Dott.ssa Raffaella Mancano - Psicologa

Dott.ssa Raffaella Mancano - Psicologa Psicologa Clinica e della Salute, iscritta all’Albo degli Psicologi della Campania,n 8352. Psicoterapeuta ad orientamento sistemico relazionale familiare.

La settimana scorsa ho pubblicato una rubrica in cui si parlava anche della morte.E mi sono accorta di una cosa.Ci sono ...
11/11/2025

La settimana scorsa ho pubblicato una rubrica in cui si parlava anche della morte.
E mi sono accorta di una cosa.
Ci sono parole che, anche solo a pronunciarle, fanno silenzio intorno.

“Morte” è una di quelle.
Non sappiamo mai bene come usarla.
Qualcuno la evita, qualcuno ci scherza,
qualcuno la cambia con “ci ha lasciato”, “non c’è più”.
E forse è proprio lì che comincia la paura:
nel modo in cui la nominiamo,
nel tentativo di metterle distanza,
come se attenuandola potessimo tenerla più lontana da noi.
Forse ci spaventa perché ci ricorda che non possiamo controllare tutto.
Che ogni cosa, anche la più bella, ha un tempo.
Che nessuno resta per sempre, nemmeno noi.
E allora la evitiamo.
Ma ogni volta che la evitiamo, evitiamo anche un pezzo di vita:
quello che ci insegna a dare valore, a dire “ti voglio bene”,
a restare quando tutto finisce.
Eppure, la morte è lì, anche quando non la guardiamo.
Sta nei ricordi, nei modi di dire che ci restano in bocca,
nelle battute che ripetiamo senza sapere da chi le abbiamo imparate.
Sta nel profumo di un piatto cucinato “come lo faceva lei”,
nella tovaglia della domenica,
nei gesti che non abbiamo mai deciso di imparare, ma che sappiamo a memoria.
Qui, da noi, cucinare per qualcuno è ancora un modo per dire “ti voglio bene”.
Preparare un dolce, riempire un piatto, raccomandarsi “mangia che ti fa bene”
è una lingua antica, fatta di cura.
E spesso, in quei gesti, senza accorgercene, tornano le mani di chi non c’è più.
È lì che potremmo iniziare a vedere che l’amore, quando è vero, non finisce: cambia forma.
Forse è questo che la morte ci insegna, piano piano.
Che non possiamo trattenere nulla,
ma possiamo continuare a sentire, a ricordare, a restare legati
nelle piccole cose che sopravvivono a tutto.

🟡 Ti spaventa parlare di morte?
Ti è mai capitato di non sapere cosa dire a qualcuno che stava soffrendo?
Ti capita di evitare certi pensieri,
o ti senti più vivo quando li accogli?

In questi giorni ho rivisto Encantoe poi Coco.Due film che parlano, in modi diversi,di famiglia, di memoria, di assenze ...
04/11/2025

In questi giorni ho rivisto Encanto
e poi Coco.
Due film che parlano, in modi diversi,
di famiglia, di memoria, di assenze che restano vive.
Forse li ho scelti proprio per questo.
Avevo voglia di capire come altrove
si sente la morte.
Non come una fine, ma come una presenza che cambia forma.
In Coco, la Día de los Muertos è piena di luce, di musica, di altari colorati.
I defunti “tornano” per un giorno,
si celebrano le loro vite, si accendono ricordi.
È una festa che unisce, non che separa.
E mentre guardavo, mi sono chiesta:
e qui, invece?
Qui in Campania, dove la stessa ricorrenza
ha un suono diverso, più lento, più silenzioso,
cosa succede dentro di noi?
Noi i fiori li portiamo al cimitero,
non sugli altari in casa.
Le parole le diciamo piano,
come se il dolore non dovesse disturbare.
Ma forse, anche nel nostro modo di stare in silenzio,
c’è la stessa intenzione: non dimenticare.

