Gianfranco Ricci - Psicologo

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30/10/2025

Cari Amici,
oggi siete diventati 14.000.

Grazie per dare anima ogni giorno a questa pagina.

Con affetto,
Vostro Dottor Gianfranco Ricci

LA TORRE DI JUNGCarl Gustav Jung è stato uno dei padri della “psicologia del profondo”, un vero e proprio pioniere dell’...
30/10/2025

LA TORRE DI JUNG

Carl Gustav Jung è stato uno dei padri della “psicologia del profondo”, un vero e proprio pioniere dell’esplorazione dell’inconscio.

La sua vita fu interamente dedicata allo studio della psiche attraverso le lenti dell’antropologia, della religione, della letteratura e della mistica. Separatosi da Freud, attraversò una profondissima crisi personale: Jung scelse di “sprofondare negli abissi” della propria psiche per confrontarsi con i propri fantasmi interiori.

Si ritirò sul lago di Zurigo, a Bollingen, per vivere e lavorare in solitudine. Qui iniziò la costruzione di una torre.

Racconta Jung:
“Avevo cominciato la prima torre nel 1923, due mesi dopo la morte di mia madre. Queste date hanno un senso, perché, come vedremo, la Torre è legata ai morti. Fin dal principio sentii la Torre come un luogo, in un certo senso, di maturazione, un grembo materno o una figura materna nella quale potessi diventare ciò che fui, sono e sarò.”

In prima persona, aiutato dal cugino e pochi amici, Jung diede corpo ad un primo edificio: lo psicoanalista attraverso quell’opera cercava di ““dare una qualche rappresentazione in pietra dei miei più interni pensieri e del mio sapere. O, per dirla diversamente, dovevo fare una professione di fede in pietra.”

Nei progetti di Jung la torre doveva essere una sorta di edificio primitivo; negli anni venne arricchita con edifici aggiuntivi, incisioni, immagini scolpite nella roccia.

Nel suo libro di memorie, Jung afferma che la torre “doveva essere una costruzione rotonda, con un focolare al centro e cuccette lungo le pareti. Più o meno avevo in mente una capanna africana, dove il fuoco, circondato da pochi sassi, arde nel mezzo…”

Una delle epigrafi più famose della torre riporta “Vocatus atque non vocatus, Deus aderit”: “invocato o meno, il dio si manifesta”. Con questa massima Jung indicava in modo preciso quanto per il soggetto l’esperienza dell’inconscio e della propria emotività possa prendere due strade: la via consapevole dell’individuazione oppure il subire passivamente l’irruzione dell’inconscio sulla scena della vita.

L’evoluzione psichica di Jung si rifletteva direttamente nell’espansione progressiva del progetto iniziale della torre: “Mi resi conto che dovevo costruire una vera casa a due piani, e non una semplice capanna, accoccolata, per così dire, al suolo”, testimonia Jung.

Scrive Jung:
“Dopo la morte di mia moglie nel 1955, sentii l’intima obbligazione di diventare ciò che sono. Per esprimermi col linguaggio della casa di Bollingen, mi resi conto a un tratto che la piccola sezione centrale, così acquattata, così nascosta fra le due torri, rappresentava me stesso o il mio io. Perciò, in quell’anno stesso, aggiunsi a questa sezione un altro piano. Prima non avrei potuto farlo; l’avrei considerato una presuntuosa ed enfatica affermazione di me stesso; adesso invece rappresentava la superiorità della coscienza raggiunta con la vecchia età. Con ciò, a un anno dalla morte di mia moglie, l’edificio era compiuto. Avevo cominciato la prima torre nel 1923, due mesi dopo la morte di mia madre. Queste date hanno un senso, perché, come vedremo, la Torre è legata ai morti. Fin dal principio sentii la Torre come un luogo, in un certo senso, di maturazione, un grembo materno o una figura materna nella quale potessi diventare ciò che fui, sono e sarò.”

Il lavoro psichico di esplorazione dell’inconscio si accompagna a quello giornaliero di lavoro della pietra e del legno: in continuità con una tradizione che risale fino a Platone, Jung fa i conti con la totalità, insieme psichica e corporea, dell’esperienza di sé.

