Dott.ssa Raffaella Mancano - Psicologa

Dott.ssa Raffaella Mancano - Psicologa Psicologa Clinica e della Salute, iscritta all’Albo degli Psicologi della Campania,n 8352. Psicoterapeuta ad orientamento sistemico relazionale familiare.

È stato mentre decoravo l’albero nel nuovo studio che il limite si è fatto sentire più forte.Quest’anno dicembre è arriv...
19/12/2025

È stato mentre decoravo l’albero nel nuovo studio che il limite si è fatto sentire più forte.

Quest’anno dicembre è arrivato con molte cose in movimento.
Un nuovo studio che prende forma,
nuovi ritmi da creare,
spazi che chiedono tempo per essere abitati.

In questi giorni ho scritto una rubrica sul limite.
E forse è stato proprio lì che ho iniziato a percepirlo,
a dargli una forma più chiara.

C’è un momento, a volte,
in cui il limite non chiede di essere capito meglio,
ma semplicemente rispettato.

In questo momento sento il bisogno di rallentare.
Di essere presente a ciò che sta cambiando:
nella vita,
nelle cose che abitano le mie giornate,
nello spazio che sto costruendo e che voglio sentire davvero mio.

Per questo, per un po’,
sospendo le rubriche
e mi tolgo la scadenza settimanale.

Qui resto.
Con altri tempi.

Tornerò alle rubriche quando sentirò
che il ritmo è di nuovo quello giusto per me.

Non sparisco.
Mi fermo un attimo.

Con gratitudine.

Grazie a chi passa,
a chi legge,
a chi resta.

❣️

Questa settimana mi è tornata in mente una frase antica.Una di quelle che restano nel fondo della memoria,come se aspett...
16/12/2025

Questa settimana mi è tornata in mente una frase antica.
Una di quelle che restano nel fondo della memoria,
come se aspettassero il momento giusto per risalire.

“Errare humanum est, perseverare autem diabolicum.”
Sbagliare è umano,
perseverare è diabolico.

Non so se sia questo il significato “giusto” di quella frase.
So solo che, rileggendola,
mi ha fatto pensare al limite.
A quel punto sottile in cui non è più questione di sbagliare,
ma di continuare.
Di restare.
Di insistere.

Perché il limite, molto spesso, non arriva all’improvviso.
Non ci sorprende.
Non ci coglie impreparati.

Lo sentiamo.
Nel corpo che si contrae.
Nel fastidio che ritorna.
In quella sensazione sottile che dice:
qui mi sto facendo male.

Succede nelle relazioni, certo.
Ma succede anche nel lavoro,
quando restiamo in un posto che non ci somiglia più
come se non avessimo alternative.
Succede nei ruoli che continuiamo a occupare
perché “è sempre stato così”.
Succede nei ritmi che sopportiamo
anche quando sappiamo che ci stanno svuotando.

Il punto non è riconoscere il limite.
Quello, spesso, lo riconosciamo benissimo.

Il punto è scegliere cosa farne.

Perché tra sapere che qualcosa ci ferisce
e decidere di proteggerci
c’è uno spazio enorme.
Uno spazio fatto di paura, abitudine, lealtà,
senso del dovere,
o dell’idea che non possiamo fare diversamente.

E invece, a volte, possiamo.
Possiamo spostarci.
Possiamo cambiare modo.
Possiamo rallentare.
Possiamo ridisegnare.

Non sempre subito.
Non sempre facilmente.
Ma possiamo.

Ed è qui che quella frase antica, almeno per me,
diventa una domanda.

Non: ho sbagliato?
Ma:
quanto a lungo scelgo di restare
in qualcosa che so che mi ferisce?

Perché il confine, quello vero,
non lo stabilisce l’altro.
Non lo stabilisce il contesto.
Non lo stabilisce il tempo.

Lo scegli tu.

🟡 E tu?
C’è un limite che senti da tempo,
ma che stai ancora sopportando
come se non avessi scelta?
Cosa cambierebbe se iniziassi a considerarlo davvero una tua responsabilità?