Perché ricordare non è restare fermi.
È lasciare che chi abbiamo amato continui a vivere
in quello che ancora sentiamo,
in ciò che scegliamo di portare con noi.
🕯️
Ci sono legami che non finiscono.
Si trasformano. Cambiano voce, forma, tempo.
Ma restano.
E ogni volta che li ricordiamo, li riportiamo alla vita.

🟡 E tu?
Come vivi questi giorni?
C’è qualcuno che, anche da lontano, ti “viene a trovare”?

Se vuoi, puoi scrivimelo.
Oppure portare con te domanda.
È già abbastanza.

Venerdì ho festeggiato il mio onomastico.Negli ultimi anni ho iniziato a viverlo in modo diverso.Non solo come “la festa...
28/10/2025

Venerdì ho festeggiato il mio onomastico.
Negli ultimi anni ho iniziato a viverlo in modo diverso.
Non solo come “la festa del mio nome”,
ma come un modo per chiedermi:
da dove viene, davvero, questo nome?
Chi lo ha scelto?
E perché proprio questo?

Nel mio caso, è stata mia nonna materna a sceglierlo.
Ha voluto ridare voce al nome di mio nonno.
Far risuonare un’assenza dentro una presenza nuova.
E non è una storia solo mia.
Qui in Campania succede spesso.
I nomi non si inventano: si tramandano.
A volte per amore, a volte per rispetto,
a volte solo perché “si è sempre fatto così”.
Ogni nome porta dentro una storia,
una persona, una memoria.

Col tempo ho capito che un nome
non è solo una parola scritta sui documenti.
È qualcosa che ci precede
e che, un po’ alla volta, impariamo ad abitare.
Non sempre ci assomiglia subito.
A volte protegge, a volte pesa.
Ma può diventare uno spazio in cui scegliere
che significato dargli, oggi,
con la vita che stiamo costruendo.

🟡 E tu?
Ti sei mai interrogatə sul tuo nome?
Se oggi potessi sceglierlo tu,
lo sceglieresti ancora o lo cambieresti?

La domenica sera, ultimamente, mi capita di inciampare su Che Tempo Che Fa.Non lo cerco davvero, ma lo trovo lì, mentre ...
22/10/2025

La domenica sera, ultimamente, mi capita di inciampare su Che Tempo Che Fa.
Non lo cerco davvero, ma lo trovo lì, mentre finalmente mi fermo e mi concedo un po’ di silenzio.

È un programma che non urla, non corre.
Persone che parlano, raccontano un film, un libro, una storia di vita.
E senza volerlo, ti accendono qualche sinapsi.
A volte fanno sorridere, a volte resti in ascolto più del previsto.

Mi piace perché la domenica sera, quando non esco e mi prendo il tempo per rifiatare,
questo programma diventa una compagnia gentile.
Ti allarga il campo, senza forzarti a pensare per forza.

Non è uno Spunto dal Divano come gli altri, ma forse lo è comunque:
guardare, ascoltare, lasciare che qualcosa arrivi.

Se domenica sera non hai programmi,
forse puoi sederti sul divano, anche tu.
E vedere dove ti porta.

🛋️

Questa estate, a Edimburgo, non cercavo grandi risposte.Ma certe cose ti fermano anche quando non le cerchi.Per me è sta...
21/10/2025

Questa estate, a Edimburgo, non cercavo grandi risposte.
Ma certe cose ti fermano anche quando non le cerchi.
Per me è stato un cane di bronzo.
La statua di Bobby, davanti al cimitero di Greyfriars.
La sua storia la conoscono in tanti:
per 14 anni, ogni giorno, ha vegliato la tomba del suo padrone.
Sempre lì. Nello stesso punto.
Fedeltà assoluta.
Mi sono fermata anch’io.
E non tanto per la storia in sé.
Ma per la domanda che, in silenzio, ha portato con sé:

Quando l’amore è un atto di cura…
e quando diventa una forma di prigionia?