Prosegue Jung:
“Mi dava la sensazione di essere rinato nella pietra. Mi appariva come un’attuazione di ciò che prima avevo solo intuito e una rappresentazione dell’individuazione, un monumento “aere perenni”.
Questo ha avuto un effetto benefico su di me, come una accettazione di ciò che sono. Naturalmente durante i lavori di costruzione non feci mai queste considerazioni; avevo costruito la casa un po’ per volta, seguendo sempre le concrete esigenze del momento: potrei anche dire di averla costruita in una specie di sogno.
Solo in seguito vidi che cosa era sorto e che era riuscita una figura significativa: un simbolo della totalità psichica. Si era sviluppato come se un vecchio seme fosse germogliato.”

Alla fine della sua vita, lo psicoanalista poteva quindi vedere nella pietra la realizzazione di un progetto più ampio, frutto delle diverse fasi della sua vita.

Conclude Jung:
“Nel 1950 eressi una specie di monumento di pietra per esprimere ciò che la Torre significa per me. […] Mi venne in mente, anzitutto, un verso latino dell’alchimista Arnaldo di Villanova (morto nel 1313). Lo scolpii nella pietra. Tradotto suona così:

Qui sta la comune pietra
Il cui prezzo è assai modesto.
Quanto più è disprezzata dagli stolti,
tanto più è amata dai saggi!”

L’articolo completo è disponibile.

Per approfondire:
-Carl Gustav Jung – “Ricordi, sogni, riflessioni”;
-Sandra Petrignani – “Carissimo Dottor Jung”;
-Aniela Jaffé – “In dialogo con Carl Gustav Jung”.

EUTANASIAIl dibattito pubblico italiano sul tema del “fine vita” fatica a raggiungere una posizione condivisa. I veti de...
27/10/2025

EUTANASIA

Il dibattito pubblico italiano sul tema del “fine vita” fatica a raggiungere una posizione condivisa.
I veti delle diverse forze politiche costituiscono un importante ostacolo alla promulgazione di una legge che offra una risposta a coloro che soffrono senza speranza di guarigione.

Non sono molti gli intellettuali a spendersi attivamente per contribuire al dibattito su questo tema di civiltà; tra questi spiccano le interessanti considerazioni offerte da due psicoanalisti: Umberto Galimberti e Massimo Recalcati.

Pur affrontando il tema da vertici differenti, i due analisti sottolineano la necessità di raggiungere questo fondamentale obiettivo di civiltà: una legge che riconosca il diritto ad una fine dignitosa per coloro che soffrono di malattie incurabili.

Osserva Umberto Galimberti:

“Perché obbligare una persona che soffre come un cane, che invoca la morte, perché non gliela concedete? Rispondono: “perché la vita è un dono di Dio”.
Benissimo: se uno mi fa un dono, l’utilizzo di questo dono non dipende da chi me lo ha donato. Il dono è mio, me lo gestisco io. Questa è la mia vita.
Chiedo a coloro che animano il “Movimento per la vita di decidersi: quando uno nasce, deve nascere naturalmente… oggi rimane opposizione alla fecondazione assistita, che sia omologa oppure eterologa, peggio se è gestazione per altri; cioè niente tecnica. Quando invece uno muore tecnica à go go.
Lasciamolo morire. Se allora uno nasce per natura, lo stesso principio vale anche per la morte.”

Galimberti fa propria una concezione profondamente laica e basata sul concetto di autodeterminazione: offrire al soggetto la libertà di scegliere cosa fare della propria vita.

Veniamo ora alle parole di Recalcati.
In una recente intervista, pubblicata su “La Repubblica” (08/07/2025) , lo psicoanalista afferma:

“Manca nel nostro Paese una legge sul fine vita… Di questa legge esiste una esigenza collettiva tanto ampia quanto sistematicamente misconosciuta dalla politica… salvo rarissime eccezioni, per esempio quella di Marco Cappato.

La legge 219 sul biotestamento non può essere sufficiente. Il suicidio assistito rimane in ogni caso fuori legge con la conseguenza che i medici e tutti coloro che lo favoriscono sono esposti a pesanti rischi penali. Per questa ragione migliaia di italiani sono costretti all’esilio in Svizzera o al suicidio solitario.