Ieri era l’Immacolata.E per molti di noi l’8 dicembre ha sempre avuto un significato preciso:il giorno dell’albero.A cas...
09/12/2025

Ieri era l’Immacolata.
E per molti di noi l’8 dicembre ha sempre avuto un significato preciso:
il giorno dell’albero.
A casa mia era così.
Un rito che non si toccava: le scatole, le luci, la casa che cambiava respiro.
Poi, qualche anno fa, senza quasi accorgermene,
ho iniziato a farlo prima.
Prima dell’8.
Prima della tradizione.
Prima “del solito”.
E la cosa curiosa è che non ero l’unica.
In tanti, negli ultimi anni, hanno anticipato l’albero.
Come se quel gesto, piano piano, avesse cambiato posto
senza che ce ne accorgessimo davvero.

Quest’anno, invece, sono tornata all’8 dicembre.
E lì mi si è aperta una domanda:
da quando ho iniziato ad anticipare?
E soprattutto: perché?

Mi è tornato alla mente il 2020.
La pandemia, le distanze, la difficoltà di tornare a casa.
Ricordo bene quella sensazione di lontananza, fisica ed emotiva,
e la ricerca di qualcosa che tenesse compagnia in un tempo che faceva silenzio.
Forse per questo, allora, l’albero è arrivato prima:
un modo per portare luce in anticipo,
per sentire un po’ di calore,
per ricreare un’idea di casa quando la casa era altrove.
Ma questo è il mio “forse”.
La mia ipotesi.
Non una verità valida per tutti.
Per altri, il motivo potrebbe essere stato un altro.
O nessun motivo preciso.
Solo il bisogno di stare bene un po’ prima.
E poi ci sono altri riti, quelli che ognuno si porta dietro:
chi la domenica non cominciava davvero senza il profumo del ragù,
chi apre i regali il 24 sera e chi il 25 mattina,
chi ha sempre fatto l’albero tutti insieme
e chi, da un certo punto in poi, lo fa da solo o in due.
Piccoli gesti che cambiano forma mentre cambiamo noi.

E allora penso che i riti siano così:
si muovono con noi.
Si anticipano quando qualcosa chiede calore,
ritornano quando ritroviamo fiato per aspettare.
E senza fare rumore, raccontano come stiamo
prima ancora che ce ne rendiamo conto.

🟡 E tu?
Negli ultimi anni hai cambiato il giorno in cui fai l’albero?
Lo anticipi, lo fai l’8 dicembre, lo rimandi?
Che storia racconta oggi questo rito per te?

Questa settimana mi è arrivato un pensiero strano, di quelli che ti sfiorano piano… e poi cominciano ad allargarsi.È ini...
02/12/2025

Questa settimana mi è arrivato un pensiero strano, di quelli che ti sfiorano piano… e poi cominciano ad allargarsi.

È iniziato tutto guardando un programma in tv.
Mostravano un Lego degli anni ’70: una scatola semplice, bellissima, ma quello che mi ha colpita davvero è stato l’ordine.
Ogni pezzo diviso per colore, ogni forma al suo posto.
Guardarlo dava una sensazione di quiete.
E mentre osservavo quell’ordine così “di altri tempi”, mi è venuto da pensare a come i giochi raccontano il mondo in cui siamo cresciuti.
Quelli di ieri chiedevano lentezza, pazienza, costruzione.
Quelli di oggi, spesso, sono più veloci, più immediati, quasi fatti per non farti perdere tempo.
E da lì il pensiero si è allargato ancora.
Perché poco dopo mi sono imbattuta in un confronto tra Cenerentola degli anni ’50 e un cartone del 2025.
E mi ha colpito una cosa: la velocità.
Prima le scene duravano di più, l’inquadratura respirava, ti dava il tempo di stare.
Oggi le immagini scorrono rapide, si susseguono come se avessero paura di annoiarti.
E allora la domanda è diventata più grande:

Come cambia il nostro modo di crescere quando cambiano i giochi?
Quando cambia la velocità dei cartoni?
Quando cambia il ritmo delle cose che ci formano da piccoli?