Non ho pensato solo alla mia storia,
ma a tante storie che ci abitano come popolo, come generazioni.
Ho pensato a chi restava ad aspettare chi partiva per la guerra.
A chi riceveva lettere che smettevano di arrivare.
A chi restava fedele a una promessa, anche se l’altro non tornava. Anche se l'altro moriva.
A chi, invece, partiva: infermiere, crocerossine, donne che dicevano
“l’amore non si perde se io continuo a vivere.”
Ma non è solo passato.
Succede ancora oggi.
C’è chi resta in amori che non esistono più.
Chi aspetta messaggi che non arrivano mai.
Chi ama sperando che l’altro cambi.
Chi confonde la fedeltà con il dovere di non andarsene.
Chi resta perché ha paura di ferire.
O di restare solo.
Per generazioni ci hanno insegnato che amare significa restare. Sempre.
Che chi va via sbaglia.
Che chi si protegge è egoista.

Ma è davvero così?

Forse la fedeltà è bellissima,
quando nasce dalla libertà.
Quando è scelta, non catena.
Quando non chiede di smettere di vivere.
Perché si può ricordare e andare avanti.
Si può amare e respirare.
Si può restare… ma restare vivi.

🟡 E tu? Che ne pensi?
Di tutto ciò che hai imparato sull’amore e sulla fedeltà,
cosa scegli di tenere con te?
E cosa, invece, senti che è tempo di trasformare?
Se vuoi, puoi scrivimelo.
Oppure portare con te domanda.
È già abbastanza.

Da un po’ sentivo che qualcosa stava cambiando.La rubrica, nata da un bisogno preciso, ha cominciato a respirare in un m...
14/10/2025

Da un po’ sentivo che qualcosa stava cambiando.
La rubrica, nata da un bisogno preciso, ha cominciato a respirare in un modo diverso.
Forse perché sono cambiata io.

Ho sempre amato il bello.
Non quello perfetto, ma quello che resiste:
le pietre delle città medievali,
le case che portano addosso il tempo,
le strade che sanno più di noi.

Mi piace perdermi nei dettagli — nei viaggi, nelle emozioni, nei pensieri.
È così che mi ritrovo ogni volta: non seguendo una direzione,
ma lasciandomi sorprendere da ciò che incontro.

Quando ho iniziato questa rubrica, cercavo un modo per dare voce a quell’“io” che esiste nonostante la propria storia.
Oggi sento di voler raccontare anche ciò che nasce grazie a quella storia.
Perché si cresce non solo contro, ma dentro —
trasformando, piano piano, ciò che ci ha formato.

E allora questa rubrica sarà così: irregolare, curiosa, viva.
Non avrà un filo unico, perché nemmeno io ne ho uno.
Ogni settimana porterà un pensiero che mi ha colpita,
una domanda, un frammento di bellezza incontrato per caso.
Forse sarà costante, forse no — ma sarà sempre vera.

E una cosa voglio dirla chiaramente:
io non sono esattamente “social”.
Non mi ci muovo dentro con disinvoltura.
Sto solo cercando il mio modo — non per lavorare,
ma per portare qui la mia voce, il mio modo di stare,
il mio modo di fare questo mestiere.

Forse non sarò quello che qualcuno si aspettava trovandomi,
e non sono nemmeno come pensavo di essere quando ho iniziato.
E va bene così.

E chiedo scusa se questo mio modo a volte sarà in un modo
e a volte sembrerà diverso,
ma sono un essere umano e ho mille sfumature.
A volte chiacchiero da morire,
altre starei in silenzio per ore,
altre potrei sembrare un pesce fuori d’acqua…
altre ancora, chissà.

Se restate, sarà un rischio che corriamo insieme.
Io, con il mio modo imprevedibile e diretto;
voi, con la curiosità di scoprire dove porterà.
Parliamone, confrontiamoci, ditemelo.
Perché questo spazio non vuole essere perfetto,
vuole essere vivo — come chi lo abita.

Ricominciamo da qui.
Io ora sono questa.
Voi ora siete questi.
Domani… chi lo sa.

Ci state?

Oggi, nella giornata mondiale della salute mentale, voglio parlarvi di ciò che significa per me.Per me nasce dal conosce...
10/10/2025

Oggi, nella giornata mondiale della salute mentale, voglio parlarvi di ciò che significa per me.