Serve al contrario una Legge che riconosca a chi è sconfitto dalla malattia e non ha più speranze né di guarigione né, soprattutto, di una vita dignitosa, il diritto di scegliere di morire anticipando la cosiddetta morte naturale. Ma si può pensare davvero che coloro che estenuati da una malattia che non lascia scampo e che magari li ha consumati crudelmente per anni o addirittura decenni, non abbiano desiderato profondamente di continuare a vivere?
Che cosa li avrebbe spinti se non il desiderio di vita a sostenere la lotta impari contro la tragedia della malattia? E poi che cosa significa davvero “vivere”? Significa essere semplicemente vivi? Vivere coincide davvero con questa visione brutalmente materialistica della vita come mero respiro vitale, come mera sopravvivenza? Si può ridurre l’essere dell’uomo al suo corpo biologico? Non è questa una opzione rozzamente materialistica?

Non si dovrebbe invece lasciare al soggetto sofferente la decisione relativa alla sua capacità di resistenza, alla sua capacità di sopportare un’esistenza mutilata e oppressa da una sofferenza che esclude ogni possibilità terapeutica e ogni possibile speranza di miglioramento?

Una legge sul fine vita non sancirebbe un diritto alla morte, ma quello a una vita dignitosa in grado di decidere il suo termine. In questo senso essa dovrebbe accompagnarsi a un potenziamento delle cure palliative per rendere l’eventuale decisione di porre fine alla propria vita la più libera possibile. Riconoscere il diritto alla resa non sponsorizza la morte come soluzione, ma tiene conto dei limiti umani della vita. La resa di chi decide per la propria morte di fronte all’inesorabilità del male non è un atto di viltà ma una presa d’atto di una sconfitta drammatica che merita tutto il nostro rispetto e la nostra solidarietà. Come si fa a non capire? Come si fa a imporre ad altri la nostra misura della vita? Come si può costringere altri a vivere una vita che non è più la loro e che assomiglia giorno dopo giorno sempre più alla morte? In questo senso la dichiarazione di resa deve poter essere sovrana…

Con la conseguenza che la nostra civiltà ha completamente smarrito la grammatica della resa. L’idea stessa che ci si possa arrendere alla sventura e all’atrocità di una malattia che non lascia scampo, l’idea che ci si possa congedare con dignità dal tempo del mondo, può apparire intollerabile, quasi oscena. Eppure, è proprio nella resa che risuona una verità profonda. Non sempre il desiderio di vivere può trovare la gioia della sua affermazione. Non si ammala solo chi non vuole vivere. Si ammala anche chi vorrebbe vivere ancora. È una cattiva psicologia quella che vorrebbe sopprimere il carattere fatale del male.”

Le parole di Recalcati insistono sulla dimensione della dignità come elemento essenziale per umanizzare l’esperienza della vita: non si tratta semplicemente della dimensione biologica della vita, del corpo vivente; in gioco è ciò che rende umana la vita, in salute è in malattia.

Recalcati propone di recuperare la dignità che accompagna la dimensione della resa, intesa come limite intrinseco alla dimensione umana: non tutto è possibile all’uomo e non tutte le malattie possono guarire; tuttavia, al soggetto resta la possibilità di conservare, anche nella fine, il valore della propria esperienza.

L’articolo completo è disponibile sul sito.

Per approfondire:
Recalcati – “A pugni chiusi. Psicoanalisi del mondo contemporaneo”;
Spinsanti – “Scelte etiche ed eutanasia”;
Furnari – “Alle frontiere della vita eutanasia ed etica del morire”.

DORA MAAR, DA PICASSO A LACANDora Maar è stata un’artista surrealista. La sua arte spazia dalla poesia alla fotografia, ...
24/10/2025

DORA MAAR, DA PICASSO A LACAN

Dora Maar è stata un’artista surrealista. La sua arte spazia dalla poesia alla fotografia, dalla pittura ai collage.

Nata a Parigi in una famiglia di origine croata e cresciuta in Argentina, Dora trovava nella “fotografia di strada” la possibilità di catturare sguardi, momenti di vita ed espressioni degli ultimi, dei clochard e dei disperati che popolavano le periferie della città.

Attraverso le sue fotografie Dora voleva denunciare le disuguaglianze della società ma “questa presa di posizione era accompagnata da un’istintiva inclinazione per il misterioso, il magico e il soprannaturale”.

Il suo interesse per il mondo onirico, l’inconscio e il primitivo la avvicina al movimento surrealista, molto attivo in quegli anni a Parigi.

Afferma Dora: “chiudere gli occhi al mondo che ci circonda ci permette di aprirli all’inconscio”

Frequenta George Bataille e André Breton, dividendosi tra impegno politico e ricerche artistica.

