Dr.ssa Elisa Scala - Psicoterapia Medica Olistica

Dr.ssa Elisa Scala - Psicoterapia Medica Olistica Quando la psicoterapia tradizionale non basta, la soluzione olistica di un medico può fare la differenza. Risultato?

Offro un approccio integrato che non si limita all'ascolto. Percorsi più brevi (a partire da 10-12 sedute) e maggiormente mirati. La Psicoterapia Medica Olistica nasce come approccio breve, di durata inferiore alla media degli altri percorsi di psicoterapia. Rispetto alla psicoanalisi, invece, oltre a risultare molto più focalizzato si discosta anche come metodologia di lavoro applicata. Dopo la prima seduta con me, presenterò una diagnosi specifica del lavoro da svolgere, condividendo gli obiettivi del percorso terapeutico più idoneo. Se l'obiettivo da risolvere è singolo e non eccessivamente complesso, un ciclo di 10 sedute è sufficiente per registrare dei miglioramenti misurabili nella qualità della propria vita, sia interiore che esteriore.

Il termine 𝗻𝗲𝘃𝗿𝗼𝘀𝗶 indica una forma di sofferenza psichica caratterizzata da 𝗰𝗼𝗻𝗳𝗹𝗶𝘁𝘁𝗶 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗶𝗼𝗿𝗶 𝗶𝗻𝗰𝗼𝗻𝘀𝗰𝗶 che alimentano...
12/11/2025

Il termine 𝗻𝗲𝘃𝗿𝗼𝘀𝗶 indica una forma di sofferenza psichica caratterizzata da 𝗰𝗼𝗻𝗳𝗹𝗶𝘁𝘁𝗶 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗶𝗼𝗿𝗶 𝗶𝗻𝗰𝗼𝗻𝘀𝗰𝗶 che alimentano ansia, sintomi somatici o comportamenti disfunzionali, pur mantenendo intatto il contatto con la realtà.

A differenza delle psicosi, nelle nevrosi la persona è consapevole delle proprie difficoltà e spesso vive un contrasto tra ciò che sente e ciò che crede in qualche modo di dover essere.

Le nevrosi possono manifestarsi in molti modi come ansia cronica, fobie, ossessioni, perfezionismo patologico, somatizzazioni di varia natura, senso di colpa tormentante o relazioni affettive problematiche.

𝗖𝗮𝗽𝗶𝗿𝗲 𝘀𝗲 𝘀𝗶 𝘀𝗼𝗳𝗳𝗿𝗲 𝗱𝗶 𝘂𝗻𝗮 𝗻𝗲𝘃𝗿𝗼𝘀𝗶 non è sempre immediato perché spesso i sintomi vengono razionalizzati o attribuiti a cause esterne.

Alcuni segnali ricorrenti sono tensione costante, bisogno di controllo, difficoltà ad esprimere emozioni, paura del giudizio ed un senso di insoddisfazione che persiste anche in assenza di problemi oggettivi.

In generale, la persona nevrotica percepisce di vivere al di sotto delle proprie possibilità emotive, intrappolata in schemi di comportamento o pensiero che riconosce come dannosi ma da cui non riesce a liberarsi.

Le 𝗰𝗮𝘂𝘀𝗲 𝗽𝗶𝘂̀ 𝗱𝗶𝗳𝗳𝘂𝘀𝗲 sono da ricercarsi nelle esperienze precoci di vita, in particolare modelli familiari rigidi o contraddittori, mancanza di sicurezza affettiva, amore percepito come condizionato al dover sempre dimostrare attraverso il fare o traumi relazionali non elaborati.

Tutti questi fattori possono generare un conflitto inconscio tra i desideri autentici che albergano nella persona e il bisogno asfissiante di approvazione, dando origine a tensioni psichiche che si esprimono sotto forma di sintomi.

𝗖𝗼𝘀𝗮 𝗳𝗮𝗿𝗲 𝘀𝗲 𝘀𝗶 𝘀𝗰𝗼𝗽𝗿𝗲 𝗱𝗶 𝗮𝘃𝗲𝗿𝗲 𝘂𝗻𝗮 𝗻𝗲𝘃𝗿𝗼𝘀𝗶

Il primo passo è riconoscere la sofferenza senza giudicarsi. La nevrosi non è un segno di debolezza, ma un segnale che la psiche sta tentando di comunicare un disagio più profondo.

Un percorso di psicoterapia, in particolare con approcci che lavorano sull’inconscio e sull’elaborazione emotiva (come l’ISTDP), permette di individuare i conflitti interni alla base del sintomo e di scioglierli gradualmente.

10/11/2025

Se non ci sentiamo visti dagli altri, iniziamo noi a vederci, a portare attenzione ai nostri stati interni, ai nostri bisogni e alla voce del passeggero della carrozza (l'anima nella metafora di Gurdjieff).

Se percepiamo che i nostri bisogni non sono accolti o riconosciuti dagli altri, iniziamo a riconoscerli da noi, senza auto-imporci dinamiche di doverismo o silenziarli in nome di altro che dovrebbe essere fatto.

Se crediamo che i nostri stati emotivi non siano riconosciuti e validati, cominciamo a farlo noi.

Alfabetizziamoli, diamo loro voce e spazio al nostro interno.

Invece di mendicare dall'ambiente circostante qualcosa che potrebbe non arrivare o non essere come vorremmo, iniziamo noi a far germogliare quella qualità dentro di noi.

La qualità dell'ascolto diretto e del silenzio, uno spazio essenziale per entrare nei meandri più profondi del nostro essere.

Un esercizio molto utile è chiedersi: qual è la caratteristica che mi manca maggiormente all'interno delle relazioni più significative della mia vita attuale?

Potrebbe essere l'ascolto, l'essere riconosciuti, l'essere visti, la sincerità, il non essere manipolati, il rispetto dei propri confini personali (quindi il non essere invasi), la validazione dei propri stati emotivi.

Prendiamo il risultato di questo breve esercizio come una bussola che indica la qualità che più siamo chiamati a portare noi nel nostro mondo e campo di esistenza.

