28/02/2024
Autolesionismo
A cura di Mario Rossi Monti e Alessandra D’Agostino
Definizione
Quali condotte sono comprese sotto il termine “autolesionismo”? Riprendendo la definizione di Armando Favazza, l’autolesionismo è “un comportamento ripetitivo, solitamente non letale per severità né intento, diretto volontariamente a ledere parti del proprio corpo, come avviene in attività quali tagliarsi o bruciarsi” (1989, p. 137). Dunque, non possono essere considerate autolesionistiche in senso stretto le condotte che determinano solo indirettamente danni fisici ( , , assunzione di , etc.). Mentre possono essere considerate autolesionistiche le condotte che portano comunque a un ferimento volontario, anche se non inquadrabile all’interno di un chiaro contesto di patologia. Entrando maggiormente nello specifico, Favazza (1996) suddivide essenzialmente le condotte autolesive in due grandi gruppi: autolesionismo “deviante” e autolesionismo “culturalmente approvato”.
Due tipi di autolesionismo.
Del primo tipo (per intenderci, quello che si ritrova nel nuovo DSM-5 sotto il nome di “Non-Suicidal Self-Injury”, NSSI) fanno parte tutte quelle condotte ascrivibili a precisi disturbi psichiatrici e che l’autore suddivide a sua volta in tre sottogruppi:
-un autolesionismo “maggiore” che comprende gesti poco frequenti ma molto gravi (come l’enucleazione di un occhio, l’evirazione, l’auto-amputazione di un orecchio) e che si manifestano spesso nel contesto di intossicazioni acute da sostanze o di esperienze psicotiche.
-un autolesionismo “stereotipato” che comprende azioni ripetitive e occasionalmente ritmiche (come ba***re la testa, percuotersi, mordersi, graffiarsi la bocca o gli occhi, strapparsi i capelli, lesionare la pelle, etc.) che si riscontrano in genere in soggetti con ritardo mentale (specie se istituzionalizzati), psicotici in fase acuta, sindromi autistiche o altre sindromi di carattere neurologico (come la sindrome di Tourette, quella di Cornelia de Lange o quella di Lesch-Nyhan).
– un autolesionismo “superficiale/moderato”, che comprende forme autolesive lievi suddivisibili, a loro volta, in tre tipologie: condotte compulsive (come la tricotillomania, il mangiarsi le unghie fino alla carne viva, lo strapparsi e scorticarsi la pelle), condotte episodiche e condotte ripetitive (come tagliare, incidere e bruciare la pelle, conficcarsi aghi, rompersi le ossa, interferire con la guarigione delle ferite, etc.). Tra queste le condotte più comuni sono tagliarsi e bruciarsi, presenti in numerose patologie: nei disturbi di personalità (soprattutto borderline), nel disturbo post-traumatico da stress, nei disturbi dissociativi e nei disturbi dell’alimentazione. Tali atti sono in genere occasionali, ma possono diventare ripetitivi quando il soggetto li assume come modello di condotta per far fronte a determinate situazioni emotive o per rispondere a bisogni di identificazione con il gruppo di appartenenza. In questi casi il gesto autolesivo può configurarsi come un tratto stabile del modo di essere attorno a cui si sviluppa l’intera identità (si parla allora di cutters o burners) o come una vera e propria “sindrome di autoferimento intenzionale”, che inizia in adolescenza e si protrae per dieci o quindici anni, alternando periodi caratterizzati da gesti autolesivi a periodi di quiete e ad altri comportamenti impulsivi (disordini alimentari, abusi di sostanze, cleptomania).
Del secondo tipo di autolesionismo, invece, quello “culturalmente approvato”, fanno parte “rituali” e “pratiche” autolesionistiche accettate da un gruppo. I “rituali” sono attività portate avanti per generazioni, che riflettono tradizioni e credenze della particolare società che li perpetua; molte di queste cerimonie hanno l’obiettivo di prevenire o scongiurare fenomeni che potrebbero destabilizzare la comunità (come catastrofi, rabbia degli dei, degli spiriti o degli avi, conflitti fra tribù, scontri uomo/donna, perdita dell’identità di gruppo).
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