Nel 1935 incontra il pittore Pablo Picasso, col quale nacque una relazione tanto intensa quanto tormentata. Divenuta la principale musa dell’artista, Dora venne sopraffatta dalla personalità autoritaria e preponderante di Picasso. Costretta ad abbandonare la fotografia per la pittura, come raccontato in molte fonti, Dora era bersaglio di continue umiliazioni da parte del compagno.

Il volto di Dora Maar è presente in moltissimi ritratti di Picasso e persino nel celebre “Guernica”.

Nel 1943, Picasso decise di abbandonare Dora per una nuova e più giovane amante. Questo ebbe un effetto devastante sul già precario equilibrio psichico dell’artista, facendola crollare in una profonda depressione psicotica.

È Picasso a rivolgersi a Paul Éluard in cerca di aiuto e Dora viene ricoverata in ospedale psichiatrico, dove incontra lo psicoanalista Jacques Lacan.

Lacan ha più volte sottolineato come la fine di un amore possa, per una donna, determinare un vere e proprio “ravage”, una devastazione che sconvolge l’equilibrio psichico.

Prima ricoverata nell’ospedale di Saint-Anne, Dora in seguito trova accoglienza in una clinica privata, Jeanne-d’Arc de Sainte-Mandé, dove resta per sei mesi.

Per trattare la sua penosa condizione, Dora subisce anche un trattamento con l’elettroshock.

Una volta dimessa, inizierà una lunga analisi con Jacques Lacan, durata circa sette anni. Nei suoi diari racconterà di anni tormentati da “morsi” e allucinazioni, con momenti più introspettivi di meditazione.

Negli anni successivi, grazie all’analisi, Dora troverà un nuovo equilibrio, dedicandosi alla pittura e alla religione, elaborando il lutto del trauma dell’abbandono subito.

Intervistata sul suo rapporto con Picasso, Dora dirà:
"Io non sono stata l'amante di Picasso.
Lui era soltanto il mio padrone"

Morirà nel 1997 all’età di novant’anni.

L’articolo completo è disponibile sul sito.

Per approfondire:
-Dexeus – “Dora Maar: nonostante Picasso”;
-Di Leo – “Dora Maar, tra le muse di Picasso”;
-Caws – “Dora Maar, senza Picasso”.

IL FANTASMA DI FREUDLo studio della vita di Sigmund Freud ci offre la possibilità di esplorare il percorso che ha portat...
20/10/2025

IL FANTASMA DI FREUD

Lo studio della vita di Sigmund Freud ci offre la possibilità di esplorare il percorso che ha portato alla nascita della psicoanalisi.

Nato in una famiglia ebraica nella periferia dell’Impero Asburgico, fin da piccolo, Freud è stato cresciuto con grande cura per i suoi studi e il suo sviluppo intellettuale. Coccolato in casa e considerato un piccolo talento, il piccolo Sigmund aveva dovuto assistere alle umiliazioni subite dal padre per motivi razziali, rimanendone impressionato.

Il giovane Freud è animato da una grande ambizione: divenire uno scienziato capace di lasciare una traccia indelebile nella cultura del suo tempo.
Nella sua autobiografia, Freud stesso evoca un libro che lo aveva profondamente influenzato: si tratta di “La Natura” di Goethe, grande genio universale della cultura tedesca.

Nello studiare la figura di Freud, lo psicoanalista Massimo Recalcati sottolinea la possibilità di rintracciare, nel padre della psicoanalisi, un vera e propria “pulsione epistemofilica”: come Cristoforo Colombo, così Freud voleva aprire la via verso un mondo nuovo, verso un sapere inedito, quello dell’inconscio.

Già Lacan, nel corso del Seminario XI, dedicato ai “Quattro concetti fondamentali della psicoanalisi”, aveva sottolineato quanto nella ricerca di Freud vi fosse una dimensione “trasgressiva”: una “sete di verità” capace di sconvolgere l’ordine morale ed ordinario del mondo fino ad allora conosciuto.

In Freud, prosegue Recalcati, c’è una spinta alla “Verità” più forte del “Bene”: non a caso, per Freud, scopo principale della psicoanalisi è l’indagine della verità inconscia e solo in seconda istanza si tratta di una tecnica terapeutica.

Un “fantasma da scienziato” abita quindi Freud, spingendolo a svelare quanto nella morale, nella religione e nei condizionamenti sociali vi sia un mascheramento della verità scabrosa che l’analisi permette di far emergere.