Facciamo noi il primo passo, quando sarà il momento l'ambiente si adeguerà di conseguenza.

09/11/2025

Nell’ambito del Triangolo del Conflitto di Malan l’ansia rappresenta una reazione automatica e inconscia che fa capolino quando un’emozione autentica tenta di affiorare alla coscienza, ma entra in contrasto con paure, divieti interiori o meccanismi difensivi ben radicati in noi.

Vediamo i 5 punti alla base della nascita dell’ansia:

1. L’emozione autentica come punto di partenza

Ogni persona sperimenta sentimenti profondi, come rabbia, amore, tristezza o dolore, legati ai propri bisogni affettivi.
In ogni caso, durante lo sviluppo queste emozioni possono essere state vietate o punite (per esempio, “non ci si deve mai arrabbiare”, “non bisogna piangere”, “non bisogna mostrare debolezza”).
Quando una di queste emozioni prova a riemergere in un contesto attuale, attiva inconsciamente la memoria del divieto originario.

2. Il conflitto interno

L’individuo vive allora un conflitto interiore tra due forze:
• Il bisogno di esprimere l’emozione autentica, che spinge verso la consapevolezza e la comunicazione sincera;
• La paura delle conseguenze, interiorizzata come minaccia di perdita, rifiuto, colpa o punizione.

Questo conflitto produce una tensione psicologica, ovvero l’ansia.

3. L’ansia come segnale e difesa

L’ansia è dunque un segnale di allarme interno quando la mente percepisce che sta emergendo qualcosa di “pericoloso” o proibito.

Serve a deviare l’attenzione dall’emozione sottostante, evitando che essa raggiunga pienamente la consapevolezza.

In questo senso, l’ansia funziona anche come una difesa secondaria, proteggendo dal contatto diretto con il sentimento temuto, ma al prezzo di disagio e blocco emotivo.

4. Manifestazioni dell’ansia

A seconda della capacità dell’individuo di tollerare la tensione emotiva, l’ansia può esprimersi su diversi livelli:
• Somatico: tachicardia, respiro corto, tensione muscolare, disturbi gastrointestinali.
• Cognitivo: confusione, rimuginio, difficoltà di concentrazione.
• Comportamentale: evitamento, indecisione, agitazione o rigidità.

5. Il lavoro terapeutico

In psicoterapia, l’obiettivo non è eliminare l’ansia ma riconoscerne la funzione reale, ovvero segnalare che un’emozione profonda ma inconfessabile sta tentando di emergere.

Attraverso un lavoro graduale di consapevolezza e regolazione è possibile ridurre le difese, contenere l’ansia e lasciare spazio ad una dimensione più autentica di noi, quella che ha sempre vissuto dietro barriere contenitive e difese più o meno strutturate.

07/11/2025

La differenza fondamentale tra le persone introverse e quelle estroverse è che le prime recuperano energia quando passano del tempo da sole, mentre le seconde hanno bisogno di una socialità il più possibile presente nelle proprie vite.

Come dice il termine, si tratta letteralmente di essere più “rivolti” verso la propria interiorità oppure verso l’ambiente esterno.

L’introverso punterà su interazioni sociali più selezionate, mentre l’estroverso cercherà ogni occasione per creare reti di persone intorno a sé.

Non c’è niente di male nelle due tipologie in quanto tali, ma è importante conoscere il proprio funzionamento per scegliere cosa va bene per noi.

Senza questa conoscenza, potremmo sentire disagio rispetto ad alcune nostre tendenze, oppure sforzarci di aderire a modelli che non ci appartengono e, alla lunga, finiscono per logorarci.

[𝗤𝘂𝗮𝗻𝗱𝗼 𝗶𝗹 𝗽𝗮𝘀𝘀𝗮𝘁𝗼 𝗻𝗼𝗻 𝗽𝗮𝘀𝘀𝗮: 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗶𝗻𝘂𝗮 𝗮 𝘃𝗶𝘃𝗲𝗿𝗲 𝗱𝗲𝗻𝘁𝗿𝗼 𝗱𝗶 𝗻𝗼𝗶 𝗰𝗶𝗼̀ 𝗰𝗵𝗲 𝗮𝗯𝗯𝗶𝗮𝗺𝗼 𝘃𝗶𝘀𝘀𝘂𝘁𝗼].A volte sembra che il passa...
05/11/2025

[𝗤𝘂𝗮𝗻𝗱𝗼 𝗶𝗹 𝗽𝗮𝘀𝘀𝗮𝘁𝗼 𝗻𝗼𝗻 𝗽𝗮𝘀𝘀𝗮: 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗶𝗻𝘂𝗮 𝗮 𝘃𝗶𝘃𝗲𝗿𝗲 𝗱𝗲𝗻𝘁𝗿𝗼 𝗱𝗶 𝗻𝗼𝗶 𝗰𝗶𝗼̀ 𝗰𝗵𝗲 𝗮𝗯𝗯𝗶𝗮𝗺𝗼 𝘃𝗶𝘀𝘀𝘂𝘁𝗼].

A volte sembra che il passato non voglia lasciarci andare.

Possiamo cambiare città, relazioni e abitudini, ma qualcosa dentro resta fermo, come se una parte di noi vivesse ancora là, in un tempo cristallizzato e sospeso, incapace di scorrere.

Ci accorgiamo che il passato non è davvero passato quando una parola, un volto o un semplice odore riaccendono improvvisamente emozioni antiche come una tristezza lancinante, una rabbia che non riusciamo a comprendere, un nodo alla gola che non ha una spiegazione logica.

𝗜𝗹 𝘁𝗲𝗺𝗽𝗼 𝗽𝘀𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼𝗴𝗶𝗰𝗼 𝗻𝗼𝗻 𝘀𝗲𝗴𝘂𝗲 𝗶𝗹 𝗰𝗮𝗹𝗲𝗻𝗱𝗮𝗿𝗶𝗼.

Dentro di noi ciò che non è stato compreso, sentito o accolto continua a vivere, in paziente ed instancabile attesa di essere riconosciuto.