Non è nostalgia.
È curiosità.
È il chiedersi cosa succede dentro di noi quando cambiano gli oggetti che ci hanno formati.
Cosa resta quando i pezzi sono ordinati…
e cosa succede quando sono tutti mescolati.
Perché i giochi educano.
I cartoni educano.
Il ritmo educa.
I Lego ordinati ti allenavano alla calma, alla precisione, al “costruire piano”.
Le scene lente ti insegnavano ad aspettare, a stare dentro un’emozione.
Oggi tutto è più rapido, più pieno, più “subito”.
Non è giusto o sbagliato.
È diverso.
E noi cambiamo insieme a quello che tocchiamo, guardiamo, ascoltiamo.
Ed è incredibile a quante cose può farci pensare un semplice lego degli anni 70.

🟡 E tu?
C’è un gioco o un cartone della tua infanzia
che, riguardandolo oggi, capisci che qualcosa te lo stava insegnando?

Scrivimelo, se vuoi.
O porta con te la domanda, è già abbastanza.

Ci sono pensieri che arrivano piano, ma quando arrivano parlano di noi.Questa settimana, a me è arrivato questo:che molt...
25/11/2025

Ci sono pensieri che arrivano piano, ma quando arrivano parlano di noi.
Questa settimana, a me è arrivato questo:
che molti di noi sono cresciuti senza sapere davvero cosa fosse un bisogno.
Non perché mancasse l’amore.
Ma perché l’amore, allora, parlava un’altra lingua.

A noi dicevano:
“Non piangere.”
“Non è niente.”
E chi ce lo diceva? Genitori che, a loro volta, non avevano mai avuto spazio per i propri bisogni.
Figli di un tempo che chiedeva solo una cosa: andare avanti.
Prima di loro, c’erano i nostri nonni:
le generazioni del “si lavora e si tace”,
quelle che già da piccoli dovevano andare ad aiutare in campagna, o dovevano curarsi della casa;
quelle in cui sentire non serviva,
e nominare un bisogno era quasi un lusso.

Così, senza colpa, i silenzi e i bisogni non detti sono arrivati fino a noi.
Generazione dopo generazione.
E così, oggi tanti di noi fanno fatica a dire:
“Mi serve aiuto.”
“Ho bisogno di fermarmi.”
“Ho bisogno di qualcuno vicino.”

Perché, senza colpa, abbiamo ereditato un copione antico:
non pesare, non disturbare, non chiedere.

Eppure, crescere davvero, comincia qui:
quando inizi a vedere i tuoi genitori non solo come genitori , ma come esseri umani pieni di storia, limiti, mancanze, tentativi;
quando smetti di aspettarti che colmino tutto
e inizi tu a nominare ciò di cui hai bisogno.

Diventiamo adulti quando capiamo questo: possiamo voler bene a ciò che ci hanno dato
e, allo stesso tempo, scegliere di costruire qualcosa di diverso.

E da lì nasce una domanda nuova:

Io, oggi, di cosa ho davvero bisogno?

Una domanda piccola, ma rivoluzionaria.

🟡 E tu?
C’è un bisogno che nessuno ti ha insegnato a riconoscere
e che adesso stai imparando a nominare?

Se vuoi, scrivimelo.
O porta la domanda con te,
è già abbastanza.

Ieri sera guardavo un programma in tv.Quelli in cui porti un oggetto, te lo valutano e poi decidono se venderlo o no.A u...
18/11/2025

Ieri sera guardavo un programma in tv.
Quelli in cui porti un oggetto, te lo valutano e poi decidono se venderlo o no.
A un certo punto arriva una ragazza con un gadget degli anni ’70/’80 di una piccola azienda italiana di alimentari.
Valore economico? 80 euro.
Niente cifra da capogiro.
Eppure, mentre ne parlavano, mi è venuto un pensiero addosso.
Mi sono immaginata il salumiere che regalava quel gadget al “cliente buono”.
Quello che tornava sempre.
Quello di cui sapeva il nome, i gusti, forse pure i problemi.
Oggi entriamo al supermercato, passiamo la tessera, facciamo la spesa e usciamo.
Ci sono migliaia di persone ogni giorno.
Nessuno può davvero sapere chi siamo.
E non è colpa di nessuno: è proprio cambiato il modello, è cambiata la società.
Non è nostalgia del “si stava meglio quando…”.
È una domanda che mi resta lì:

💭 Cosa abbiamo perso, per strada, quando abbiamo smesso di essere visti da vicino?