Per me nasce dal conoscersi, dal riconoscere le proprie parti, anche quelle che non ci piacciono.
Nasce dal permettersi di stare, di accettare di non essere qualcun altro, di non dover piacere sempre, di mettere confini: perché non tutti (o tutto) meritano tutto da noi.

Ma la salute mentale non è solo questo spazio intimo e personale.
È anche stare nel mondo, con tutto ciò che comporta.
È non chiudere gli occhi davanti al dolore, come quello che vediamo in questi giorni, in Gaza, in ogni luogo in cui la vita viene calpestata.
E chiedersi: che cosa resterà di tutto questo nelle generazioni che verranno? Che cosa potranno ancora amare? Che forma prenderà per loro la salute mentale, il ricominciare, il fidarsi?

Eppure, dentro e nonostante tutto questo, la salute mentale è anche forza, libido, voglia di vivere.
È la capacità di sentire ancora desiderio, curiosità, vitalità, anche quando il mondo sembra spegnersi.
È un atto politico e umano: scegliere la vita, scegliere di esserci, scegliere di conoscersi ancora.

Perché la salute mentale non è solo assenza di dolore,
ma presenza piena di sé, nella luce e nell’ombra. ✨

La settimana scorsa si è celebrata la Festa dei Nonni.Un giorno simbolico, certo, ma anche un’occasione preziosa per fer...
07/10/2025

La settimana scorsa si è celebrata la Festa dei Nonni.
Un giorno simbolico, certo, ma anche un’occasione preziosa per fermarci a pensare a chi è venuto prima di noi.
A quelle radici da cui, in un modo o nell’altro, siamo nati.
A gesti che continuano a vivere nelle nostre mani, a frasi che ancora ci abitano, a modi di stare al mondo che ci hanno plasmati più di quanto immaginiamo.
Alcune di queste tracce sono calde, dolci, rassicuranti.
Altre sono più rigide, più scomode, a volte persino dolorose.
Ma tutte fanno parte della nostra storia.
Eppure, col tempo, arriva un momento in cui dobbiamo fare qualcosa con questa eredità.
Perché crescere significa anche scegliere cosa tenere e cosa trasformare.
Forse ci hanno insegnato a “non disturbare”, e oggi facciamo fatica a chiedere aiuto.
Forse ci hanno trasmesso l’idea che “l’amore è sacrificio”, e oggi facciamo fatica a mettere dei confini.
Forse ci hanno mostrato che “l’errore si paga caro”, e oggi abbiamo paura di sbagliare.
Non per colpa di qualcuno.
Ma perché, semplicemente, chi ci ha preceduto, spesso, ha provato a fare quello che poteva con gli strumenti che aveva.
Il punto è che arriva un momento in cui tocca a noi.
Non possiamo cambiare ciò che ci è arrivato, è vero,
ma possiamo decidere come portarlo con noi.
Possiamo scegliere di tenere ciò che ci fa bene e di trasformare ciò che ci pesa.
Possiamo costruire, partendo da quella base, un modo nostro di stare al mondo.
E allora ti chiedo:
🟡 Quando pensi a quello che hai ereditato dalla tua famiglia, cosa scegli di tenere con te?
E cosa, invece, senti il bisogno di cambiare?
Se vuoi, puoi scrivermelo.
Oppure anche solo portare con te questa domanda.
È già abbastanza.