𝗜𝗹 𝗽𝗮𝘀𝘀𝗮𝘁𝗼 𝘃𝗶𝘃𝗲 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗲𝗺𝗼𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝗰𝗼𝗻𝗰𝗹𝘂𝘀𝗮.

Quando da bambini o adulti abbiamo attraversato situazioni troppo intense come paura, dolore, umiliazione o abbandono può accadere che non siamo riusciti a vivere fino in fondo quelle emozioni.

Le abbiamo messe da parte per sopravvivere e ora quell’energia rimasta sospesa nel tempo cerca vie per farsi sentire sotto forma di ansia, malinconia o sintomi del corpo che sembrano senza motivo.

𝗜𝗹 𝗽𝗮𝘀𝘀𝗮𝘁𝗼 𝘃𝗶𝘃𝗲 𝗻𝗲𝗶 𝗻𝗼𝘀𝘁𝗿𝗶 𝗺𝗼𝗱𝗶 𝗱𝗶 𝗮𝗺𝗮𝗿𝗲 𝗲 𝗱𝗶 𝘁𝗲𝗺𝗲𝗿𝗲.

Le esperienze relazionali precoci lasciano impronte profonde. Ci insegnano, senza parole, cosa aspettarci dagli altri e da noi stessi. Così, se un tempo siamo stati ignorati, oggi potremmo cercare costantemente conferme. Se siamo stati controllati, potremmo temere ogni forma di vicinanza. Inconsciamente ripetiamo i vecchi copioni, come se sperassimo di riscrivere la storia una volta per tutte.

𝗜𝗹 𝗽𝗮𝘀𝘀𝗮𝘁𝗼 𝘃𝗶𝘃𝗲 𝗻𝗲𝗹 𝗰𝗼𝗿𝗽𝗼.

Le emozioni inespresse non scompaiono, ma prima o poi scendono nella dimensione corporea. Il corpo conserva tutto ciò che la mente preferisce dimenticare. Una tensione muscolare, un respiro corto, un mal di testa ricorrente possono essere il linguaggio silenzioso di un dolore antico. È il corpo che ci parla, chiedendo di essere ascoltato dove le parole non bastano più.

In un percorso terapeutico, dare spazio a questi frammenti del passato significa restituire loro il diritto di esistere e di essere visti.
Non si tratta di riaprire ferite, ma di permettere finalmente la loro cicatrizzazione.
Ogni emozione riconosciuta smette di essere una prigione e diventa parte della nostra storia. Non più qualcosa che ci domina, ma qualcosa che ci appartiene.

Il passato non è un nemico da dimenticare.

È una parte viva di noi che, dopo aver urlato per anni se non decenni, non fa altro che chiedere attenzione, comprensione e cura.

03/11/2025

In psicologia, una 𝗰𝗼𝗺𝘂𝗻𝗶𝗰𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝘃𝗲𝗿𝗯𝗮𝗹𝗲 𝗮𝗱 𝗮𝗹𝘁𝗮 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗻𝘀𝗶𝘁𝗮̀ è un gesto fisico o espressivo che trasmette un’emozione in modo forte, immediato e difficilmente ignorabile, quasi sempre più detonante delle parole.

Non si tratta di aggressione verbale né di violenza fisica, ma qualcosa che impone presenza.

Esempi tipici sono:

- sb****re una porta,
- alzarsi bruscamente da una stanza in presenza di altre persone,
- ba***re i pugni sul tavolo,
- alzare improvvisamente il tono di voce,
- guardare in modo tagliente o carico di disprezzo,
- sospirare in modo evidente o con una componente di teatralità.

Si tratta in genere di gesti attraverso i quali la persona comunica ad un livello non verbale emozioni intense come rabbia, frustrazione, dolore, 𝗿𝗶𝗰𝗵𝗶𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝗮𝘀𝗰𝗼𝗹𝘁𝗼 o bisogno di confermare un confine.

Accade soprattutto quando non si sente legittimata ad esprimere con le parole ciò che prova, oppure quando crede che l’altro non la stia realmente ascoltando.

Non è quindi solo un classico "perdere la pazienza", ma un linguaggio emotivo implicito che porta con sé un modo primitivo, urgente, a volte disperato, per esistere e farsi sentire.

[𝗟𝗮 𝘁𝗲𝗰𝗻𝗶𝗰𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗲 𝗱𝘂𝗲 𝘀𝗲𝗱𝗶𝗲 𝗻𝗲𝗹𝗹𝗮 𝘁𝗲𝗿𝗮𝗽𝗶𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗚𝗲𝘀𝘁𝗮𝗹𝘁: 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗱𝗮𝗿𝗲 𝘃𝗼𝗰𝗲 𝗮𝗹𝗹𝗲 𝗽𝗮𝗿𝘁𝗶 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗶𝗼𝗿𝗶].La tecnica delle due sedie...
31/10/2025

[𝗟𝗮 𝘁𝗲𝗰𝗻𝗶𝗰𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗲 𝗱𝘂𝗲 𝘀𝗲𝗱𝗶𝗲 𝗻𝗲𝗹𝗹𝗮 𝘁𝗲𝗿𝗮𝗽𝗶𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗚𝗲𝘀𝘁𝗮𝗹𝘁: 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗱𝗮𝗿𝗲 𝘃𝗼𝗰𝗲 𝗮𝗹𝗹𝗲 𝗽𝗮𝗿𝘁𝗶 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗶𝗼𝗿𝗶].

La tecnica delle due sedie, nota anche come tecnica della sedia vuota o dialogo delle sedie, è una delle pratiche esperienziali più caratteristiche della psicoterapia della Gestalt.

Si utilizza per portare in primo piano un conflitto interno, renderlo direttamente visibile e udibile nel Qui-ed-Ora, facilitando un contatto diretto tra parti di sé che normalmente agiscono da dietro le quinte, spesso in modo automatico e su cui non vi è alcun accordo precedente.