Quando il macellaio conosceva la tua famiglia,
quando il panettiere ti teneva da parte “il solito”,
quando il farmacista sapeva a memoria le medicine di tua nonna…
non era solo servizio.
Era relazione. Era riconoscimento.
Oggi abbiamo più scelta, più comodità, più offerte.
Ma a volte meno sguardi che ci riconoscono.
Meno persone che sanno come stiamo davvero, al di là dello scontrino.
E allora mi chiedo se, in fondo, tanta solitudine di oggi
non c’entri anche con questo:
con il sentirsi spesso “uno dei tanti”,
più che “quel qualcuno” che qualcuno conosce.

🟡 E tu?
Dove senti, nella tua vita di adesso, di essere davvero visto/a?
Ti manca, a volte, quel tipo di vicinanza lì?

Se ti va, puoi raccontarmelo.
Oppure puoi solo portarti dietro la domanda, mentre fai la spesa. 🛒✨


La settimana scorsa ho pubblicato una rubrica in cui si parlava anche della morte.E mi sono accorta di una cosa.Ci sono ...
11/11/2025

La settimana scorsa ho pubblicato una rubrica in cui si parlava anche della morte.
E mi sono accorta di una cosa.
Ci sono parole che, anche solo a pronunciarle, fanno silenzio intorno.

“Morte” è una di quelle.
Non sappiamo mai bene come usarla.
Qualcuno la evita, qualcuno ci scherza,
qualcuno la cambia con “ci ha lasciato”, “non c’è più”.
E forse è proprio lì che comincia la paura:
nel modo in cui la nominiamo,
nel tentativo di metterle distanza,
come se attenuandola potessimo tenerla più lontana da noi.
Forse ci spaventa perché ci ricorda che non possiamo controllare tutto.
Che ogni cosa, anche la più bella, ha un tempo.
Che nessuno resta per sempre, nemmeno noi.
E allora la evitiamo.
Ma ogni volta che la evitiamo, evitiamo anche un pezzo di vita:
quello che ci insegna a dare valore, a dire “ti voglio bene”,
a restare quando tutto finisce.
Eppure, la morte è lì, anche quando non la guardiamo.
Sta nei ricordi, nei modi di dire che ci restano in bocca,
nelle battute che ripetiamo senza sapere da chi le abbiamo imparate.
Sta nel profumo di un piatto cucinato “come lo faceva lei”,
nella tovaglia della domenica,
nei gesti che non abbiamo mai deciso di imparare, ma che sappiamo a memoria.
Qui, da noi, cucinare per qualcuno è ancora un modo per dire “ti voglio bene”.
Preparare un dolce, riempire un piatto, raccomandarsi “mangia che ti fa bene”
è una lingua antica, fatta di cura.
E spesso, in quei gesti, senza accorgercene, tornano le mani di chi non c’è più.
È lì che potremmo iniziare a vedere che l’amore, quando è vero, non finisce: cambia forma.
Forse è questo che la morte ci insegna, piano piano.
Che non possiamo trattenere nulla,
ma possiamo continuare a sentire, a ricordare, a restare legati
nelle piccole cose che sopravvivono a tutto.

🟡 Ti spaventa parlare di morte?
Ti è mai capitato di non sapere cosa dire a qualcuno che stava soffrendo?
Ti capita di evitare certi pensieri,
o ti senti più vivo quando li accogli?

In questi giorni ho rivisto Encantoe poi Coco.Due film che parlano, in modi diversi,di famiglia, di memoria, di assenze ...
04/11/2025

In questi giorni ho rivisto Encanto
e poi Coco.
Due film che parlano, in modi diversi,
di famiglia, di memoria, di assenze che restano vive.
Forse li ho scelti proprio per questo.
Avevo voglia di capire come altrove
si sente la morte.
Non come una fine, ma come una presenza che cambia forma.
In Coco, la Día de los Mu***os è piena di luce, di musica, di altari colorati.
I defunti “tornano” per un giorno,
si celebrano le loro vite, si accendono ricordi.
È una festa che unisce, non che separa.
E mentre guardavo, mi sono chiesta:
e qui, invece?
Qui in Campania, dove la stessa ricorrenza
ha un suono diverso, più lento, più silenzioso,
cosa succede dentro di noi?
Noi i fiori li portiamo al cimitero,
non sugli altari in casa.
Le parole le diciamo piano,
come se il dolore non dovesse disturbare.
Ma forse, anche nel nostro modo di stare in silenzio,
c’è la stessa intenzione: non dimenticare.

