Dott.ssa Giusy Pagliaro Psichiatra

Dott.ssa Giusy Pagliaro Psichiatra Psichiatra e Psicoterapeuta

02/04/2024

Giovanni Barreca, l'uomo accusato insieme alla figlia 17enne e a una coppia di conoscenti della strage di Altavilla Milicia, è stato trasferito dal carcere

29/02/2024
28/02/2024

Autolesionismo
A cura di Mario Rossi Monti e Alessandra D’Agostino

Definizione
Quali condotte sono comprese sotto il termine “autolesionismo”? Riprendendo la definizione di Armando Favazza, l’autolesionismo è “un comportamento ripetitivo, solitamente non letale per severità né intento, diretto volontariamente a ledere parti del proprio corpo, come avviene in attività quali tagliarsi o bruciarsi” (1989, p. 137). Dunque, non possono essere considerate autolesionistiche in senso stretto le condotte che determinano solo indirettamente danni fisici ( , , assunzione di , etc.). Mentre possono essere considerate autolesionistiche le condotte che portano comunque a un ferimento volontario, anche se non inquadrabile all’interno di un chiaro contesto di patologia. Entrando maggiormente nello specifico, Favazza (1996) suddivide essenzialmente le condotte autolesive in due grandi gruppi: autolesionismo “deviante” e autolesionismo “culturalmente approvato”.

Due tipi di autolesionismo.

Del primo tipo (per intenderci, quello che si ritrova nel nuovo DSM-5 sotto il nome di “Non-Suicidal Self-Injury”, NSSI) fanno parte tutte quelle condotte ascrivibili a precisi disturbi psichiatrici e che l’autore suddivide a sua volta in tre sottogruppi:

-un autolesionismo “maggiore” che comprende gesti poco frequenti ma molto gravi (come l’enucleazione di un occhio, l’evirazione, l’auto-amputazione di un orecchio) e che si manifestano spesso nel contesto di intossicazioni acute da sostanze o di esperienze psicotiche.

-un autolesionismo “stereotipato” che comprende azioni ripetitive e occasionalmente ritmiche (come ba***re la testa, percuotersi, mordersi, graffiarsi la bocca o gli occhi, strapparsi i capelli, lesionare la pelle, etc.) che si riscontrano in genere in soggetti con ritardo mentale (specie se istituzionalizzati), psicotici in fase acuta, sindromi autistiche o altre sindromi di carattere neurologico (come la sindrome di Tourette, quella di Cornelia de Lange o quella di Lesch-Nyhan).

– un autolesionismo “superficiale/moderato”, che comprende forme autolesive lievi suddivisibili, a loro volta, in tre tipologie: condotte compulsive (come la tricotillomania, il mangiarsi le unghie fino alla carne viva, lo strapparsi e scorticarsi la pelle), condotte episodiche e condotte ripetitive (come tagliare, incidere e bruciare la pelle, conficcarsi aghi, rompersi le ossa, interferire con la guarigione delle ferite, etc.). Tra queste le condotte più comuni sono tagliarsi e bruciarsi, presenti in numerose patologie: nei disturbi di personalità (soprattutto borderline), nel disturbo post-traumatico da stress, nei disturbi dissociativi e nei disturbi dell’alimentazione. Tali atti sono in genere occasionali, ma possono diventare ripetitivi quando il soggetto li assume come modello di condotta per far fronte a determinate situazioni emotive o per rispondere a bisogni di identificazione con il gruppo di appartenenza. In questi casi il gesto autolesivo può configurarsi come un tratto stabile del modo di essere attorno a cui si sviluppa l’intera identità (si parla allora di cutters o burners) o come una vera e propria “sindrome di autoferimento intenzionale”, che inizia in adolescenza e si protrae per dieci o quindici anni, alternando periodi caratterizzati da gesti autolesivi a periodi di quiete e ad altri comportamenti impulsivi (disordini alimentari, abusi di sostanze, cleptomania).

Del secondo tipo di autolesionismo, invece, quello “culturalmente approvato”, fanno parte “rituali” e “pratiche” autolesionistiche accettate da un gruppo. I “rituali” sono attività portate avanti per generazioni, che riflettono tradizioni e credenze della particolare società che li perpetua; molte di queste cerimonie hanno l’obiettivo di prevenire o scongiurare fenomeni che potrebbero destabilizzare la comunità (come catastrofi, rabbia degli dei, degli spiriti o degli avi, conflitti fra tribù, scontri uomo/donna, perdita dell’identità di gruppo).

Continua a leggere da Spiweb https://www.spiweb.it/la-ricerca/ricerca/autolesionismo/

13/01/2024

Ogni settimana dal lunedì al giovedì questi dialoghi realizzati in collaborazione con la Società Italiana di Psichiatria ospitano i più qualificati esperti i...