𝗘̀ 𝘂𝗻 𝗹𝗮𝘃𝗼𝗿𝗼 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝘀𝗶 𝗹𝗶𝗺𝗶𝘁𝗮 𝗮 𝗽𝗮𝗿𝗹𝗮𝗿𝗲 𝗱𝗲𝗹 𝗽𝗿𝗼𝗯𝗹𝗲𝗺𝗮, 𝗺𝗮 𝗹𝗼 𝗺𝗲𝘁𝘁𝗲 𝗶𝗻 𝗰𝗮𝗺𝗽𝗼 𝗮𝗹𝗹❜𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗻𝗼 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝘀𝘁𝗮𝗻𝘇𝗮 𝗱𝗶 𝘁𝗲𝗿𝗮𝗽𝗶𝗮, 𝗶𝗻 𝗺𝗼𝗱𝗼 𝗿𝗲𝗴𝗼𝗹𝗮𝘁𝗼 𝗲 𝗼𝘀𝘀𝗲𝗿𝘃𝗮𝗯𝗶𝗹𝗲.

In termini pratici, il terapeuta dispone due sedie una di fronte all'altra.

Al paziente viene chiesto di sedersi su una delle sedie e di dare voce ad una parte di sé coinvolta nel conflitto (ad esempio la parte che critica, controlla o impone standard elevati).

Successivamente, viene invitato a spostarsi fisicamente sull'altra sedia e ad assumere la prospettiva dell'altra parte (ad esempio la parte che desidera riposo, spontaneità o una maggiore libertà emotiva).

Il paziente, quindi, alterna le sedie e, con esse, anche i punti di vista, la postura corporea, il tono di voce, la struttura interna del discorso.

Questo movimento non è un semplice esercizio immaginativo.

Il corpo intero è coinvolto.

𝗦𝗲𝗱𝗲𝗿𝘀𝗶 𝘀𝘂 𝘂𝗻𝗮 𝘀𝗲𝗱𝗶𝗮 𝗶𝗺𝗽𝗹𝗶𝗰𝗮 𝗶𝗻𝗰𝗮𝗿𝗻𝗮𝗿𝗲 𝗽𝗶𝗲𝗻𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝘂𝗻𝗮 𝗽𝗮𝗿𝘁𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗽𝗿𝗼𝗽𝗿𝗶𝗮 𝗽𝘀𝗶𝗰𝗵𝗲.
C’è chi, nella parte "controllante", nota le spalle tese, il mento sollevato, la mandibola serrata, mentre c’è chi, incarnando nella parte "stanca", sente il busto cedere in avanti, la gola chiusa, il bisogno di piangere.

Questa emersione somatica è intenzionale. Nella Gestalt il corpo è considerato il luogo del contatto con l'esperienza reale e la postura diventa un linguaggio diretto che rivela bisogni, paure e confini.

𝗚𝗹𝗶 𝗼𝗯𝗶𝗲𝘁𝘁𝗶𝘃𝗶 𝘁𝗲𝗿𝗮𝗽𝗲𝘂𝘁𝗶𝗰𝗶 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝘁𝗲𝗰𝗻𝗶𝗰𝗮

La tecnica delle due sedie opera su più livelli.

𝗥𝗶𝗰𝗼𝗻𝗼𝘀𝗰𝗶𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼. Ogni parte viene nominata, ascoltata e trattata come un soggetto legittimo. Questo è un passaggio cruciale nelle situazioni di frammentazione interna, in cui una parte tende a dominare e l'altra viene repressa o derisa. Dare parola ad entrambe riduce l'invisibilità di una delle due e interrompe la dinamica di annullamento interno.

𝗗𝗶𝗳𝗳𝗲𝗿𝗲𝗻𝘇𝗶𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲. Spostarsi fisicamente da una sedia all'altra aiuta a distinguere le due voci. "𝘐𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘥𝘦𝘷𝘰 𝘤𝘰𝘯𝘵𝘳𝘰𝘭𝘭𝘢𝘳𝘦 𝘵𝘶𝘵𝘵𝘰" non è la stessa istanza psicologica di "𝘪𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘥𝘦𝘴𝘪𝘥𝘦𝘳𝘰 𝘧𝘦𝘳𝘮𝘢𝘳𝘮𝘪 𝘦 𝘳𝘦𝘴𝘱𝘪𝘳𝘢𝘳𝘦". Il paziente registra che queste due spinte sono diverse, hanno funzioni distinte e chiedono cose precise. Questa differenziazione è il primo passo verso l'integrazione delle parti dal momento che ciò che non è distinto rimane confuso e conflittuale.

𝗥𝗲𝗴𝗼𝗹𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲. Il terapeuta sostiene il ritmo del dialogo in modo da evitare picchi emotivi ingestibili. Se l'attivazione fisiologica sale verso un 𝘪𝘱𝘦𝘳𝘢𝘳𝘰𝘶𝘴𝘢𝘭 (agitazione, rabbia, ansia) vengono introdotti elementi di 𝘨𝘳𝘰𝘶𝘯𝘥𝘪𝘯𝘨 (respiro lento, contatto dei piedi con il pavimento, consapevolezza delle spalle e della mandibola), così che il paziente resti entro la propria finestra di tolleranza.

Se, invece, emerge una ipo-attivazione (crollo del livello energetico, stanchezza estrema, svuotamento emotivo), il terapeuta può invitare a riprendere presenza corporea con piccoli movimenti, sguardo più aperto, postura leggermente più eretta. Questo permette di vivere emozioni intense senza superare la soglia di sicurezza.

𝗡𝗲𝗴𝗼𝘇𝗶𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲. Una volta che entrambe le parti sono state ascoltate, il lavoro non si chiude con una vittoria di una parte sull'altra. La fase centrale è la negoziazione operativa. In che modo la parte che controlla può garantire stabilità e protezione senza soffocare del tutto i bisogni di riposo, gioco, spensieratezza o vulnerabilità?

E in che modo la parte spontanea può tutelare l'espressione di bisogni affettivi profondi senza mettere a rischio aspetti concreti della vita quotidiana (lavoro, responsabilità, relazioni)? In questa fase nasce spesso un accordo realistico, che rappresenta un primo embrione di integrazione delle parti.