Non a caso, per Lacan la lezione freudiana è “spingere il desiderio di sapere fino in fondo”.

Commenta Lacan:
“Lo statuto dell'inconscio, che vi indico cosi fragile sul piano ontico, è etico. Freud, nella sua sete di verità, dice: “Comunque sia, bisogna darci dentro”, perché, da qualche parte, questo inconscio si mostra. E lo dice nella sua esperienza di ciò che per il medico è, fino a quel momento, la realtà più rifiutata, più coperta, più contenuta, più rigettata e cioè quella dell'isterica.”

Per Freud, la spinta verso la scienza, verso la Verità, fa sì che i casi clinici divengano occasione di conferma della teoria, di dimostrare quanto di vero vi sia nelle sue scoperte.

Il bambino brillante, discriminato per la sua origine, diviene il Padre di un sapere nuovo, che scompagina il sistema morale e culturale del suo tempo.

Il mito tragico di Edipo riflette questa posizione freudiana: quanta verità può essere sopportata? Quanta verità si può vedere? Bisogna fare emergere tutta la verità?

Recalcati non ha dubbi: Freud mette in primo piano la verità e questo comporta l’andare sempre “fino in fondo”. Per Freud, al costo di incorrere nel dramma di Icaro, che si avvicina mortalmente al sole, l’analista spinge la propria azione fino in fondo.

L’articolo completo è disponibile sul sito.

Per approfondire:
-Sigmund Freud – “Autobiografia”;
-Jean-Pierre Lebrun – “Leggere il presente con Freud e Lacan”;
-Massimo Recalcati – “Da Lacan a Freud e ritorno per una introduzione alla psicoanalisi”.

CESARE MUSATTI E IL DESIDERIO DEL MEDICOCesare Musatti è stato il padre della psicoanalisi in Italia. Allievo di Benussi...
16/10/2025

CESARE MUSATTI E IL DESIDERIO DEL MEDICO

Cesare Musatti è stato il padre della psicoanalisi in Italia.

Allievo di Benussi a Padova, inizia la propria attività di ricerca nell’ambito del laboratorio di psicologia. Nel 1927 diviene erede del maestro, guidando l’Istituto di psicologia dell’Università di Padova per 10 anni: nel 1938, a seguito della proclamazione delle leggi razziali, è costretto a rinunciare all’insegnamento universitario.

Nel 1947 torna all’Università, a Milano, dove insegna fino al 1967.
Tra i fondatori della SPI, Società Psicoanalitica Italiana, contribuisce alla traduzione delle opere di Freud in Italia.

Autore prolifico e curioso, Musatti si è speso in molteplici ambiti scientifici e culturali, senza trascurare l’impegno civile e politico.

Per molti anni si è dedicato anche ad una questione centrale nell’Italia del dopoguerra e del boom economico: la questione dell’orientamento scolastico e della scelta della carriera professionale.

Si tratta di questioni di grande importanza dal punto di vista psicoanalitico: cosa spinge a scegliere una certa professione? Cosa indirizza un giovane uomo o una giovane donna verso una certa carriera?

In un celebre testo pubblicato nel 1949, considerato la prima grande organica esposizione delle idee di Freud in Italia, il celebre “Trattato di psicoanalisi”, Musatti si pone la questione del desiderio dietro alla scelta della professione di medico.

Perché un individuo sceglie la professione medica? Cosa spinge ad affrontare tanti anni di studio e grandi difficoltà tecniche, scientifiche e pratiche?

Si tratta della grande considerazione sociale ed economica che offre la professione medica?
È una questione di status?

L’indagine psicoanalitica di Musatti mette in luce un fantasma fondamentale legato alla professione medica: dietro al camice e al sorriso rassicurante del medico, disponibile a sostenere i suoi pazienti nell’affrontare il dolore e la sofferenza della malattia, si nasconderebbe in realtà una forma di aggressività.

Nella professione medica, nella scelta di fare il medico, Musatti coglie l’effetto di un processo sublimatorio legato alla dimensione sadica dell’aggressività inconscia.

Il lavoro medico, spesso caratterizzato da una grande propensione all’aiuto e all’assistenza agli altri, sarebbe il ribaltamento della dimensione sadica e aggressiva rimossa nell’inconscio.

