05/11/2025
ACUFENI.
“Esiste un cura?”
La domanda da un milione di dollari.
“Mi hanno diagnosticato l’acufene. Mi hanno detto che non c’è niente da fare.”
È una frase che sento dire spesso, e ogni volta penso che dietro quel “non c’è niente da fare” ci sia più rassegnazione che realtà. Non perché esistano cure miracolose (non ne esistono) ma perché esistono percorsi più lunghi, attenti e personalizzati che, se seguiti con metodo, possono portare a un miglioramento reale, spesso piú sorprendente di quanto si creda.
L’acufene non è una malattia, ma un sintomo.
E come ogni sintomo, nasce da una causa. Il primo passo è scoprire quale. Si parte quasi sempre dall’udito, ma qui emerge già un problema: molte persone, pur avendo già eseguito un’audiometria, ricevono un referto di “udito normale” che però si basa su test parziali. In molti studi, infatti, non sono disponibili strumentazioni capaci di esplorare l’intero spettro uditivo. Le audiometrie più comuni si limitano a un intervallo compreso tra 250 e 6000 Hz (se va bene arrivando agli 8000 Hz), mentre una valutazione realmente approfondita dovrebbe estendersi dai 125 Hz fino ai 20.000 Hz, includendo le frequenze molto basse e quelle ultrasoniche, dove spesso si annidano le prime alterazioni. È come osservare un paesaggio attraverso una finestra troppo piccola: ciò che si vede è vero, ma incompleto.
Solo un’indagine audiologica completa (con audiometria estesa, analisi del parlato nel rumore e test specifici come l’acufenometria) permette di individuare i deficit nascosti che possono innescare o mantenere il sintomo. Quando una parte del sistema uditivo smette di funzionare correttamente, il cervello tende a “riempire” quel vuoto sensoriale producendo un segnale interno. È un fenomeno di riorganizzazione neuronale, una sorta di errore di compensazione: il cervello cerca un suono che non arriva, e finisce per generarlo da sé. Per questo, correggere anche una perdita minima - con un apparecchio acustico adeguato o con specifiche strategie di riabilitazione uditiva - può ridurre in modo significativo la percezione del rumore.
Naturalmente, non tutti gli acufeni nascono da una perdita uditiva. L’esposizione prolungata a rumori intensi, come nelle città o nei luoghi di lavoro rumorosi, o l’uso continuativo di auricolari a volume alto, possono determinare una forma di “inquinamento acustico” che altera i meccanismi di elaborazione del suono. In questi casi il silenzio assoluto non è terapeutico: al contrario, passare bruscamente dal rumore al silenzio può accentuare il disturbo. È necessario un riadattamento graduale, con l’aiuto di terapie sonore basate su suoni neutri o naturali, che abituino lentamente il cervello a percepire il silenzio senza riempirlo di rumore.
Esistono poi acufeni che non hanno origine nell’orecchio, ma nel sistema muscolo-scheletrico. I disordini dell’articolazione temporo-mandibolare, le tensioni cervicali o le alterazioni posturali possono influenzare le vie nervose che interagiscono con i centri uditivi. Durante la visita eseguo test particolari che prevedono anche manipolazioni della testa e del cavo orale: servono a valutare il ruolo delle tensioni muscolari e delle strutture articolari nella genesi del sintomo. Quando il rumore si modifica o si attenua nel corso di queste manovre, diventa evidente che la sua origine non è esclusivamente cocleare, ma dipende da un’alterazione muscolo-scheletrica. In questi casi, il trattamento più efficace è sempre multidisciplinare, con il coinvolgimento di fisioterapisti e gnatologi specializzati nel riequilibrio del distretto cranio-cervico-mandibolare.
Accanto a queste forme, non vanno dimenticate cause più comuni ma tutt’altro che irrilevanti: infiammazioni croniche dell’orecchio medio, disfunzione tubarica, tappi di cerume ricorrenti o piccoli traumi dovuti all’uso improprio dei cotton fioc. Anche alcuni farmaci, se assunti per lunghi periodi, possono essere ototossici e contribuire alla comparsa del sintomo. In altri casi l’acufene è spia di disturbi sistemici, come problemi tiroidei, anemia o alterazioni della circolazione sanguigna.
A completare il quadro, c’è il ruolo del sistema
nervoso centrale. L’acufene non è solo un suono, è un’esperienza percettiva che coinvolge la sfera emotiva. Il cervello tende a concentrarsi su ciò che considera “una minaccia”, e il rumore costante finisce per occupare l’intera attenzione. Si entra così in un circolo vizioso: più ci si focalizza sul suono, più questo diventa invadente; più aumenta l’ansia, più si rafforza la percezione. Questo fenomeno è chiamato ipervigilanza somatosensoriale, e spiega perché l’acufene peggiori nei momenti di stress o di insonnia.
Oggi la scienza ha chiarito che la gestione dell’acufene deve essere integrata. Nessuna terapia isolata è sufficiente. Gli approcci più efficaci sono quelli che combinano riabilitazione uditiva, terapie sonore, trattamento delle disfunzioni muscolo-scheletriche e, quando serve, supporto psicologico. Le terapie cognitivo-comportamentali, ad esempio, aiutano a ridurre la risposta emotiva al rumore e ad abbassare il livello di attenzione su di esso, favorendo un processo di adattamento e desensibilizzazione.
Per questo dico sempre che non è vero che “non c’è niente da fare”. È vero, invece, che serve tempo e che la strada non è la stessa per tutti. L’acufene è un sintomo complesso e personale, che va esplorato a fondo: nell’udito, nel corpo e nella mente. Una visita approfondita richiede più tempo, ma restituisce un quadro completo e spesso apre prospettive nuove. Non si guarisce dall’oggi al domani, ma con un percorso serio, strutturato e multidisciplinare, si può imparare a convivere con un rumore che progressivamente si attenua, fino quasi a svanire.
Ed è proprio lì, in quel “quasi”, che spesso si ritrova la propria serenità.