Uno dei punti di forza principali è che la tecnica lavora nel momento presente. Non è necessario ricostruire in modo analitico l'intera storia del paziente prima di poter intervenire.

Il conflitto emerge qui-ed-ora, viene incarnato e regolato nel corpo e, quindi, può essere affrontato senza restare intrappolati per forza nel racconto razionale. Questo rende lo strumento particolarmente utile quando la persona sa tutto sul proprio problema dal punto di vista cognitivo, ma riferisce di non riuscire comunque ad interrompere certi automatismi.

29/10/2025

[𝗜 𝗺𝗮𝗿𝗰𝗮𝘁𝗼𝗿𝗶 𝘀𝗼𝗺𝗮𝘁𝗶𝗰𝗶 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝘁𝗿𝗮𝗰𝗰𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗲 𝗻𝗼𝘀𝘁𝗿𝗲 𝗲𝘀𝗽𝗲𝗿𝗶𝗲𝗻𝘇𝗲 𝗽𝗮𝘀𝘀𝗮𝘁𝗲: 𝗽𝗲𝗿𝗰𝗵𝗲́ 𝗹’𝗮𝘀𝗰𝗼𝗹𝘁𝗼 𝗱𝗶𝗿𝗲𝘁𝘁𝗼 𝗱𝗲𝗹 𝗰𝗼𝗿𝗽𝗼 𝗽𝘂𝗼̀ 𝗳𝗮𝗿𝗰𝗶 𝗱𝗲𝗰𝗶𝗱𝗲𝗿𝗲 𝗺𝗲𝗴𝗹𝗶𝗼].

Le evidenze riportate da António Rosa Damásio, neurologo, neuroscienziato, psicologo e saggista portoghese, mostrano come il semplice atto di rivolgere l’attenzione alle sensazioni corporee possa modificare in modo significativo l’esperienza emozionale.

Il suo contributo principale è aver dimostrato che le emozioni non sono fenomeni esclusivamente mentali, ma nascono dal modo in cui il corpo mappa e risponde alle modificazioni fisiologiche interne.

Secondo l’autore, il corpo non è un recettore passivo degli stati interni, ma un canale attivo attraverso cui l’emozione prende forma e può essere modulata.

Ricordi emotivamente significativi sono associati a pattern corporei registrati nel passato.

Il concetto di 𝗺𝗮𝗿𝗰𝗮𝘁𝗼𝗿𝗶 𝘀𝗼𝗺𝗮𝘁𝗶𝗰𝗶 è fondamentale per comprendere quanto il corpo partecipi attivamente al processo decisionale ed emotivo, ben prima che la mente razionale intervenga.

Questi sono tracce corporee-emozionali associate ad esperienze vissute in precedenza.

Ogni volta che viviamo una situazione significativa, soprattutto con una forte componente emotiva, il cervello registra non solo i fatti e le immagini, ma anche le reazioni del corpo come variazioni del battito, tensione muscolare, respiro, attivazione viscerale.

Queste memorie corporee vengono poi riattivate automaticamente quando ci ritroviamo in una situazione simile.
Non come pensieri, ma come sensazioni fisiche immediate, che orientano le nostre scelte.

Questo è il motivo per cui non possiamo decidere bene se siamo disconnessi dal corpo.

La dimensione corporea si dimostra quindi, ancora una volta, un teatro prezioso dove le informazioni sono direttamente accessibili, se ascoltate e lette correttamente.

27/10/2025

La 𝘀𝗶𝗻𝗱𝗿𝗼𝗺𝗲 𝗱𝗶 𝗣𝗲𝘁𝗲𝗿 𝗣𝗮𝗻 affonda spesso le sue radici psicologiche in dinamiche infantili e familiari che, in modo più o meno evidente, ostacolano la crescita emotiva e lo sviluppo dell’autonomia.

Tra le dinamiche più comuni troviamo:

- 𝗚𝗲𝗻𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶 𝗶𝗽𝗲𝗿𝗽𝗿𝗼𝘁𝗲𝘁𝘁𝗶𝘃𝗶 𝗼 𝗶𝗻𝘃𝗮𝗱𝗲𝗻𝘁𝗶, che non permettono al bambino di sperimentare la frustrazione, l’errore o il senso di responsabilità. Il messaggio implicito è: "Io penso per te, tu non sei capace".

- 𝗚𝗲𝗻𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶 𝗻𝗮𝗿𝗰𝗶𝘀𝗶𝘀𝘁𝗶, 𝗲𝗴𝗼𝗰𝗲𝗻𝘁𝗿𝗶𝗰𝗶 𝗼 𝗺𝗲𝗴𝗮𝗹𝗼𝗺𝗮𝗻𝗶, che plasmano il figlio come estensione del proprio Sé, impedendo la formazione di una vera identità autonoma. In questi casi, crescere equivale emotivamente a tradire il genitore, generando quindi senso di colpa.

- 𝗚𝗲𝗻𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶 𝗮𝘀𝘀𝗲𝗻𝘁𝗶, 𝗶𝗻𝗰𝗼𝗲𝗿𝗲𝗻𝘁𝗶 𝗼 𝗶𝗺𝗽𝗿𝗲𝘃𝗲𝗱𝗶𝗯𝗶𝗹𝗶, che non offrono un porto sicuro emotivo. Il bambino sviluppa allora un’insicurezza di fondo che lo porterà, da adulto, ad evitare ciò che richiede impegno, struttura o stabilità.

- 𝗣𝗮𝘂𝗿𝗮 𝗶𝗻𝗰𝗼𝗻𝘀𝗰𝗶𝗮 𝗱𝗲𝗹 𝗳𝗮𝗹𝗹𝗶𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗼 𝗱𝗲𝗹 𝗿𝗶𝗳𝗶𝘂𝘁𝗼, che induce la persona a rimanere in una "zona sicura", dove nessuno può giudicarla o pretendere da lei risultati reali.

