dell’uomo, priva di regole e dei limiti imposti dalla civiltà. In questo senso, l’io dovrebbe imporsi sull’inconscio per civilizzarlo.

Lacan invece critica questa concezione perché coglie nell’inconscio una “ragione alternativa” a quella dell’Io e dell’Altro; se gli psicologi dell’Io affermano che l’istanza dell’Io debba subentrare all’inconscio primitivo per civilizzare l’umanità, Lacan invece afferma che siano l’inconscio e il desiderio del soggetto a doversi realizzare, relativizzando il peso dell’Io nell’economia psichica.

L’articolo completo è disponibile sul sito.

Per approfondire:
- Edgar Rice Burroughs – “Tarzan delle scimmie”;
- Sigmund Freud – “Il disagio della Civiltà”;
- Alex Pagliardini – “Jacques Lacan e il Trauma Del Linguaggio”.

IL LUTTO DI PIRANDELLOLuigi Pirandello è stato uno dei grandi maestri della letteratura e della drammaturgia italiana. P...
27/11/2025

IL LUTTO DI PIRANDELLO

Luigi Pirandello è stato uno dei grandi maestri della letteratura e della drammaturgia italiana. Premio Nobel per la letteratura nel 1934, Pirandello ha fatto dell’esplorazione dell’interiorità e della follia uno dei pilastri della propria ricerca.
L’impossibilità di comunicare pienamente e di conoscere il proprio sentire sono alcuni dei temi tragici che caratterizzano i personaggi e le opere del grande scrittore siciliano.

Uno dei momenti più toccanti della sua difficile vita è stato la perdita della madre (1919). Pirandello scopre della morte della madre mentre si trova lontano, in Germania.

Il tema del lutto, della perdita e della mancanza di chi lo ha amato, viene affrontato nelle “Novelle per un anno” (1922). In queste pagine, Pirandello dà voce ad un dialogo interiore tra sé e la madre.

Scrive Pirandello:

Madre: “Voi, del resto, tu che mi sei stato sempre lontano, così lontano, pensatemi ancora viva! Non sono forse io viva per te?

Pirandello: “Oh, Mamma, sì! - io le dico. – Viva, viva, sì... ma non è questo! Io potrei ancora, se per pietà mi fosse stato nascosto, potrei ancora ignorare il fatto della tua morte, e immaginarti, come t'immagino, viva ancora laggiù, seduta su codesto seggiolone nel tuo solito cantuccio, piccola, coi nipotini attorno, o intenta ancora a qualche cura familiare. Potrei seguitare a immaginarti così, con una realtà di vita che non potrebbe esser maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t'ho data sapendoti realmente seduta là in quel tuo cantuccio…

E questo mi sosteneva, mi confortava. Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com'eri, con la stessa realtà che per tanti anni t'ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva per sempre sarai finché io sarò vivo…”

Pirandello descrive l’esperienza interiore della sopravvivenza psichica della propria madre. Come possiamo descrivere questo fenomeno dal punto di vista della psicoanalisi?
Il grande psicoanalista, Franco Fornari ha offerto una preziosa descrizione di questo processo psichico in termini di “famiglia interna”.

Afferma Fornari:

“Per spiegarvi che cos’è la buona famiglia interna, vorrei riferirmi a Pirandello. Pirandello ha perso la madre in un periodo in cui si trovava in Germania. Prima che lui ricevesse la notizia, erano passate 10 ore dall’ora in cui la madre era morta, quando lui l’ha saputo.
Di fronte a questo lutto, Pirandello ha reagito un modo che è tipico di tutta la sua creazione poetica. Pirandello si è detto: “ma se mia madre è morta 10 ore fa e io lo so adesso, dentro di me mia madre viveva anche se era morta. Allora c’è una madre dentro di me che non morirà mai e che continuerà a vivere finché io vivrò. Piuttosto sono io che sono morto perché non incontrerò più nessuno nella vita che mi guardi con gli stessi occhi con cui mi guardava mia madre.”

Cosa vuol dire questa riflessione di Pirandello?

Le grandi Imago, le grandi immagini da cui noi ricaviamo la nostra vita affettiva non sono solo le persone reali, sono nostri oggetti interni. La terapia degli affetti intende recuperare dei genitori eterni che vivono al di dentro di noi anche quando i genitori reali sono morti.”

Fornari coglie il profondo legame tra affetto e identità, tra relazione e valore.

Prosegue Pirandello:

“ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò vivo per te mai più! Perché tu non puoi più pensarmi com'io ti penso, tu non puoi più sentirmi com'io ti sento! E ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. Tu l'avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l'avrò più in te.”

Nelle parole di Pirandello e nella descrizione psicoanalitica di Fornari vediamo in modo molto vivo quanto Freud descrive in “Lutto e melanconia”: la morte della madre diventa morte del soggetto, “l’ombra dell’oggetto perduto cade sull’Io”, come afferma Freud.

Conclude Pirandello:
“L'ombra s'è fatta tenebra nella stanza. Non mi vedo e non mi sento più. Ma sento come da lontano lontano un fruscio lungo, continuo, di fronte, che per poco m'illude e mi fa pensare al sordo fragorio del mare, di quel mare presso al quale vedo ancora mia madre…

L’articolo completo è disponibile sul sito.

Per approfondire:
-Luigi Pirandello – “novelle per un anno”;
-Franco Fornari – “la terapia degli affetti”;
-Sigmund Freud – “Lutto e melanconia”.

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Naples

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