Il limite estremo di questo ribaltamento è costituito dallo sfociare nel “furor sanandi”, la spinta a curare portata all’estremo.

Ciò appare evidente a Musatti da molti dettagli, a partire dalla grande asimmetria di potere che si instaura nel rapporto medico - paziente: il medico assume un grande valore nei confronti del paziente, disponendo di un sapere decisivo per la guarigione delle malattie; in cambio della propria opera, il medico non ottiene solo riconoscimento economico e sociale, ma anche attestati di stima e di affetto da parte dei pazienti.

Proprio come il sadico nei confronti della propria vittima, il medico si trova nella posizione di soggetto capace di influenzare profondamente la vita del paziente, che si mette nelle sue mani per ottenere aiuto.

La spinta distruttiva si converte nella spinta alla cura.
La rabbia diviene desiderio di aiutare.
La spinta mortifera della pulsione di morte diviene motore della pulsione di vita.

L’articolo completo è disponibile sul sito.

Per approfondire:
-Cesare Musatti – “Trattato di psicoanalisi”;
-Cesare Musatti – “Curar nevrotici con la propria autoanalisi”;
-Silvia Vegetti Finzi – "Storia della psicoanalisi”.

LA SPAZZATURA DI LACANLo psicoanalista francese, Jacques Lacan ha messo al centro della propria concezione della psicoan...
13/10/2025

LA SPAZZATURA DI LACAN

Lo psicoanalista francese, Jacques Lacan ha messo al centro della propria concezione della psicoanalisi il concetto di “scarto”, di “resto” come potente e preciso riferimento rispetto all’attività dell’analista.

Nel corso del seminario VIII, dedicato al tema del “Transfert”, Lacan afferma che lo psicoanalista occupa la posizione dell’ “immondezzaio”, di colui che si occupa del “peggio”, dello “scarto” prodotto dal paziente.

L’analista sarebbe nella posizione della “pattumiera” del paziente.

È Lacan stesso ad affermare che la spazzatura sia “uno degli aspetti della dimensione umana che bisognerebbe non misconoscere”. Nella spazzatura c’è una traccia, perturbante ma precisa, di chi siamo.

Da una parte l’analista, che per operare al meglio della sua funzione occupa la posizione di oggetto causa del desiderio, si fa ricettacolo, depositario, raccoglitore del peggio che il paziente gli offre: il proprio dolore, la rabbia e l’odio, i fallimenti e il proprio disorientamento.

Dall’altra il paziente giunge in analisi nella posizione di scarto, di ultimo, di chi non riesce più a trovare la propria strada nel mondo e nella propria vita.

L’incontro con analista infatti è spesso l’ultima chance dopo una serie di tentativi falliti, di insuccessi che hanno segnato una deriva rovinosa nella vita del soggetto.

L’analista, quindi apre la porta ad un soggetto oramai divenuto scarto, ridotto a spazzatura: lo si vede bene in alcuni casi di depressione, nei quali il corpo del soggetto è letteralmente ridotto a spazzatura, maleodorante e trascurato.

Cosa si nasconde nella figura dell’analista? Cosa spinge ad occupare la posizione di chi si fa ricettacolo della spazzatura dell’altro?

Lo psicoanalista Massimo Recalcati, esplorando i “fantasmi” della figura dello psicoanalista, rintraccia una radice “masochistica”, legata all’occupare la posizione di oggetto per l’analizzante.

La posizione dell’analista è stata a lungo studiata da Lacan per estrarne gli elementi essenziali proprio a partire dalla idea che nella cura l’analista occupi la posizione di oggetto: oggetto causa di desiderio, oggetto scarto, oggetto rifiutato, oggetto di proiezione e di fantasie.

L’invito di Recalcati è di cogliere cosa nell’analista sostenga l’assunzione di una posizione così peculiare e, non senza ironia, così masochistica: è forse possibile rintracciare nella storia di chi diventa psicoanalista l’esperienza di essere stato per primo uno “scarto”?

La sfida dell’analisi è trasformare l’esperienza dello scarto, del rifiuto, in un “resto”, una nuova forma di quello che Lacan formalizza come oggetto piccolo (a): dallo scarto senza valore all’oggetto causa di desiderio, dalla spazzatura al resto che diviene catalizzatore della vita, fonte di nuova generatività.

L’articolo completo è disponibile sul sito.