- 𝗜𝗱𝗲𝗮𝗹𝗶𝘇𝘇𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗶𝗻𝗳𝗮𝗻𝘇𝗶𝗮 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗹𝘂𝗼𝗴𝗼 𝗱𝗶 𝗹𝗶𝗯𝗲𝗿𝘁𝗮̀ 𝗮𝘀𝘀𝗼𝗹𝘂𝘁𝗮, contrapposta ad una visione a tinte fosche dell’età adulta (percepita come fatica, rigidità, sofferenza).

Il risultato è una struttura psichica che fatica ad individuarsi, cioè a diventare un Sé solido, autonomo e responsabile.

La sindrome di Peter Pan, dunque, non nasce da superficialità, ma da una ferita evolutiva profonda, spesso non riconosciuta, legata ad un sostanziale timore evocato da una vita adulta che viene vista come un'arena dove trovano ampio spazio la messa in gioco, il rischio e il possibile conseguente dolore.

Imparare a diventare 𝘀𝗴𝘂𝗮𝗿𝗱𝗼 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗶𝗼𝗿𝗲 significa allenarsi ad osservare tutto ciò che accade dentro di noi, come picchi ...
26/10/2025

Imparare a diventare 𝘀𝗴𝘂𝗮𝗿𝗱𝗼 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗶𝗼𝗿𝗲 significa allenarsi ad osservare tutto ciò che accade dentro di noi, come picchi emotivi improvvisi, tensioni nel corpo, impulsi meccanici reattivi, senza identificarci immediatamente con questi contenuti e senza giudicarli come giusti o sbagliati.

Semplicemente sono, al di là di ogni etichetta che possiamo appiccicare.

In pratica, siamo chiamati a coltivare una 𝗽𝗿𝗲𝘀𝗲𝗻𝘇𝗮 vigile, curiosa e il più possibile 𝗻𝗲𝘂𝘁𝗿𝗮, capace di dire internamente: “𝘐𝘯 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘰 𝘮𝘰𝘮𝘦𝘯𝘵𝘰 𝘴𝘦𝘯𝘵𝘰 𝘢𝘨𝘪𝘵𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘯𝘦𝘭𝘭𝘰 𝘴𝘵𝘰𝘮𝘢𝘤𝘰… 𝘯𝘰𝘵𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘪𝘭 𝘳𝘦𝘴𝘱𝘪𝘳𝘰 𝘴𝘪 𝘢𝘤𝘤𝘰𝘳𝘤𝘪𝘢… 𝘤’𝘦̀ 𝘪𝘳𝘳𝘪𝘵𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘤𝘩𝘦 𝘴𝘵𝘢 𝘳𝘢𝘱𝘪𝘥𝘢𝘮𝘦𝘯𝘵𝘦 𝘴𝘢𝘭𝘦𝘯𝘥𝘰".

Ad esempio, durante una discussione potremmo avvertire una stretta alla gola e l'urgenza di difenderci. Invece di reagire impulsivamente, possiamo fermarci anche solo mezzo secondo e riconoscere ciò che sta accadendo dentro di noi. Riuscire a posticipare di una frazione di secondo la reazione esteriore è già una conquista enorme e il ritorno di una buona quota di potere a noi.

𝗤𝘂𝗲𝘀𝘁𝗼 𝘀𝗲𝗺𝗽𝗹𝗶𝗰𝗲 𝗮𝘁𝘁𝗼 𝗱𝗶 𝗰𝗼𝗻𝘀𝗮𝗽𝗲𝘃𝗼𝗹𝗲𝘇𝘇𝗮 𝘀𝗼𝘀𝗽𝗲𝗻𝗱𝗲 𝘂𝗻 𝗮𝘁𝘁𝗶𝗺𝗼 𝗹'𝗮𝘂𝘁𝗼𝗺𝗮𝘁𝗶𝘀𝗺𝗼 𝗲𝗺𝗼𝘁𝗶𝘃𝗼 𝗲 𝗰𝗶 𝗿𝗲𝘀𝘁𝗶𝘁𝘂𝗶𝘀𝗰𝗲 𝘂𝗻𝗮 𝗽𝗼𝘀𝘀𝗶𝗯𝗶𝗹𝗶𝘁𝗮̀ 𝗱𝗶 𝘀𝗰𝗲𝗹𝘁𝗮.

I benefici concreti sono una maggiore stabilità e regolazione interiore, una minore reattività ed una migliorata capacità di modulare lo stress.

Col tempo, questo sguardo va a costruire un vero e proprio 𝙩𝙚𝙨𝙩𝙞𝙢𝙤𝙣𝙚, un alleato silenzioso che ci permette non di controllare le emozioni, ma di restare presenti, di dimorare in loro senza esserne travolti.

È da lì che nasce la libertà autentica.

Non è una libertà DEI propri automatismi, finalmente liberi di esprimersi senza filtri od ostacoli, ma DAI propri automatismi.

[𝗟𝗮 𝗽𝘀𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼𝗴𝗶𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗶 𝗻𝗮𝘀𝗰𝗼𝗻𝗱𝗲 𝗱𝗶𝗲𝘁𝗿𝗼 𝗮𝗹𝗹𝗼 𝘀𝗯𝗮𝘁𝘁𝗲𝗿𝗲 𝗹𝗲 𝗽𝗼𝗿𝘁𝗲: 𝘁𝗿𝗮 𝗿𝗶𝗰𝗵𝗶𝗲𝘀𝘁𝗲 𝗱𝗶 𝗮𝘁𝘁𝗲𝗻𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗲 𝗯𝗶𝘀𝗼𝗴𝗻𝗼 𝗱𝗶 𝗰𝗼𝗻𝗳𝗶𝗻𝗶 𝗽𝗶𝘂̀ 𝘀𝗮𝗻𝗶...
24/10/2025

[𝗟𝗮 𝗽𝘀𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼𝗴𝗶𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗶 𝗻𝗮𝘀𝗰𝗼𝗻𝗱𝗲 𝗱𝗶𝗲𝘁𝗿𝗼 𝗮𝗹𝗹𝗼 𝘀𝗯𝗮𝘁𝘁𝗲𝗿𝗲 𝗹𝗲 𝗽𝗼𝗿𝘁𝗲: 𝘁𝗿𝗮 𝗿𝗶𝗰𝗵𝗶𝗲𝘀𝘁𝗲 𝗱𝗶 𝗮𝘁𝘁𝗲𝗻𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗲 𝗯𝗶𝘀𝗼𝗴𝗻𝗼 𝗱𝗶 𝗰𝗼𝗻𝗳𝗶𝗻𝗶 𝗽𝗶𝘂̀ 𝘀𝗮𝗻𝗶].