17/10/2023
10/10/2023

Non bisogna mai vergognarsi delle proprie fragilità, è necessario avere cura della propria salute mentale per vivere una vita di qualità, e lasciando spazio alla propria parte emotiva darsi l’opportunità di raggiungere la felicità…

20/09/2023

Una toccante nota personale di Glen Gabbard:

"Anni dopo la fine del mio training analitico, ho notato che alcuni problemi non adeguatamente esplorati nel corso della mia prima analisi continuavano a tormentarmi.

Per questo, ho deciso di intraprendere una seconda analisi in un’altra sede e con un analista di diverso orientamento.

Questo trattamento è andato avanti per un po’ di tempo e mi sono accorto che il beneficio che ne traevo aveva approfondito la mia comprensione di quei problemi.

Dopo alcuni anni ho sollevato la possibilità di una conclusione dell’analisi. Il mio analista non era né a favore né contro, ma cercò piuttosto di esplorare com’era emersa questa idea dentro di me e quali fossero secondo me i vantaggi e gli svantaggi di questa scelta.

Dopo alcuni giorni dedicati a questa esplorazione, provai un senso d’irritazione per l’analista e glielo comunicai. Ero soddisfatto del nostro lavoro insieme – chiarii – ma sentivo che lui mi stava trattenendo per ragioni sue. L’analista continuò
ad analizzare come al solito, e io iniziai a chiedermi quando mi avrebbe «lasciato andare».

Fece un’osservazione che mi colpì molto. Dopo che gli avevo espresso la mia irritazione, mi disse: «Probabilmente è più facile per lei concludere l’analisi se pensa che io la stia trattenendo invece di lasciarla andare».

Gli chiesi perché lo pensasse. Lui rispose: «Forse per lei è più facile provare rabbia piuttosto che dolore». Gli occhi mi si riempirono di lacrime e mi resi conto che aveva toccato un nervo profondo dentro di me. Non volevo affrontare la parte infantile di me che aveva a che fare con la perdita e la paura di essere solo. Un lontano ricordo affiorò nella mia mente. Quando avevo tre o quattro anni, mia madre mi lasciò in un asilo nido perché doveva tornare a lavorare. Mi disse di non preoccuparmi. «Andrà tutto bene», disse.

Volevo crederle, ma non sapevo cosa rispondere. Alla fine le dissi: «Il tuo cappotto è sbottonato. Lo abbottono io per te». Dopo verlo fatto, le dissi che sarei stato bene. Sentii istintivamente – a quell’età non ero in grado di tradurre questo sentimento in un pensiero – che questo era ciò che voleva sentirsi dire.

Quando se ne andò, trattenni le lacrime in modo che non mi vedesse piangere mentre usciva. Lo ricordo ancora con chiarezza.

Quando tornai alla mia conversazione con il mio analista, riconobbi che la mia indignazione poteva derivare dalla percezione di un suo rifiuto di lasciarmi andare.

Questa postura difensiva e controfobica era un tentativo di aggirare sia il dolore di perderlo sia il processo di lutto associato all’essere senza di lui. Sono cresciuto con forti difese contro qualsiasi bisogno e vulnerabilità.

A posteriori, mi sono reso conto che mia madre non aveva tempo per prendersi cura di me e che quindi avevo finito per adeguarmi alla sua immagine di me come bambino non particolarmente bisognoso di attenzioni. Era chiaro che si trattava di un diniego delle mie esigenze di dipendenza.

Arrabbiarsi e indignarsi perché il mio analista mi stava trattenendo con sé era un modo per evitare di lasciar emergere i miei lati infantili: il desiderio, la dipendenza e la speranza di non dover subire l’abbandono.

Avvicinandomi alla fine dell’analisi con un piede già fuori dalla porta, la mia concettualizzazione consisteva nell’idea che il mio analista mi stava costringendo a restare e che io dovevo lottare per la mia indipendenza. A livello inconscio, mi confortava pensare che voleva che rimanessi."

Rivista di Psicoanalisi (2021, LXVII, 2)

21/05/2023
15/04/2023

Parole chiave: Poesia, Morte Come d’aria di Davide D’Alessandro C’è voluta la morte di Ada D’Adamo per farmi precipitare a leggere il suo libro, a divorarlo nella notte, lo stupore mescolato alla vergogna, la meraviglia alla colpa. Non mi era bastata la parola di Elena Stancanelli che, prop...

Indirizzo

Via Cimarosa 66
Naples
80123

Notifiche

Lasciando la tua email puoi essere il primo a sapere quando Dott.ssa Giusy Pagliaro Psichiatra pubblica notizie e promozioni. Il tuo indirizzo email non verrà utilizzato per nessun altro scopo e potrai annullare l'iscrizione in qualsiasi momento.

Contatta Lo Studio

Invia un messaggio a Dott.ssa Giusy Pagliaro Psichiatra:

Condividi

Share on Facebook Share on Twitter Share on LinkedIn
Share on Pinterest Share on Reddit Share via Email
Share on WhatsApp Share on Instagram Share on Telegram

Digitare