23/06/2021
La sindrome della tachicardia ortostatica posturale (POTS) è un condizione clinica complessa e di cui si conosce ancora poco. Tale patologia affligge soprattutto donne giovani e caucasiche, con una prevalenza che negli Stati Uniti oscilla tra 500.000 e 3 milioni di persone. La sindrome, inoltre, sta recentemente emergendo come una delle manifestazioni cliniche del cosiddetto long COVID. I pazienti con POTS presentano un ampio spettro di sintomi debilitanti. Dopo il passaggio dalla posizione supina alla stazione eretta i soggetti presentano un incremento della frequenza cardiaca (FC) di circa 30 battiti/minuto (bpm). Questo aumento è accompagnato dalla comparsa di sensazione di testa leggera, palpitazioni, dispnea, mal di testa, difficoltà di concentrazione, presincope. Il ritorno alla posizione supina allevia i sintomi e molti soggetti divengono alla fine allettati. Nel complesso questa condizione causa un’astenia estrema che riduce la capacità dei pazienti di mantenersi in piedi e di svolgere le comuni attività quotidiane, al punto che il 25% di questi soggetti diviene inabile al lavoro. Tutto ciò, ovviamente, si ripercuote sulla capacità funzionale e sulla qualità di vita dei pazienti e molti individui sviluppano concomitanti forme di ansia e depressione.
La POTS è una condizione eterogenea di cui si riconoscono 5 differenti sottotipi: 1) iperadrenergico, 2) neuropatico, 3) ipovolemico, 4) legato all’ipermobilità articolare e 5) immuno mediato, che sono in realtà spesso tra loro sovrapposti. Il sottotipo più comune, quello iperadrenergico, è responsabile di circa la metà delle forme ed è caratterizzato da un’anomala attivazione del sistema nervoso simpatico. L’organismo è in una costante condizione di “scappa o combatti” che conduce ad un’elevata FC ed ad una ridotta perfusione degli organi. In questa forma i livelli di norepinefrina (NE) sia in clino- (405 pg/ml) che in ortostatismo (1.200 pg/ml) sono significativamente elevati rispetto alla popolazione sana (200 e, rispettivamente, 500 pg/ml).