Sb*****si alle spalle una porta non è solo un atto impulsivo, ma spesso veicola tutto un sottobosco di linguaggio emotivo non verbalizzato.

In psicologia, questo gesto è considerato una forma di 𝘤𝘰𝘮𝘶𝘯𝘪𝘤𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦 𝘯𝘰𝘯 𝘷𝘦𝘳𝘣𝘢𝘭𝘦 𝘢𝘥 𝘢𝘭𝘵𝘢 𝘪𝘯𝘵𝘦𝘯𝘴𝘪𝘵𝘢̀, con cui la persona tenta di esprimere qualcosa che non riesce a dire a parole, tipicamente rabbia trattenuta, frustrazione, richiesta di ascolto, bisogno di affermare un confine personale quando sembra già violato.

È un modo di farsi sentire, anche in senso letterale, quando ci si percepisce ignorati, invalidati o impotenti di fronte ad una relazione o ad un conflitto.

In molti casi, il gesto non è diretto a ferire l’altro, ma a dire: «𝘌𝘴𝘪𝘴𝘵𝘰. 𝘎𝘶𝘢𝘳𝘥𝘢𝘮𝘪. 𝘈𝘴𝘤𝘰𝘭𝘵𝘢𝘮𝘪.» È, spesso, il tentativo disperato di interrompere un senso di invisibilità o di debolezza relazionale.

Dietro l’impatto del gesto c’è quasi sempre un 𝗯𝗶𝘀𝗼𝗴𝗻𝗼 𝗽𝗿𝗼𝗳𝗼𝗻𝗱𝗼 𝗱𝗶 𝗲𝘀𝘀𝗲𝗿𝗲 𝗿𝗶𝗰𝗼𝗻𝗼𝘀𝗰𝗶𝘂𝘁𝗶, più che di distruggere o fare male.

Sba***re le porte può anche rappresentare una difesa primitiva, un picco esplosivo di attivazione emotiva che non trova ancora una via di regolazione più matura.

Nel lavoro terapeutico, la chiave non è mai reprimere forzatamente il comportamento, ma accompagnare la persona nel dare voce a ciò che non ha mai potuto esprimere in modo sicuro.

[𝗟𝗮 𝗽𝘀𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼𝗴𝗶𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝘃𝗶𝘁𝘁𝗶𝗺𝗮: 𝗶 𝘃𝗮𝗻𝘁𝗮𝗴𝗴𝗶 𝗻𝗮𝘀𝗰𝗼𝘀𝘁𝗶 𝗰𝗵𝗲 𝗹𝗮 𝗯𝗹𝗼𝗰𝗰𝗮𝗻𝗼 𝗶𝗻 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗼 𝗿𝘂𝗼𝗹𝗼].Rimanere nella posizione psicologica ...
22/10/2025

[𝗟𝗮 𝗽𝘀𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼𝗴𝗶𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝘃𝗶𝘁𝘁𝗶𝗺𝗮: 𝗶 𝘃𝗮𝗻𝘁𝗮𝗴𝗴𝗶 𝗻𝗮𝘀𝗰𝗼𝘀𝘁𝗶 𝗰𝗵𝗲 𝗹𝗮 𝗯𝗹𝗼𝗰𝗰𝗮𝗻𝗼 𝗶𝗻 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗼 𝗿𝘂𝗼𝗹𝗼].

Rimanere nella posizione psicologica della vittima non è quasi mai una scelta consapevole.

Eppure, a livello profondo, questo ruolo può offrire un vantaggio invisibile, tanto impalpabile quanto potente: la possibilità di evitare il peso della responsabilità.

Finché mi percepisco come vittima degli eventi, delle persone, dell'ambiente esterno, delle circostanze avverse o del destino, non devo prendere decisioni, non devo espormi, non rischio di fallire o di andare incontro a rifiuto.

𝘐𝘭 𝘮𝘰𝘯𝘥𝘰 𝘧𝘶𝘰𝘳𝘪 𝘩𝘢 𝘶𝘯 𝘨𝘳𝘢𝘯𝘥𝘦 𝘱𝘰𝘵𝘦𝘳𝘦 𝘴𝘶 𝘥𝘪 𝘮𝘦, 𝘦̀ 𝘢𝘭 𝘵𝘪𝘮𝘰𝘯𝘦 𝘥𝘦𝘭𝘭𝘢 𝘮𝘪𝘢 𝘷𝘪𝘵𝘢.

Rimango in uno stato bloccato e in una forma di immobilità che, sul piano inconscio, mi illude di essere al sicuro.

Questo stato psicologico permette alla persona di mantenere un'identità chiara e coerente ("𝘪𝘰 𝘯𝘰𝘯 𝘱𝘰𝘴𝘴𝘰 𝘧𝘢𝘳𝘤𝘪 𝘯𝘶𝘭𝘭𝘢", "𝘯𝘰𝘯 𝘦̀ 𝘪𝘯 𝘮𝘪𝘰 𝘱𝘰𝘵𝘦𝘳𝘦 𝘤𝘢𝘮𝘣𝘪𝘢𝘳𝘦 𝘭𝘦 𝘤𝘰𝘴𝘦"), di cercare legittimamente compassione, protezione o attenzione da parte degli altri e di non affrontare il dolore della propria autonomia.

È un meccanismo di sopravvivenza antico, che protegge dal terrore più profondo di 𝗿𝗶𝗰𝗼𝗻𝗼𝘀𝗰𝗲𝗿𝗲 𝗶𝗹 𝗽𝗿𝗼𝗽𝗿𝗶𝗼 𝗽𝗼𝘁𝗲𝗿𝗲 𝗽𝗲𝗿𝘀𝗼𝗻𝗮𝗹𝗲 e, quindi, anche la propria responsabilità sulla direzione di vita da prendere.