Perché ricordare non è restare fermi.
È lasciare che chi abbiamo amato continui a vivere
in quello che ancora sentiamo,
in ciò che scegliamo di portare con noi.
🕯️
Ci sono legami che non finiscono.
Si trasformano. Cambiano voce, forma, tempo.
Ma restano.
E ogni volta che li ricordiamo, li riportiamo alla vita.

🟡 E tu?
Come vivi questi giorni?
C’è qualcuno che, anche da lontano, ti “viene a trovare”?

Se vuoi, puoi scrivimelo.
Oppure portare con te domanda.
È già abbastanza.

Venerdì ho festeggiato il mio onomastico.Negli ultimi anni ho iniziato a viverlo in modo diverso.Non solo come “la festa...
28/10/2025

Venerdì ho festeggiato il mio onomastico.
Negli ultimi anni ho iniziato a viverlo in modo diverso.
Non solo come “la festa del mio nome”,
ma come un modo per chiedermi:
da dove viene, davvero, questo nome?
Chi lo ha scelto?
E perché proprio questo?

Nel mio caso, è stata mia nonna materna a sceglierlo.
Ha voluto ridare voce al nome di mio nonno.
Far risuonare un’assenza dentro una presenza nuova.
E non è una storia solo mia.
Qui in Campania succede spesso.
I nomi non si inventano: si tramandano.
A volte per amore, a volte per rispetto,
a volte solo perché “si è sempre fatto così”.
Ogni nome porta dentro una storia,
una persona, una memoria.

Col tempo ho capito che un nome
non è solo una parola scritta sui documenti.
È qualcosa che ci precede
e che, un po’ alla volta, impariamo ad abitare.
Non sempre ci assomiglia subito.
A volte protegge, a volte pesa.
Ma può diventare uno spazio in cui scegliere
che significato dargli, oggi,
con la vita che stiamo costruendo.

🟡 E tu?
Ti sei mai interrogatə sul tuo nome?
Se oggi potessi sceglierlo tu,
lo sceglieresti ancora o lo cambieresti?

La domenica sera, ultimamente, mi capita di inciampare su Che Tempo Che Fa.Non lo cerco davvero, ma lo trovo lì, mentre ...
22/10/2025

La domenica sera, ultimamente, mi capita di inciampare su Che Tempo Che Fa.
Non lo cerco davvero, ma lo trovo lì, mentre finalmente mi fermo e mi concedo un po’ di silenzio.

È un programma che non urla, non corre.
Persone che parlano, raccontano un film, un libro, una storia di vita.
E senza volerlo, ti accendono qualche sinapsi.
A volte fanno sorridere, a volte resti in ascolto più del previsto.

Mi piace perché la domenica sera, quando non esco e mi prendo il tempo per rifiatare,
questo programma diventa una compagnia gentile.
Ti allarga il campo, senza forzarti a pensare per forza.

Non è uno Spunto dal Divano come gli altri, ma forse lo è comunque:
guardare, ascoltare, lasciare che qualcosa arrivi.

Se domenica sera non hai programmi,
forse puoi sederti sul divano, anche tu.
E vedere dove ti porta.

🛋️

Questa estate, a Edimburgo, non cercavo grandi risposte.Ma certe cose ti fermano anche quando non le cerchi.Per me è sta...
21/10/2025

Questa estate, a Edimburgo, non cercavo grandi risposte.
Ma certe cose ti fermano anche quando non le cerchi.
Per me è stato un cane di bronzo.
La statua di Bobby, davanti al cimitero di Greyfriars.
La sua storia la conoscono in tanti:
per 14 anni, ogni giorno, ha vegliato la tomba del suo padrone.
Sempre lì. Nello stesso punto.
Fedeltà assoluta.
Mi sono fermata anch’io.
E non tanto per la storia in sé.
Ma per la domanda che, in silenzio, ha portato con sé:

Quando l’amore è un atto di cura…
e quando diventa una forma di prigionia?

