11/11/2025
La settimana scorsa ho pubblicato una rubrica in cui si parlava anche della morte.
E mi sono accorta di una cosa.
Ci sono parole che, anche solo a pronunciarle, fanno silenzio intorno.
“Morte” è una di quelle.
Non sappiamo mai bene come usarla.
Qualcuno la evita, qualcuno ci scherza,
qualcuno la cambia con “ci ha lasciato”, “non c’è più”.
E forse è proprio lì che comincia la paura:
nel modo in cui la nominiamo,
nel tentativo di metterle distanza,
come se attenuandola potessimo tenerla più lontana da noi.
Forse ci spaventa perché ci ricorda che non possiamo controllare tutto.
Che ogni cosa, anche la più bella, ha un tempo.
Che nessuno resta per sempre, nemmeno noi.
E allora la evitiamo.
Ma ogni volta che la evitiamo, evitiamo anche un pezzo di vita:
quello che ci insegna a dare valore, a dire “ti voglio bene”,
a restare quando tutto finisce.
Eppure, la morte è lì, anche quando non la guardiamo.
Sta nei ricordi, nei modi di dire che ci restano in bocca,
nelle battute che ripetiamo senza sapere da chi le abbiamo imparate.
Sta nel profumo di un piatto cucinato “come lo faceva lei”,
nella tovaglia della domenica,
nei gesti che non abbiamo mai deciso di imparare, ma che sappiamo a memoria.
Qui, da noi, cucinare per qualcuno è ancora un modo per dire “ti voglio bene”.
Preparare un dolce, riempire un piatto, raccomandarsi “mangia che ti fa bene”
è una lingua antica, fatta di cura.
E spesso, in quei gesti, senza accorgercene, tornano le mani di chi non c’è più.
È lì che potremmo iniziare a vedere che l’amore, quando è vero, non finisce: cambia forma.
Forse è questo che la morte ci insegna, piano piano.
Che non possiamo trattenere nulla,
ma possiamo continuare a sentire, a ricordare, a restare legati
nelle piccole cose che sopravvivono a tutto.
🟡 Ti spaventa parlare di morte?
Ti è mai capitato di non sapere cosa dire a qualcuno che stava soffrendo?
Ti capita di evitare certi pensieri,
o ti senti più vivo quando li accogli?