La vittima quindi rinuncia alla libertà per sfuggire al rischio e alla paura, ottenendo in cambio un senso illusorio di sicurezza e di identità.

𝗟𝗮 𝗳𝗶𝗴𝘂𝗿𝗮 𝗱𝗲𝗹 𝘀𝗮𝗹𝘃𝗮𝘁𝗼𝗿𝗲: 𝗽𝗲𝗿𝗰𝗵𝗲́ 𝘀𝗽𝗲𝘀𝘀𝗼 𝘃𝗶𝗲𝗻𝗲 𝗿𝗶𝗳𝗶𝘂𝘁𝗮𝘁𝗮?

Nella psicologia della vittima c’è poi spesso, seppur inconsciamente, l’attesa di un salvatore. Qualcuno che finalmente la comprenda, la protegga, decida al posto suo e la sollevi dalla fatica di agire.

Questo è tipico del triangolo vittima-salvatore-carnefice.
La vittima delega la propria forza all’esterno, sperando che arrivi "quello giusto" a salvarla.

Ma ecco il paradosso: quando il salvatore arriva per davvero, nella maggior parte dei casi viene rifiutato.

Perché?

Le ragioni sono sottili ma potenti:

- 𝘼𝙘𝙘𝙚𝙩𝙩𝙖𝙧𝙚 𝙞𝙡 𝙨𝙖𝙡𝙫𝙖𝙩𝙤𝙧𝙚 𝙨𝙞𝙜𝙣𝙞𝙛𝙞𝙘𝙝𝙚𝙧𝙚𝙗𝙗𝙚 𝙖𝙘𝙘𝙚𝙩𝙩𝙖𝙧𝙚 𝙙𝙞 𝙪𝙨𝙘𝙞𝙧𝙚 𝙙𝙖𝙡𝙡𝙖 𝙥𝙤𝙨𝙞𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙙𝙞 𝙞𝙢𝙥𝙤𝙩𝙚𝙣𝙯𝙖. E questo comporta inevitabilmente responsabilità, decisioni, rischio, che spaventa più della sofferenza a cui ormai si è assuefatta.

- 𝙇𝙖 𝙫𝙞𝙩𝙩𝙞𝙢𝙖 𝙣𝙤𝙣 𝙫𝙪𝙤𝙡𝙚 𝙚𝙨𝙨𝙚𝙧𝙚 𝙨𝙖𝙡𝙫𝙖𝙩𝙖, 𝙢𝙖 𝙘𝙤𝙢𝙥𝙧𝙚𝙨𝙖. Se il salvatore arriva proponendo soluzioni pratiche anziché una vera connessione e sintonizzazione emotiva, può essere percepito come invasivo, arrogante o, addirittura, come un nuovo carnefice.

- 𝙄𝙡 𝙧𝙪𝙤𝙡𝙤 𝙙𝙞 𝙫𝙞𝙩𝙩𝙞𝙢𝙖 𝙘𝙤𝙣𝙛𝙚𝙧𝙞𝙨𝙘𝙚 𝙪𝙣'𝙞𝙙𝙚𝙣𝙩𝙞𝙩𝙖̀. Se qualcuno davvero la libera, chi diventa? Con quale forza interiore sostituisce il vuoto che si formerebbe?

- 𝙇𝙖 𝙫𝙞𝙩𝙩𝙞𝙢𝙖 𝙩𝙚𝙢𝙚 𝙞𝙣𝙘𝙤𝙣𝙨𝙘𝙞𝙖𝙢𝙚𝙣𝙩𝙚 𝙡𝙖 𝙡𝙞𝙗𝙚𝙧𝙩𝙖̀. In questo modo non potrà più attribuire all'altro, al mondo avverso o alla sfortuna la colpa della propria vita che non la soddisfa.

Il prezzo da pagare per rimanere nel ruolo di vittima, soprattutto nel medio-lungo termine, è altissimo.

Basterebbe già questa consapevolezza, integrata nella carne, per smuovere qualcosa sul piano della coscienza e riconoscere che, in fondo, si tratta di un ruolo, di una polarità nel triangolo vittima-salvatore-carnefice.

In tutto questo, la psicoterapia olistica non ha il compito di salvare la vittima, ma di accompagnarla in un percorso di consapevolezza e di integrazione del proprio 𝗹𝗮𝘁𝗼 𝗼𝘀𝗰𝘂𝗿𝗼 e delle proprie ombre.

La vera uscita dal ruolo avviene solo quando la vittima smette di cercare un salvatore e sceglie, finalmente, di diventare il soggetto attivo della propria vita.

Indirizzo

Via Guglielmo Marconi, 3/B/Scala F
Novara
28100

Orario di apertura

Lunedì 09:00 - 13:00
15:00 - 20:00
Martedì 09:00 - 13:00
15:00 - 20:00
Mercoledì 09:00 - 13:00
15:00 - 20:00
Giovedì 09:00 - 13:00
15:00 - 20:00
Venerdì 09:00 - 13:00
15:00 - 20:00
Sabato 09:00 - 13:00

Telefono

+393287507122

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La psicoterapia come via verso l’Anima.

Non possiamo ignorare l'inconscio. Non possiamo fingere che la nostra ombra non esista. Non possiamo pretendere di respingere per sempre tutto ciò che non ci piace, o a cui non vogliamo dare diritto di cittadinanza. Le risposte più esatte su chi siamo risiedono proprio nella nostra ombra. Diverse nostre risorse, e talenti, si celano nell'ombra.

Lo scopo più grande della Psicoterapia Medica Olistica è lo svolgimento di un lavoro specifico sulla propria parte ombra, sul proprio inconscio, sia mentale che emotivo. Rendere coscienti le nostre ombre è la via più rapida verso l'integrità del proprio Essere, è un ponte sicuro verso la propria Anima e verso l'ingresso del Divino nella nostra Vita.