Per approfondire:
-Bruno Moroncini – “la lettera che cade. Jacques Lacan e l’uomo come scarto”;
-Massimo Recalcati – “Convertire la pulsione?”;
-Massimo Recalcati – “Il vuoto e il resto”.

GIORNATA DELLA SALUTE MENTALEPer Freud, la salute consiste nella capacità di amare e di lavorare: "lieben und arbeit", a...
10/10/2025

GIORNATA DELLA SALUTE MENTALE

Per Freud, la salute consiste nella capacità di amare e di lavorare: "lieben und arbeit", amare e lavorare.

Ogni ostacolo a queste due funzioni sarebbe da interrogare non in quanto segnale di un "meccanismo rotto", da riparare, ma piuttosto come segnale di un conflitto: il sintomo (nevrotico) non sarebbe infatti altro che una formazione di compromesso, l'effetto di un conflitto inconscio che tormenta il soggetto.

Merito della Psicoanalisi è di aver liberato il sintomo dalla sola lettura "riparativa" per coglierlo come un messaggio criptato, da tradurre.

Il sintomo allora non è solo la manifestazione di una disfunzione, ma il veicolo di una verità che il soggetto deve provare a fare propria, riscoprendola.

OTTO KERNBERG E L’IDENTIFICAZIONE PROIETTIVAOtto Kernberg è uno degli psicoanalisti contemporanei più noti ed autorevoli...
09/10/2025

OTTO KERNBERG E L’IDENTIFICAZIONE PROIETTIVA

Otto Kernberg è uno degli psicoanalisti contemporanei più noti ed autorevoli. Affermatosi come una figura di riferimento della psicoanalisi nordamericana, Kernberg è noto per le sue ricerche nell’ambito della clinica psicoanalitica degli stati borderline.

La psicoanalisi di Kernberg rappresenta una sintesi originale tra psicologia dell’io, psicologia delle relazioni oggettuali e teoria del narcisismo. Uno degli aspetti teorici più studiati da Kernberg è il concetto di “identificazione proiettiva”.

La proiezione è un fenomeno studiato già dalla prima generazione di psicoanalisti. Sono stati in particolare Ferenczi e Freud a dedicare i primi studi sul tema.

Secondo Kernberg,
“l’identificazione proiettiva è un meccanismo di difesa primitiva. Il soggetto proietta un’esperienza intrapsichiche intollerabile su un oggetto.”

La proiezione è una difesa rispetto a un contenuto emotivo intrapsichico, considerato intollerabile. Proiettarlo ristabilisce la coerenza interna della psiche, offrendo un’esperienza rassicurante di solidità.

Osserva Kernberg:
“la proiezione stessa, che è una forma più matura di difesa, consiste innanzitutto nel rimuovere l’esperienza intollerabile, quindi nel proiettarla sull’oggetto e, infine, nel separarsi o nel distanziarsi dall’oggetto per rafforzare il tentativo di difesa.”

Kernberg sottolinea la natura separata e fondamentalmente fobica della difesa come mezzo per garantire la sopravvivenza della psiche davanti ad un conflitto intollerabile.

Secondo lo psicanalista cresciuto in Cile, l’identificazione proiettiva sarebbe un meccanismo tipico dell’organizzazione borderline di personalità, tanto da indicarla come elemento prevalente del loro funzionamento e del transfert che riescono a stabilire nel corso del trattamento.

Il prevalere della sola proiezione rimanderebbe a un funzionamento nevrotico, il prevalere dell’identificazione proiettiva avrebbe invece a che fare con una maggiore debolezza dei confini dell’io, profondamente perturbati dai meccanismi di proiezione ed in introiezione.

Anche Melanie Klein aveva sottolineato la natura fondamentalmente violenta dell’identificazione proiettiva, considerandola un processo adeguato solo nelle prime fasi di vita.

Questo concetto oggi rischia di soffocare la fondamentale riflessione clinica sul controtransfert, spingendo i clinici ad attribuire al paziente i propri vissuti come effetto delle loro proiezioni. Questo è molto pericoloso perché determina sostanzialmente una sottrazione dell’analista rispetto alla responsabilità di lavorare sui propri punti ciechi, come sottolineato già da Freud.

L’articolo completo e disponibile sul sito.

Per approfondire:
-Otto Kernberg – “Teoria della reazione oggettuale e clinica psicoanalitica”;
-Otto Kernberg – “Proiezione e identificazione proiettiva: aspetti evolutivi clinici”;
-Thomas H. Ogden – “Sull’identificazione proiettiva”.