Non ho pensato solo alla mia storia,
ma a tante storie che ci abitano come popolo, come generazioni.
Ho pensato a chi restava ad aspettare chi partiva per la guerra.
A chi riceveva lettere che smettevano di arrivare.
A chi restava fedele a una promessa, anche se l’altro non tornava. Anche se l'altro moriva.
A chi, invece, partiva: infermiere, crocerossine, donne che dicevano
“l’amore non si perde se io continuo a vivere.”
Ma non è solo passato.
Succede ancora oggi.
C’è chi resta in amori che non esistono più.
Chi aspetta messaggi che non arrivano mai.
Chi ama sperando che l’altro cambi.
Chi confonde la fedeltà con il dovere di non andarsene.
Chi resta perché ha paura di ferire.
O di restare solo.
Per generazioni ci hanno insegnato che amare significa restare. Sempre.
Che chi va via sbaglia.
Che chi si protegge è egoista.

Ma è davvero così?

Forse la fedeltà è bellissima,
quando nasce dalla libertà.
Quando è scelta, non catena.
Quando non chiede di smettere di vivere.
Perché si può ricordare e andare avanti.
Si può amare e respirare.
Si può restare… ma restare vivi.

🟡 E tu? Che ne pensi?
Di tutto ciò che hai imparato sull’amore e sulla fedeltà,
cosa scegli di tenere con te?
E cosa, invece, senti che è tempo di trasformare?
Se vuoi, puoi scrivimelo.
Oppure portare con te domanda.
È già abbastanza.

Da un po’ sentivo che qualcosa stava cambiando.La rubrica, nata da un bisogno preciso, ha cominciato a respirare in un m...
14/10/2025

Da un po’ sentivo che qualcosa stava cambiando.
La rubrica, nata da un bisogno preciso, ha cominciato a respirare in un modo diverso.
Forse perché sono cambiata io.

Ho sempre amato il bello.
Non quello perfetto, ma quello che resiste:
le pietre delle città medievali,
le case che portano addosso il tempo,
le strade che sanno più di noi.

Mi piace perdermi nei dettagli — nei viaggi, nelle emozioni, nei pensieri.
È così che mi ritrovo ogni volta: non seguendo una direzione,
ma lasciandomi sorprendere da ciò che incontro.

Quando ho iniziato questa rubrica, cercavo un modo per dare voce a quell’“io” che esiste nonostante la propria storia.
Oggi sento di voler raccontare anche ciò che nasce grazie a quella storia.
Perché si cresce non solo contro, ma dentro —
trasformando, piano piano, ciò che ci ha formato.

E allora questa rubrica sarà così: irregolare, curiosa, viva.
Non avrà un filo unico, perché nemmeno io ne ho uno.
Ogni settimana porterà un pensiero che mi ha colpita,
una domanda, un frammento di bellezza incontrato per caso.
Forse sarà costante, forse no — ma sarà sempre vera.

E una cosa voglio dirla chiaramente:
io non sono esattamente “social”.
Non mi ci muovo dentro con disinvoltura.
Sto solo cercando il mio modo — non per lavorare,
ma per portare qui la mia voce, il mio modo di stare,
il mio modo di fare questo mestiere.

Forse non sarò quello che qualcuno si aspettava trovandomi,
e non sono nemmeno come pensavo di essere quando ho iniziato.
E va bene così.

E chiedo scusa se questo mio modo a volte sarà in un modo
e a volte sembrerà diverso,
ma sono un essere umano e ho mille sfumature.
A volte chiacchiero da morire,
altre starei in silenzio per ore,
altre potrei sembrare un pesce fuori d’acqua…
altre ancora, chissà.

Se restate, sarà un rischio che corriamo insieme.
Io, con il mio modo imprevedibile e diretto;
voi, con la curiosità di scoprire dove porterà.
Parliamone, confrontiamoci, ditemelo.
Perché questo spazio non vuole essere perfetto,
vuole essere vivo — come chi lo abita.

Ricominciamo da qui.
Io ora sono questa.
Voi ora siete questi.
Domani… chi lo sa.

Ci state?

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