La settimana scorsa abbiamo parlato della paura di sbagliare.Ma, se andiamo ancora un po’ più a fondo, ci accorgiamo che...
30/09/2025

La settimana scorsa abbiamo parlato della paura di sbagliare.
Ma, se andiamo ancora un po’ più a fondo, ci accorgiamo che spesso quella paura proviene da una paura ben precisa: quella di deludere.
Perché non temiamo solo l’errore in sé.
Temiamo lo sguardo dell’altro sull’errore.
Temiamo il silenzio deluso di un genitore, il giudizio implicito di chi ci ha sempre visti “quelli bravi”, la frase non detta che ci pesa addosso: “da te non me lo sarei mai aspettato…”

Molti di noi sono cresciuti così.
Con l’idea che il nostro valore passasse attraverso le aspettative degli altri:
che il voto dovesse essere alto,
che la scelta “giusta” fosse quella più sicura,
che la vita “giusta” fosse quella approvata da chi ci vuole bene.
E allora scegliamo un’università che non amiamo davvero.
Restiamo in un lavoro che non ci somiglia più.
Proviamo a essere figli perfetti, partner perfetti, amici perfetti.
Non perché lo vogliamo, ma perché abbiamo paura di deludere.

Ma vivere per non deludere significa vivere con un peso sulle spalle.
Significa mettere gli altri, o la loro idea di noi, davanti a quello che desideriamo davvero.
E, senza accorgercene, finiamo per deludere la persona più importante: noi stessi.
La verità è che deludere è inevitabile.
Ogni scelta può deludere qualcosa o qualcuno:
una strada lasciata indietro,
un’immagine ideale di noi,
un progetto che qualcun altro aveva immaginato per la nostra vita.
Ma deludere non è tradire.
Deludere, a volte, è scegliere.
È decidere di ascoltare la nostra voce anche se non è quella che gli altri si aspettano.
È dare valore a ciò che conta per noi, anche se non coincide con ciò che conta per qualcun altro.

🟡 E allora ti chiedo: quante delle scelte che hai fatto finora erano davvero tue?
E quante, invece, erano il tentativo di non deludere nessuno?

Se vuoi, puoi scrivermelo.
Oppure puoi portare con te la domanda.
È già abbastanza.

La settimana scorsa abbiamo parlato della paura di cominciare.Ma, molto spesso, dietro quella paura c’è la paura di sbag...
23/09/2025

La settimana scorsa abbiamo parlato della paura di cominciare.
Ma, molto spesso, dietro quella paura c’è la paura di sbagliare.

La paura di sbagliare non nasce dal nulla.
Può venire da famiglie in cui ogni errore veniva rimarcato per anni.
Da relazioni in cui uno sbaglio diventava vergogna.
Da lavori in cui non era concesso il minimo passo falso.

E, ancora più indietro, ci sono radici storiche.
Molti di noi sono figli, o nipoti, di generazioni cresciute dentro al patriarcato (o al matriarcato).
In quell’epoca non era il singolo a scegliere:
ogni decisione passava per i “grandi”, che stabilivano matrimoni, percorsi, educazione.
E se non sceglievi, non sbagliavi.
Ma non ti assumevi nemmeno la responsabilità della tua vita.

Oggi siamo lontani da quel tempo.
Eppure, per mille motivi diversi, ci è rimasto addosso un messaggio simile:
che sbagliare non è concesso.
Che l’errore è colpa, non passaggio.

Ma possiamo cominciare a metterci un pensiero nuovo.
A chiederci se davvero lo sbaglio sia così pericoloso.
A modificare qualcosa, anche poco.

Perché l’errore non è la fine.
È parte del cammino.
È la strada che ci libera dalla paura di restare immobili.

E allora oggi ti chiedo:
🟡 Quando pensi all’errore, lo senti ancora come una colpa…
o riesci a vederlo come un varco?

Se vuoi, puoi scrivermelo.
Oppure anche solo portare con te questa domanda.
È già abbastanza.

Oggi questa rubrica sarà un po’ diversa.Una parentesi. Una deviazione. Un momento mio.Ma forse anche tuo.In questi mesi ...
29/07/2025

Oggi questa rubrica sarà un po’ diversa.
Una parentesi. Una deviazione. Un momento mio.
Ma forse anche tuo.

In questi mesi abbiamo parlato di famiglia, ruoli, condizionamenti.
Oggi voglio raccontarti una sera, un ricordo, una nostalgia che è tornata a trovarmi.

💬 La storia completa è nel primo commento, se ti va di leggerla.

E se succede anche a te…
👉 Ti capita mai di sentirla, la nostalgia?

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