NIETZSCHE E L’INTELLIGENZA ARTIFICIALEDal nichilismo del vuoto al nichilismo del pienoLa filosofia di Friedrich Nietzsch...
06/10/2025

NIETZSCHE E L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Dal nichilismo del vuoto al nichilismo del pieno

La filosofia di Friedrich Nietzsche mette al centro il concetto di “nichilismo”. Il filosofo tedesco ammoniva i suoi contemporanei davanti alle profonde trasformazioni della cultura e della società del suo tempo: “Dio è morto! È morto e noi lo abbiamo ucciso!” fa dire allo Zaratustra, protagonista della sua opera più famosa.

Cosa significa nichilismo per il filosofo? “Nichilismo: manca il fine manca la risposta al perché? Che cosa significa nichilismo? Che i supremi valori si svalorizzano”, osserva Nietzsche.

Nietzsche avvertiva le profonde ed inquietanti conseguenze del progressivo declino dei valori che per secoli avevano guidato e orientato la cultura occidentale. L’emergere di nuove forme di sapere e il radicarsi della religione cristiana avevano, secondo il filosofo, contribuito all’allontanamento dell’uomo dallo spirito di natura e dal senso autentico della vita.

Il tramonto dei valori tradizionali lasciava posto al nulla, secondo il filosofo. La caduta dei vecchi valori e degli idoli tradizionali non era accompagnata da un corrispondente sorgere di idoli nuovi, di nuovi valori da seguire.

Una vera e propria catastrofe aspetta la civiltà, secondo il filosofo:

“Ciò che io racconto è la storia dei prossimi due secoli. Io descrivo ciò che viene, ciò che non può fare a meno di venire: l'avvento del nichilismo. Questa storia può già ora essere raccontata; perché la necessità stessa è qui all'opera. Questo futuro parla già per mille segni, questo destino si annunzia dappertutto; per questa musica del futuro tutte le orecchie sono già in ascolto. Tutta la nostra cultura europea si muove in una torturante tensione che cresce da decenni in decenni, come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile ad una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più ed ha paura di riflettere»

Per questo Nietzsche invitava i suoi contemporanei a superare il sistema di tradizionale genesi dei valori; secondo il filosofo era necessario superare la concezione tradizionale dei valori, tramandati da secoli.

Davanti alla crisi nichilistica, davanti all’avanzare del nulla, Nietzsche opponeva la volontà dell’uomo come base di una nuova generazione di valori.

Nietzsche, quindi può essere considerato il filosofo del “nichilismo del vuoto”, padre di un pensiero che cerca di favorire la genesi di un nuovo sistema di valori.

“Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? [...] Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto?”

Per il filosofo l’uomo è chiamato a superare questo vuoto, generando nuovi valori per il suo tempo.

Oggi invece, possiamo cominciare a parlare di un “nichilismo del pieno”.
Secondo Pastorino, il “nichilismo del pieno” avrebbe a che fare non con una mancanza, bensì con l’eccesso di pieno, con lo svuotamento di pensiero reso possibile dalle risposte automatiche dell’intelligenza artificiale.

Se il “nichilismo del vuoto” vedeva lo spazio perdere senso per la mancanza di coordinate, il “nichilismo del pieno” sottolinea come lo spazio venga annullato per il suo costante riempimento; il troppo pieno annullerebbe ogni possibilità di pensiero e di effettiva creatività.

Lo spazio, inteso come apertura ad una possibilità inedita, viene costantemente saturato, evitando di creare le condizioni stesse per il sorgere del pensiero. Anche la psicoanalisi sottolinea che il pensiero nasce in riferimento al vuoto e alla mancanza; finché il bambino si trova in uno stato di pieno a pagamento, di concreta soddisfazione, il pensiero non ha ragione di esistere.

Ci troviamo di fronte alle straordinarie possibilità offerte da tecnologia dell’intelligenza artificiale; lungi dall’essere un mero strumento, esse possono divenire elementi utilizzati dall’uomo non per creare, ma per tamponare la propria angoscia ed evitare la fatica dolorosa del pensiero.

L’articolo completo disponibile sul sito.

Per approfondire:
-Frederic Nietzsche, “Frammenti postumi”;
-Martin Heidegger, “L’arte lo spazio”;
-Nazareno Pastorino, “Il nichilismo del pieno”.

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Naples

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